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La La Land


Regia:Chazelle Damien

Cast e credits:
Sceneggiatura: Damien Chazelle; fotografia: Linus Sandgren; musiche: Justin Hurwitz - la canzone "City of Stars" (musica di Justin Hurwitz; parole di Benj Pasek e Justin Paul) è interpretata da Ryan Gosling ed Emma Stone; la canzone "Audition (The Fools Who Dream)" (musica di J. Hurwitz; parole di B. Pasek e J. Paul) è interpretata da Emma Stone.; montaggio: Tom Cross; scenografia: David Wasco; arredamento: Sandy Reynolds-Wasco; costumi: Mary Zophres; effetti: Crafty Apes; suono: Lee Ai-Ling; interpreti: Ryan Gosling (Sebastian), Emma Stone (Mia), John Legend (Keith), J.K. Simmons (Boss), Finn Wittrock (Greg), Rosemarie DeWitt (sorella di Sebastian), Sonoya Mizuno (Caitlin), Jason Fuchs (Carlo), Meagen Fay (madre di Mia), Olivia Hamilton (Bree), Claudine Claudio (Karen), Dempsey Pappion (Charles), Zoë Hall (Chelsea), Callie Hernandez (Tracy), Josh Pence (Josh), Jessica Rothe (Alexis), Hemky Madera (Jimmy), Jordan Ray Fox (Nathan), Anna Chazelle (Holly); produzione: Impostor Pictures-Gilbert Films-Marc Platt Productions; distribuzione: 01 Distribution; origine: Usa, 2016; durata: 127'.

Trama:L'intensa e burrascosa storia d'amore tra un'attrice e un musicista che si sono appena trasferiti a Los Angeles in cerca di fortuna. Mia è un'aspirante attrice che, tra un provino e l'altro, serve cappuccini alle star del cinema. Sebastian è un musicista jazz che sbarca il lunario suonando nei piano bar. Dopo alcuni incontri casuali, fra Mia e Sebastian esplode una travolgente passione nutrita dalla condivisione di aspirazioni comuni, da sogni intrecciati e da una complicità fatta di incoraggiamento e sostegno reciproco. Ma quando iniziano ad arrivare i primi successi, i due si dovranno confrontare con delle scelte che metteranno in discussione il loro rapporto. La minaccia più grande sarà rappresentata proprio dai sogni che condividono e dalle loro ambizioni professionali.

Critica (1):Se provate a fermare qualcuno che abbia tra i venti e i trent’anni in giro per Hollywood (ma la stessa cosa potrebbe accadere a Williamsburg/New York, Shoreditch/Londra, Neukölln/Berlino etc.) e chiedergli what you do in life? (domanda che in inglese è ambigua, perché sta a metà tra “che lavoro fai?” e “qual è la tua passione nella vita?”), la risposta – con uno spettro di variazioni minimo – sarà: “faccio lo sceneggiatore”, “faccio il DJ”, “faccio l’attrice”, “suono in un gruppo” etc. È solo insistendo che si verrà a sapere la realtà della propria condizione: “sì, nel frattempo lavoro in un coffee shop”, “intanto faccio il postino per pagare le bollette”, “ho un part-time in un ristorante”. Insomma i miei sogni e la mia identità stanno da una parte, ma nel frattempo, intanto, temporaneamente…
È la grande contraddizione della cosiddetta “classe creativa” ai tempi della gentrification delle grandi metropoli occidentali (e dell’impennata dei valori immobiliari data dalla finanziarizzazione dell’economia): immaginarsi di accedere a un’èlite di lavori culturali al top mentre le città si riempiono di un’enorme quantità di pessimi lavori dequalificati. La temporalità di questa generazione è allora quella del transito e dell’interstizio (appunto, i “nel frattempo”, gli “intanto”, i “temporaneamente”), mentre la spazialità è quella divisa tra la realtà di una condizione di impoverimento, e l’immaginario “stellare” dei propri sogni. Il problema è: come riuscire a starci in mezzo?
È proprio questa contraddizione che viene messa in scena in La La Land, il bel film d’apertura di questo Festival del Cinema di Venezia, e a cui il regista Damien Chazelle prova a dare – ed è una scelta che non possiamo che giudicare azzeccata – la forma del musical. È la storia di Sebastian (Ryan Gosling) musicista jazz con la passione per le derive più sperimentali e free, che non volendo scendere a compromessi per la sua arte è costretto a suonare canzoncine nei ristoranti della città in cambio di pochi dollari; e di Mia (Emma Stone), attrice-wannabe che tenta di sbarcare il lunario passando da un’audizione a un’altra per piccole particine in serie Tv o in film di cui non le interessa niente, mentre nel frattempo lavora svogliata in un coffee shop degli Universal Studios.
Se la realtà è fatta di lavori sottopagati, traffico infernale, storici locali jazz che chiudono e diventano tapas bar, cinema che scompaiono, feste pacchiane, case piccole e fatiscenti etc., i sogni sono colorati, stellari, tanto irreali quanto affascinanti. E nei sogni, come in ogni musical che si rispetti, si canta e si balla. Pare che in La La Land la vita diventi sopportabile solo quando è filtrata tramite l’immaginario del sogno: e infatti le parti musicali – e in questo senso Chazelle dimostra di comprendere efficacemente la posta in palio formale del musical – si vengono a inserire proprio nei momenti di frattura e contraddizione, in cui la realtà mostra più chiaramente degli opposti inconciliabili. E c’è bisogno di un gesto di fuga.
Un film del genere non poteva che essere ambientato a Los Angeles. È proprio la città californiana uno dei veri protagonisti del film (molti i luoghi riconoscibili della città: dal Griffith Observatory alle Watts Tower, da Studio City alle colline di Hollywood) e questo per un motivo molto semplice: è Los Angeles la città per eccellenza dove il problema dei sogni e della realtà viene messo a tema; dove sembra che persino l’urbanistica e le stesse strade siano fatte di sogni e d’immaginario (come si vede in Los Angeles Plays Itself di Thom Andersen). È questo che ha fatto di Los Angeles la città che storicamente è stata identificata con il progetto americano di realizzazione dei propri desideri. Ma se il cinema americano ha spesso saputo guardare anche all’ “altra faccia” di L.A. – la Hollywood dei boulevard of broken dreams; quella dei dive bar, degli strip club di Hollywood, delle prostitute e dei loser: quel cinema insomma che ha saputo guardare al sogno di Los Angeles dal punto di vista del disincanto – il musical è invece un genere che per ragioni quasi strutturali non può che prendere seriamente i sogni. Alla lettera.
Qual è dunque la relazione tra i sogni – che Mia e Sebastian tentano in ogni modo di realizzare – e una realtà disincantata e mortificante? Come fare per trovare una mediazione tra l’immaginario e la realtà? Bisogna forse cedere sul proprio desiderio e perdere la propria autenticità (magari andando a suonare in una band commerciale, nel film interpretata da un bravissimo John Legend)? È forse giunto il momento, dopo l’ennesima delusione, di “crescere” – come dice a un certo il personaggio interpretato da Ryan Gosling – e trovare un lavoro realistico? O i sogni possono diventare realtà? O forse è invece possibile continuare ad abitare questa scissione tra una vita che si nutre unicamente delle proprie illusioni e una realtà di piccoli lavori sottopagati e di povertà e marginalità?
La La Land in questo senso mostra forse il suo limite più grande: quello cioè di non riuscire ad affrontare con la sufficiente radicalità non tanto il difficile rapporto tra sogno e realtà (che a volte nel film pare limitarsi a un problema di dove mettere l’asticella del compromesso) quanto la realtà stessa del sogno. Il sogno insomma non è né una fuga dalla realtà né un’espressione del proprio vero Sé: è in sé stesso un’esperienza di scissione. E questa è una delle grandi riflessioni proprio del genere musical. Come veniva sottolineato da Gilles Deleuze in Immagine-Tempo parlando dei musical di Minelli, è lo statuto problematico del sogno la posta in palio del genere: in Yolanda and the Thief o in The Pirate ad esempio, Gene Kelly e Fred Astaire entrano nel sogno di una ragazza, ma questa cosa invece che essere un’esperienza risolutiva non può che portarsi dietro dei “rischi mortali” (ne è un esempio la lunga scena di Fred Astaire in Yolanda and the Thief che termina in modo angosciante con l’attore-ballerino intrappolato e quasi soffocato da delle lunghe strisce di stoffa). Il sogno simbolizzato dalle scene musicali di Minelli, non è “la soluzione” degli impasse della realtà, è semmai la loro messa in forma. Il problema dei sogni insomma non è la loro mancanza di realtà ma il loro “troppo” di reale.
In questo senso il limite del film si esprime anche nel deficit “tecnico” di Emma Stone e Ryan Gosling, le cui coreografie nelle scene di ballo sono al più decorative, ma che non riescono mai a “farsi immagine” in sé stesse e finiscono per rimanere un po’ “a lato” della storia (e non è un caso che le scene coreograficamente più riuscite siano proprio quelle collettive senza i protagonisti, come quella – davvero meravigliosa – attorno alle auto in coda sulle freeway di Los Angeles all’inizio del film). È come se il film riuscisse a pensare agli intermezzi musicali solo come proiezioni immaginarie “oltre” la realtà stessa, e non come a una forma di compromesso con il reale. Ma questo più che essere un problema del pur ottimo film di Chazelle è – si potrebbe dire – un problema del periodo storico in cui viviamo: dove l’immaginario più che mettere in forma d’immagine le contraddizioni del reale diventa lo strumento per la loro dissimulazione. E un modo per evitare di guardarle veramente.
Pietro Bianchi, cineforum.it, 27/1/2017

Critica (2):E diciamolo subito, che La La Land è un film straordinario. E che non serve essere appassionati di musical per capirne l’importanza e l’efficacia. Aiuta, certo, ma non è essenziale. Perché la cinefilia analitica rischia non soltanto di far perdere le sue tracce, ma anche di confonderle; a tal punto che, in mancanza d’altro, si citano – spesso a sproposito – Minnelli e la coppia Astaire-Rogers. Giusto perché quella scena ricorda o omaggia quell’altra, o un passo a due ne evoca un altro.
Eppure La La Land non c’entra quasi niente con il musical di Minnelli, e ben poco con quello di Sandrich o di Donen. E davvero non è sufficiente il set in cui lavora Mia (Emma Stone), il coffee shop negli studi della Warner, per convocare Cantando sotto la pioggia. Altrimenti va bene tutto, e il musical, ancora una volta, fa la figura di un immaginario di fantasia al lavoro, fondale dipinto, la solita fuga dalla realtà, il sogno quale rifugio e via banalizzando.
Chazelle è abbastanza chiaro da subito: messa da parte ogni possibile riflessione sui sessi (di cui era impregnato il musical hollywoodiano d’oro), e ipotecata un’appartenenza di genere con l’incipit, un pezzo musical en plein air di bella classicità, gli interessa parlare della realtà e alla realtà. E lo fa con una commedia che si scioglie nel dramma e che è un musical anomalo come lo erano i due capolavori in musica di Demy, Les parapluies de Cherbourg e Les demoiselles de Rochefort.
La La Land è il Les parapluies del Sogno americano: come Demy, e come già nel bellissimo esordio Guy and Madeline On a Park Bench, Chazelle usa il tempo quale antagonista, ostacolo alla realizzazione dei propri desideri, peso trasparente con cui fare i conti. Il finale da Seb’s, con quello sguardo conclusivo, ha tutta la melancolia della scena al distributore di benzina che chiude Les parapluies, un musical all singing but not dancing, il racconto di un privato sullo sfondo di uno stato delle cose forse non tragico però certamente autonomo, e anche per questo motivo amaro.
La La Land, che è un film sul modo di vivere la realtà e soprattutto una città (Los Angeles), che è un film contemporaneo nonostante certo vintage di sottofondo, che di Demy si preoccupa giustamente di recuperare l’afflizione, più di una non meglio specificata estetica, crede nei personaggi ma li fa scontrare con l’insopportabile corsa degli eventi, cioè con l’inevitabilità del mondo. L’oggi.
Allora mi sembra inutile ragionare di computo, che per giunta è operazione nostalgica un po’ necrofila; ritrovare nella parentesi all’Osservatorio Griffith sia Gioventù bruciata (richiamato peraltro direttamente), sia Balla con me di Taurog, è operazione immediata ma anche trascurabile (e perché non ricordare allora i due Allen sospesi per un intervallo fra le stelle di Manhattan e Magic In the Moonlight?): La La Land è un racconto crudele della giovinezza dove l’amore è penosamente un subordinato, senza acrimonia, senza rimproveri, solo il rimpianto che non possa essere diversamente. La vita “se fosse stata” che termina il film, e che ha la forza commovente e definitiva di quella sempre troppo dimenticata di Arizona Junior (ma c’è anche La 25a ora), è il vero musical di La La Land, non perché minnelliano, bensì per il suo significato di termine, chiusura del cerchio, fermata necessaria che di più non potrebbe essere e di più non avrebbe potuto.
«I guess I’ll see you in the movies» dice Sebastian a Mia, agli esordi della loro storia, un po’ sarcastico un po’ no, ed è insieme la speranza e il testamento del film stesso. Nei movies lei ci finisce per davvero, e non più con la sola illusione, sancendo però una fine. The End. E dunque la realtà riprende l’indipendenza e il potere, come accadeva in due dei musical più belli di sempre, il serial per la BCC Pennies from Heaven di Dennis Potter e l’adattamento hollywoodiano di Herbert Ross del 1981: La La Land ne condivide la tristezza senza mai doverli omaggiare o citare.
A riprendere l’autorità che le spetta è inoltre la città, dopo che si è cercato di commisurarla e conformala a sé. Non ho memoria di una Los Angeles così presente e così influente da Heat - La sfida; nemmeno quella di I protagonisti di Altman era così attiva. Chazelle è capace di renderla perfino quarta parete, perché questa Los Angeles, mentre piega Mia e Sebastian al proprio sé (non li accompagna, non li segue, non ne è un semplice contesto, ancor meno ne è una cornice), ti guarda, guarda lo spettatore chiedendogli di partecipare a un’idea confidenziale di solitudine, dal grande al piccolo, dal tutto al privato. Non un film su Los Angeles, ma un grande film su quanto Los Angeles sia decisiva.
Le fantasticherie del musical classico vestono dunque i vestiti nuovi dell’imperatore, smascherate da una realtà che, come in Pennies from Heaven, è chiamata a ricolorare l’uomo e i suoi sogni di tonalità diverse, colori diversi, ombre allungate. Il sorriso di Mia e di Sebastian al Seb’s, e quel leggerissimo gesto del capo, non possono colmare la distanza che si è creata (distanza non soltanto allegorica: lei è sulla via d’uscita, lui al pianoforte sul palco). Les parapluies de Cherbourg cantava in fondo la naturalezza malinconica di un destino già scritto. Quello di La La Land, di destino, è già dato all’inizio, in quel quadrato stretto stretto (Academy ratio?) del “Presented in CinemaScope”, che ingannevole si allarga ad accogliere il cielo di Los Angeles, i personaggi, il musical.
Pier Maria Bocchi, cineforum.it, 27/1/2017

Critica (3):

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