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Da quando Otar è partito - Depuis qu'Otar est parti


Regia:Bertuccelli Julie

Cast e credits:
Sceneggiatura
: Julie Bertuccelli, Bernard Renucci, in collaborazione con Roger Bohbot; fotografia: Christophe Pollock; montaggio: Emmanuelle Castro; musiche: Antoine Duhamel, Dato Evgenidze, Arvo Part; scenografia: Emmanuelle de Chauvigny; costumi: Nathalie Raoul; interpreti: Esther Gorintin (Eka), Nino Khomassouridze (Marina), Dinara Droukarova (Ada), Temur Kalandadze (Tenguiz), Rusudan Bolkvadze (Rusiko), Sacha Sarichvili (Alexi), Duta Skhirtladze (Niko), Abdallah Moundy; produzione: Les Films du Poisson; distribuzione: Esse&Bi Cinematografica; origine: Belgio / Francia, 2003; durata: 102’.

Trama:A Tibilisi, capitale della Georgia post-sovietica, tre donne, Eka, Marina e Ada, rispettivamente madre, figlia e nipote, condividono un vecchio appartament. L'anziana Eka vive nella continua attesa delle lettere del figlio Otar, emigrato a Parigi, che scrive regolarmente a casa, mandando ogni tanto dei soldi. Un giorno Marina riceve una telefonata che annuncia la morte di Otar. Marina non se la sente di dirlo alla madre e, con la complicità di Ada, le tiene nascosta la notizia. La bugia sconvolgerà le loro esistenze, spingendole a Parigi verso un destino sorprendente.

Critica (1):Vincitore della “Semaine de la Critique” all’ultimo festival di Cannes, il film fluisce nella sua febbrile libertà, più potente nella parte ambientata in Georgia piuttosto che negli spostamenti disordinati delle tre donne a Parigi. L’opera prima della Bertuccelli è comunque sentita e sincera, già capace di attrarre istintivamente. Tre sguardi generazionali femminili sull’assenza. Tra Tbilisi e Parigi in Da quando Otar è partito c’è una destabilizzazione del set, tutto sottomesso alla ricerca di una figura inesistente. La partenza/morte di Otar diventa nel film di Julie Bertuccelli movimento dominante, corpo fantasma che si materializza agli occhi della madre Eka e si dissolve davanti a quelli della sorella Marina e della nipote Ada. Queste ultime due infatti hanno appreso la notizia della morte dell’uomo e cercano di nasconderlo all’anziana donna. Continuano a far vivere così Otar agli occhi della donna inventando delle lettere. (...)
Julie Bertuccelli, al suo primo lungometraggio, mentre in precedenza si era formata realizzando prevalentemente documentari, disegna un ritratto di tre donne quasi in parallelo, tra complicità e distanza, diviso tra disperazione e attesa. Da una parte, Marina e Ada che sono a conoscenza della morte di Otar, dall’altra Eka che la ignora del tutto. La parola (quella scritta nelle lettere che l’anziana protagonista riceve, ma anche quella negata e/o manipolata dalla figlia e dalla nipote) diventa così il segno di una messinscena continuamente riformulata, in un continuo spostamento tra tragico e grottesco con quegli spostamenti verso quelle forme dell’assurdo in cui la Bertuccelli sembra guardare al cinema di Otar Ioseliani, del quale in passato è stata assistente. Così il film fluisce nella sua febbrile libertà, più potente nella parte ambientata in Georgia piuttosto che negli spostamenti disordinati delle tre donne a Parigi, in cui quell’improvvisazione-Nouvelle Vague appare invece un po’ più calcolata. Resta comunque il finale, con quella coinvolgente scena della separazione all’aeroporto quando Ada decide di restare nella metropoli transalpina. C’è uno sguardo appassionato nella Bertuccelli in percorso affettivo irregolare e pulsante, pieno di frasi non dette, di illusioni prolungate, di convivenze e fughe. Nei colori neutri, quasi freddi della fotografia di Christophe Pollock, la regista riesce a dar calore alle proprie immagini, a rendere le tre protagoniste vive, appassionate e sincere. Lo sguardo della Russia verso Occidente, inoltre, è sempre sommesso e mai urlato come nell’isterico cinema di Pavel Longuine (...) in cui la dimensione politica è sempre sottomessa a quella privata. Un esordio nel lungometraggio sentito e sincero, quello di Julie Bertuccelli, un cinema che al momento già attrae più di istinto che di cervello.
Simone Emiliani, Sentieri selvaggi

Critica (2):Niente sociologia postsovietica, niente scenari miserabili, niente gangster, o delusioni affogate nell’alcol. Da quando Otar è partito evita tutto ciò. Ed è con molta e spiritosa sobrietà che la più vecchia delle tre donne protagoniste, la nonna Eka, sfoggia con orgoglio un po’ snob la sua cultura francofona e francofila mentre non rinuncia a parlare bene della memoria del compaesano Stalin. Dunque, tre donne. Eka, sua figlia Marina e sua nipote, figlia di Marina, Ada. Convivono tra dignitosi stenti in una decrepita casa di Tbilisi, cadente ma fieramente adorna di una vecchia collezione di edizioni francesi. Il loro pensiero converge nell’attesa delle rare notizie che giungono da Parigi dove è emigrato Otar, il figlio prediletto della vecchia Eka e rispettivamente fratello e zio delle altre due. Quando Marina e Ada apprendono che Otar è morto in un incidente non hanno il coraggio di dirlo alla vecchia e sostengono la bugia anche quando Eka compra tre biglietti aerei per Parigi dopo aver venduto la collezione di libri. Farà da sola la scoperta della verità ma sosterrà ancora la bugia: Otar è certamente partito per l’America. Film di sfumature, atmosfere e recitazione. Illustrato soprattutto dalla novantenne interprete del ruolo di Eka, Esther Gorintin, francese di origine polacca diventata attrice a 85 anni. Lo sguardo risulta tanto più originale in quanto è opera di una regista, Julie Bertuccelli, non georgiana ma francese, innamorata della Georgia dopo aver lavorato per Iosseliani.
Paolo D’Agostini, la Repubblica

Critica (3):

Critica (4):
Julie Bertuccelli
(Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di) Redazione Internet; Redazione Internet; Redazione Internet; Redazione Internet (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di) Ufficio Cinema; Ufficio Cinema; Ufficio Cinema; Ufficio Cinema
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