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Cesare deve morire


Regia:Taviani Paolo, Taviani Vittorio

Cast e credits:
Sceneggiatura: Vittorio e Paolo Taviani; fotografia: Simone Zampagni; musiche: Carmelo Travia, Giuliano Taviani; montaggio: Roberto Perpignani; interpreti: Cosimo Rega (Cassio), Salvatore Striano (Bruto), Giovanni Arcuri (Cesare), Antonio Frasca (Marcantonio), Juan Dario Bonetti (Decio), Vincenzo Gallo (Lucio), Rosario Majorana (Metello), Francesco De Masi (Trebonio), Gennaro Solito (Cinna), Vittorio Parrella (Casca), Pasquale Crapetti (legionario), Francesco Carusone (indovino), Fabio Rizzuto (Stratone), Fabio Cavalli (regista teatrale), Maurilio Giaffreda (Ottavio); produzione: Grazia Volpi per Kaos Cinematografica-Stemal Entertainment-Le Talee-La Ribalta-Centro Studi Enrico Maria Salerno-Rai Cinema; distribuzione: Sacher; origine: Italia, 2012: durata: 76’.

Trama:Roma, carcere di Rebibbia. I detenuti di massima sicurezza recitano Shakespeare: all'interno del carcere, infatti, viene messo in scena un particolare allestimento del 'Giulio Cesare' in cui sentimenti e personaggi vivranno sulla scena con gli attori e nelle celle con i detenuti.

Critica (1):I Taviani e il teatro di Shakespeare. Trasformato in cinema – in un grande cinema – con la trovata geniale di far rappresentare uno dei suoi drammi più celebri, il Giulio Cesare, da detenuti di un carcere romano, quello di Rebibbia. Si comincia a colori. Con la ricerca fra i detenuti di quelli che potrebbero recitare in uno spettacolo che dovrà svolgersi tra le mura del carcere. Poi, in uno splendido bianco e nero esaltato dal digitale, inizia il dramma. Con i suoi interpreti che, scortati, lasciano le loro celle per partecipare alle prime prove in un palcoscenico improvvisato: le parti imparate a memoria, le battute dei primi atti, con un'altra splendida trovata, quella di lasciare che i singoli 'attori' si esprimano nei loro dialetti d'origine, in maggioranza meridionali, non solo non sminuendo quel testo quasi sacro ma, anzi, dotandolo di una vitalità e di sapori di cronaca dal vero di cui doveva far sfoggio quasi soltanto quando si recitava al Globe Theatre nell'inglese del Seicento. Allo snodarsi di fronte a noi della vicenda raccontata da Shakespeare, Paolo e Vittorio Taviani hanno qua e là accompagnato l'enunciato di piccoli casi privati di questo o quel detenuto coronati, a un certo momento, dalla constatazione che alcuni di loro fanno sulla contemporaneità di situazioni, per qualcuno anche personali, incontrate in un testo pur distante secoli da loro: quasi a testimoniare dell'eternità dell'arte. Si segue con il fiato sospeso. Certo, grazie a Shakespeare, ma anche per quella interpretazione diretta, anzi, addirittura nuda che, nonostante queste o forse proprio per questo, ad ogni svolta, ad ogni battuta è di una intensità sempre lacerante. Specie quando, per rappresentarci il coro dei Romani prima e dopo l'uccisione di Cesare, non si muovono masse in scena, ma si fanno ascoltare le invettive e le grida di altri detenuti affacciati numerosi da finestre con le sbarre. (...) L'ultimo Giulio Cesare che ho visto al cinema è stato quello di Mankiewicz, nel '53, con Marlon Brando. Da oggi ricorderò con altrettanta ammirazione quello dei fratelli Taviani, con Antonio Frasca.
Gian Luigi Rondi, Il Tempo Roma, 2/3/2012

Critica (2):A caldo, i Taviani hanno dedicato il premio «ai detenuti di Rebibbia che hanno dato tutto se stessi per realizzare questo film, e al regista Fabio Cavalli che lavora con loro da anni». Come ricorderete, Cesare deve morire prende spunto dal laboratorio teatrale che si svolge abitualmente all'interno del carcere romano per mettere in scena il Giulio Cesare di Shakespeare tra le mura della prigione, in modo dei tutto anti-naturalistico, con sapiente alternanza di bianco e nero e colore, eppure con incredibili accenti di verità. È un bellissimo film, che conferma l'eterna e sconcertante attualità dei testi shakespeariani, e l'Orso d'oro è un bellissimo premio. È anche un piccolo segno di un'Italia
che ricomincia a farsi rispettare: «L'Italia sta recuperando un po' di credibilità qui in Germania grazie al governo Monti, ci piace pensare che anche il nostro film possa dare un piccolo contributo», hanno dichiarato i fratelli.
Sperando che ora nessuno parli di «rinascita» del cinema italiano, salvo poi seppellirlo di nuovo al prossimo festival senza premi: il nostro cinema non è mai rinato perché non è mai morto, e Cesare deve morire è «solo» l'ennesima opera di due registi che tengono alta la bandiera, loro e nostra, da decenni. Ricordiamo che la Palma cannense a Padre padrone risale al 1977: «Dopo quella vittoria a
Cannes, e il successivo Gran Premio della giuria con La notte di San Lorenzo avevamo deciso di non andare più in concorso a nessun festival. Cesare deve morire ci ha spinto a cambiare idea. È un piccolo film, molto diverso da tutti gli altri che abbiamo fatto, è un'esperienza nuova anche per noi: la prova che bisogna sempre essere aperti al caso e alle sorpresa che la vita ti regala. Abbiamo pensato che la partecipazione in concorso a Berlino potesse aiutarlo, che la stampa avrebbe risposto in modo diverso, che un eventuale premio potesse spingere qualche spettatore in più al cinema. Perché ha ragione Salvatore Striano, il nostro protagonista: un film è come un bambino che nasce, deve affrontare un mondo difficile e a volte ostile, ma noi speriamo che Cesare deve morire venga visto... e che la gente, uscendo dal cinema, pensi: sono ergastolani, sì, saranno anche delinquenti, ma quanto sono bravi».
Alberto Crespi, L’Unità, 19/2/2012

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