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M. Butterfly - M. Butterfly


Regia:Cronenberg David

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura:
David Henry Hwang; fotografia: Peter Suschitzky; musica: Howard Shore; montaggio: Ronald Sanders; scenografia: Carol Spier; costumi: Denise Cronenberg; suono: Bryan Day; interpreti: Jeremy Irons (René Gallimard), John Lone (Song Liling), Ian Richardson (l’ambasciatore Toulon), Annabel Leventon (Frau Baden), Shizuko Hoshi (compagna Chin), Richard McMillian (il collega dell’ambasciata), Vernon Dobtcheff (agente Etancelin), Barbara Sukowa (Jeanne Gallimard); produzione: Gabriella Martinelli, per Geffen Pictures; distribuzione: Warner Bros.; origine: USA, 1993; durata: 102’.

Trama:Siamo nel 1964. René Gallimard, diplomatico francese in Cina, si innamora di Song, una diva dell'Opera di Pechino, che ne approfitta per carpirgli segreti militari. Rispedito in Francia, la incontra di nuovo e, credendo di salvare il figlio che si convince di aver avuto da lei, le passa documenti top secret. Processato, Gallimar scopre che Song è in realtà un uomo.

Critica (1):Debuttò al festival di Toronto, racimolò un milione e mezzo di dollari in due mesi e un pugno di teatri. Nessun battage, nemmeno per Jeremy Irons e John Lone/ultimo imperatore. Pochi l’hanno visto e quei pochi ne hanno scritto male: perché mai è stato prodotto, distribuito e imbavagliato? Risposta: perché David Geffen, già vice-presidente della Warner Bros., aveva portato M Butterfly a Broadway e allo Shaftsbury Theatre di Londra, con esiti trionfali. Perché Cronenberg aveva le carte in regola per un secondo exploit. Perché il suo cinema abita la zona morta fra il reale e l’immaginario, partorisce doppi e mutanti. Però la stampa americana boccia il film e alla Warner Bros mancano il coraggio e i quattrini per strapparlo all’oblio. Entrambe prendono un abbaglio: l’una apparentando M Butterfly e La moglie del soldato (troppo virile John Lone per clonare Jay Davidson), l’altra vagheggiandone gli incassi. Cronenberg se ne frega del verosimile; nulla gli importa dell’effetto-sorpresa o dell’affaire (pecoreccio) che ispirò il dramma; pochissimo dell’omosessualità, dell’androginia, del travestitismo, della devianza. Importano al pubblico dei talk-show, se mai; vi si arena l’attenzione della critica. Raboni così stroncava l’allestimento italiano con Tognazzi e Brachetti: “Sembra quasi che Hwang abbia deliberatamente trascurato il problema della verosimiglianza, considerando come una garanzia sufficiente la verità cronachistica dell’episodio (...) Se c’era nel fatto un potenziale spessore di senso (...) esso stava nell’insondabile ambiguità del comportamento del protagonista, nell’impossibilità di decidere con sicurezza se egli davvero ignorasse, oppure fingesse di ignorare, oppure fosse costretto dal suo inconscio ad ignorare l’effettiva identità dell’essere amato. Ho l’impressione che Hwang abbia (...) reso del tutto impraticabile, disinnescandola a priori, tale possibilità, per puntare invece su una spiegazione basata sull’ignoranza, l’ingenuità e i pregiudizi dell’uomo bianco”. (Corriere della Sera, 21 gennaio 1990). Impressione fondata. Sennonché Cronenberg smonta e rielabora la pièce. Chi abbia visto la messinscena londinese ricorda le tirate e i virtuosismi di un Anthony Hopkins-mattatore; chi quella italiana i voli grotteschi di un Tognazzi stanco e spaesato. Cronenberg decelera, prende le distanze dagli eventi, raffredda le scene madri, imbriglia i personaggi, licenzia la farsa e il mélo. Al contempo, gonfia la colonna sonora con le note della Butterfly pucciniana e inquina le immagini con i dettagli della partitura, del disco, della copertina, del grammofono. Si serve dell’aria Un bel dì vedremo per l’incipit del primo atto (il concerto), per quello del secondo (l’Opéra), per la fine del terzo (il suicidio). Nella scrittura polifonica, il contrappunto sovrappone due o più linee melodiche orizzontali; in quella cinematografica, il montaggio può alternare due azioni sincrone, ma spazialmente distanziate; sovrapporre le icone e la banda sonora. Con significati opposti e contrari. Già nei titoli di testa il melodramma sposa la computer-graphics; Puccini reclama un briciolo di pathos e Cronenberg glielo rifiuta; i diplomatici sono francesi, ma tradiscono un accento britannico. Ossimori? Antifrasi? Le marche linguistiche si sfrangiano e si annullano a vicenda, i contrasti sfumano, le dicotoie si svuotano? Ci convincono di meno i parallelismi storici: l’ Opera di Parigi e quella di Pechino, il ’68 e la Rivoluzione Culturale, il consolato francese e i burocrati cinesi. Ma non convincono neppure Cronenberg, che si riscatta soltanto quando la cronaca assurge a simbolo: vedi la Giustizia, il tribunale, i magistrati col tocco e la toga. È esistenziale il tema del film, dichiara Cronenberg. Non cronachistico, né scandalistico. Questa la chiave: “I am a man who loved a woman created by a man (…) What I loved was the lie”. Il sogno, l’illusione di una femminilità senza macchia, pudica, arcana, mansueta, lontanissima da quella indocile e volgare delle donne bianche. René vuole un rapporto onesto, “no falseness between us”. Però lascia che Song Liling inventi se stesso come donna, la Cina come Utopia; lascia che si metta-in-scena come Madama Butterfly. “Only a man – gli dice l’artista – knows how a woman is supposed to act”. Quando la recita finisce, quando l’illusione muore, René smette i panni dello “yankee vagabondo” e veste quelli della fanciulla turlupinata, il kimono, la parrucca, la biacca. In uno specchio aveva guardato se stesso e la moglie parodiare la Butterfly di Puccini. Con uno specchio si squarcia la gola. Montaggio alternato: Song Liling in giacca e cravatta, l’aspetto virile. Gli amanti hanno completato la trasformazione e si danno il cambio. L’Uomo e la Donna, l’Oriente e l’Occidente, dicotomie infrante. I ruoli e gli spazi, già antitetici, si rivelano omologhi. Reversibili, intercambiabili.
Luca Norcen, Segnocinema n. 65, genn.-febb. 1994

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
David Cronenberg
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