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Figli dell'uragano - Storm Children: Book One - Mga anak ng unos, unang aklat


Regia:Diaz Lav

Cast e credits:
Fotografia: Lav Diaz; montaggio: Lav Diaz; produzione: Sine Olivia Pilipinas, Dmz Docs; distribuzione: Zomia Cinema/Malastrada Film; origine: Filippinbe, 2014; durata: 143'.

Trama:Le Filippine sono la nazione a maggiore rischio tornado al mondo: ogni anno sono colpite da più di venti tempeste tropicali. Nel 2013 il tifone Yolanda ha scatenato tutta la sua potenza sull'arcipelago asiatico, lasciandosi alle spalle scenari di distruzione apocalittica. Lav Diaz si è lanciato per le strade devastate dalla tempesta dove i bambini continuano a giocare tra le macerie.

Critica (1):«Del terribile il bello non è che il principio». Questo estratto delle Eligie Duinesi di R. M. Rilke era posto in esergo di Death in the Land of Encantos con cui Lav Diaz ottenne nel 2012 la Menzione speciale, dalla giuria della sezione Orizzonti, alla 64« Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia. Un'opera colossale di 9 ore (tanto quanto impiegò il tifone Durian a distruggere il paesaggio filippino) sospesa tra l'incanto e il terrore della forza distruttrice di una natura maestosa.
Nel 2013 un nuovo tornado, Yolanda, ha scatenato tutta la sua potenza sull'arcipelago asiatico, lasciando, dopo il suo passaggio, scenari di distruzione apocalittica, che Diaz ha deciso di tornare a filmare. Il lavoro venuto alla luce, presentato poi l'anno successivo, è Storm Children, Book 1, ritorno al documentario dopo An Investigation on the Night That Won't Forget, distribuito, col titolo I figli dell'uragano (…) . Va detto che il Leone d'Oro è certo una bellissima «coincidenza» ma Zomia, piccola distribuzione indipendente, aveva già deciso da tempo la data di uscita di questo film di Lav Diaz, a dimostrazione che l'indistribuibilità sbandierata come un atto di accusa contro il suo magnifico La donna che partì (appellandosi alla «lunghezza»???) non ha alcun fondamento se si immagina un mercato cinematografico vita-le, differenziato, capace di indirizzarsi a più pubblici contemporaneamente.
La visione de I figli dell'uragano è quindi una opportunità importante, soprattutto per chi ancora non ha avuto avuto occasione di potersi confrontare con uno dei maggiori autori contemporanei, che ha scosso, con la propria urgenza espressiva, capace di declinare la condizione di pochezza produttiva in una risorsa di inediti radicalismi formali – contenti in sé i più diversi regimi di scrittura e di rappresentazione - il panorama cinematografico mondiale.
La cognizione e l'elaborazione, formale, del dolore (quello di una popolazione falcidiata da catastrofi naturali e politiche – il colonialismo spagnolo e americano prima, e la dittatura di Marcos e successori poi) sono il fulcro del cinema di Lav Diaz. E il dolore a esigere che venga lasciata una traccia di sé. Solo salvandola dall'oblio del silenzio è possibile dare alla sofferenza un'occasione di riscatto, facendo di questa testimonianza.
Meglio di qualsiasi panegirico sono le paro-le del regista a raccontare cos'è I figli dell'uragano: «L'impeto per questo lavoro, all'inizio, era l'idea di tempesta nell'animo umano, e non solo nella psiche filippina. Ho iniziato a girare, non preoccupandomi di uno stile o una struttura. Ho alloggiato e visitato nelle città e isole colpite dalle alluvioni. Stavo solo documentando ciò che avveniva, cercavo un filo conduttore, cercavo una sto-ria, o la storia. Quando poi mi sono seduto a controllare il girato, mi sono trovato di fronte centinaia e centinaia di immagini che spaziavano dallo straziante al magnifico, dalla depressione alla speranza, dal terrore all'innocenza Ho capito che dietro alla distruzione e alla disperazione, c'era anche l'immagine del bambino perduto. Perché sono loro, i bambini, le vittime più grandi».
I figli dell'uragano è un reportage che sa cogliere nel caos postcataclisma momenti di lirismo improvviso. Siamo messi di fronte a un paesaggio che ha l'aspetto di un day alter, di un'apocalisse già compiuta, una landa detritica battuta dalla pioggia, inondata e squassata dall'acqua. Tra le macerie, all'ombra di relitti di navi spiaggiate dalla tempesta, sopravvissuti alla furia atmosferica, i bambini cercano, tra i resti di ciò che è stato, qualcosa; non sappiamo cosa. E nono-stante la distruzione attorno riescono a divertirsi. Pochissime parole, semplici e bruta-li nel raccontare la verità di cui sono testimoni. Questo interessa far conoscere a Diaz. Perché se da una parte i nubifragi sono sciagura e alibi per intere generazioni di Filippini lasciati nell'inedia da un governo inesistente, dall'altra ci sono centinaia di bambini che, sopravvissuti alla tragedia, non trova-no altri mondi in cui giocare. Se la dichiarazione, prima riportata, del regista potrebbe far pensare a un registro patetico, basteranno davvero pochi attimi di visione per ricredersi: a dire, a parlare in questo documenta-rio (esattamente così come dovrebbe essere) sono solo le immagini.
In From What Is Before la voce off di Diaz ci dice: «Questa storia è la memoria di un cataclisma. Questa storia è la memoria del mio paese». Il regista conosce il fatalismo della propria cultura (tutto si ripete, dicono i personaggi di A Lullaby to the Sorrowful Mystery, «È un fatto – racconta lo stesso regista: le Filippine sono il territorio più vessato da-gli uragani di tutta la Terra. Subiscono dai venti a i ventotto tifoni ogni anno, e parliamo di tifoni davvero potenti»), però in I figli dell'uragano, senza alcuna enfasi retorica, concentra tutto l'impianto filmico attorno ai sussulti di inconsapevole ed eroica vitalità dei bambini. Del resto ai loro occhi, come scrive Elsa Morante in Il mondo salvato dai ragazzini, «in sostanza e verità tutto questo non è nient'altro che un gioco».
Matteo Marelli, il manifesto, 15/9/2016

Critica (2):Perché abbiamo l’impressione che in due-tre immagini di Lav Diaz ci sia più cinema che in quasi tutto il cinema che ci capita di vedere ultimamente?
I figli dell'uragano viene presentato come “documentario”. E in effetti documenta un mondo, che potremmo definire post-apocalittico – alcuni luoghi delle Filippine sconvolti dalla furia della natura – se non brulicasse di vita, di ostinato attaccamento all’esistenza. Ma in questo “documentario” ci sono anche tutte le storie, le emozioni, le idee che altri provano a raccontare, suggerire, spiegare, senza sapere come guardarle e quindi come mostrarle davvero (e allora le storie zoppicano, le emozioni risultano posticce, le idee diventano luoghi comuni).
Stanno dentro le inquadrature insistite, il rumore della pioggia incessante (e del traffico sotto la pioggia), le parole rare, semplici e brutali nella loro dolorosa verità (una famiglia sterminata dal tifone, come tante altre, un villaggio semi-distrutto), i bambini e i ragazzini smarriti, le case, le cose, l’acqua assassina, sì, ma anche l’acqua per cucinare, bere, lavarsi, giocare.
Ci sono le storie e anche la storia. Perché ciò che mostra-racconta-rivela Lav Diaz sta nei luoghi devastati dai tifoni così come nella psiche della gente che li abita, un popolo perseguitato da una catastrofe continua, che prova a costruire sulle rovine (in attesa della prossima ineluttabile tragedia), come quei ragazzi sulla spiaggia che scavano fra i detriti e l’immondizia alla ricerca di chissà quale tesoro, o come quegli altri, in città, che vanno a pesca di plastica, sul bordo di strade inondate.
La formidabile densità di quelle immagini in bianco e nero. La capacità di dire così tante cose senza bisogno di dirle. Un piccolo scarto, un cambio di prospettiva, e ti sembra di vedere meglio, di capire ciò che prima non riuscivi a vedere. Scarti che costruiscono “l’azione”, che alimentano l’emozione di una storia che non ha bisogno di una trama, nel senso comune del termine (ma una “trama” c’è, un percorso, una traiettoria ideale, alla fine quasi un crescendo).
Stavolta Lav Diaz decide di guardare i bambini. Ragazzi che giocano con l’acqua che corre sull’asfalto, che si aggirano tra gli scarti, i pezzi di città in disfacimento, che ciondolano da soli o in compagnia, che portano taniche d’acqua potabile, ancora e poi ancora, che guardano il tempo che passa insieme ai genitori, che ricordano, sorridono, aspettano (cosa?), che si arrampicano e poi si tuffano dalle navi relitto lasciate dalla catastrofe.
I figli dell'uragano (...) ti trascina in quel mondo e non ti molla più. Inesorabile. Ipnotico. Non ti chiede chissà quale adesione intellettuale, non "fa informazione” e men che meno folklore o antropologia, non è uno di quei documentari che guardano le cose e le persone da lontano, frettolosamente, con il distacco di “chi sa” di “chi capisce”, lasciando lo spettatore comodo nella sua posizione di osservatore impegnato. Qui siamo anima e corpo tra i sopravvissuti di un mondo vero, vivo, percepiamo il dolore, lo smarrimento, il fatalismo, così come sentiamo e vediamo la voglia di vivere di quei ragazzini, le vittime innocenti, esili macchie scure che si aggirano dentro quella vasta, grigia desolazione, esaltata dalla nitidezza delle immagini e dello sguardo di Lav Diaz.
Fabrizio Tassi, cineforum.it, 16/9/2016

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