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Hong Kong Express - Chungking Express


Regia:Kar-Wai Wong

Cast e credits:
Sceneggiatura
: Wong Kar-Wai; fotografia: Christopher Doyle, Law Waikeung; montaggio: William Chang, Hai Kit-Wai, Kwong Chi-Leung; scenografia: William Chang; musica: Frankie Chan, Roel A.Gracia; interpreti: Brigite Lin Chin-Hsia (la donna senza nome), Takeshi Kaneshiro (agente 223); Faye Wang (Faye), Tony Leung Chiu-Wai (agente 663), Valerie Chow (la hostess); produzione: Chan Yi-Kan per la Jet Tone Production Co. LTD; distribuzione: Bim; origine: Hong Kong, 1994; durata: 100’.

Trama:Due storie amorose che hanno per protagonisti due giovani poliziotti e come tela di fondo Hong Kong con il centro residenziale di Chungking. L'agente 223, per rispettare una delle tante promesse che fa a sé stesso, compra solo scatolette di ananas che scadano il 1° maggio, mentre l'agente 633 ogni sera consola gli oggetti di casa sua che vede tristi per l'abbandono della sua fidanzata.

Critica (1):Altre solitudini. Altre emozioni. Altri sguardi. Vedendo Hong Kong Express di Wong Kar-Way abbiamo capito visceralmente che cosa hanno provato gli spettatori di trentacinque anni fa quando vedevano per la prima volta Fino all’ultimo respiro di Jean-Luc Godard. Uno sbalordimento dei sensi, un cinema che respira, leggero, fresco, spontaneo e intelligente come nessun “cinema d’autore” europeo è mai riuscito ad essere. (...)
Due storie, personaggi con dei numeri al posto dei nomi, donne e uomini, corpi che si sfiorano, attimi irresistibili, infiniti, dove tutto ciò che non è tenerezza, ansia, desideri, ecc.. è bandito. Wong Kar-Way “usa” due direttori della fotografia diversi, all’interno dello stesso film, eppure realizza un film a suo modo omogeneo, con tecniche di ripresa, punti di vista e tagli di luce sempre originali, mai banali. E, con quattro soldi, realizza il film in meno di tre mesi, cinepresa in spalla sempre in movimento, come gli occhi, spalle, gambe e sorrisi dei suoi protagonisti. Due storie, un unico comune denominatore: uscire dal vuoto, anche per un attimo, in cui la vita ti spinge. Ho Chi Wu è la matricola 223. È solo, la ragazza lo ha lasciato. E vagabonda per le notti di Chunking House, vivendo solo nell’attesa che il tempo non azzeri tutto ciò che è stato. Terrorizzato dalla civiltà della “scadenza”, dove ogni cosa ha una data scritta, entro cui “consumarla”. Altro che critica alla società dei consumi: qui è la vita stessa ad essere “consumata”, violata, nel tentativo di dare risposte alla “cosificazione” dei nostri rapporti quotidiani. Risposte che, nel secondo episodio, tenta di dare la matricola 663, che mostra la cecità attraverso cui filtriamo ormai le nostre vite. Siamo convinti di esistere, di comunicare, di guardarci attorno con spirito di osservazione. Ma siamo perduti nel buio. Persi dietro i fantasmi dei nostri desideri. 663 vive nell’attesa che la sua bella hostess, che lo ha piantato, ritorni. E si chiude in un’esistenza fatta di caffè freddi, e lunghe chiacchierate con gli oggetti della sua abitazione. Completamente all’oscuro di quella presenza viva, pulsante, anima in movimento, isola ribelle e sognatrice chiamata Faye. E per lei entrare nella casa di lui è come entrargli dentro, attraversarne i pensieri, i sospiri, le voglie nascoste, i mille rivoli attraverso cui celiamo i nostri bisogni, persi dietro illusioni che hanno solo una concretezza fantasmatica. Faye continuamente mette dei nuovi pesci nell’acquario di 663, quasi a voler istillare nuova vita nel “suo” 663. Ma le continue modifiche nel suo appartamento non scuotono affatto il giovane poliziotto. O le ignora oppure pensa siano dovute alla sua bella hostess. Ciò che splende in questa storia è che i destini s’incrociano sempre («In quel breve istante d’intimità, un millimetro appena ci divide. Di lei non sapevo niente... 6 ore più tardi lei s’innamorava di un altro»), ma non sono mai “segnati”, tutt’altro. L’individuo, la sua forza morale ed emozionale ha un ruolo centrale. Nel momento in cui 663 si “accorge” di Faye, e la invita ad uscire insieme, lei... scompare. Per riapparire un anno dopo, in un finale aperto solo quanto quello del Troisi di Pensavo fosse amore...
Won Kar-Way caratterizza il suo film “leggero”, folle, romantico e disincantato, per una cura quasi maniacale degli spazi. A memoria non ricordiamo di aver visto un film ambientato in spazi così ristretti da avere un’apertura e un “respiro” come quello di Hong Kong Express. Le cose, gli oggetti in questa pellicola non parlano e provano emozioni solo per 663. Ogni oggetto, angolo, taglio di luce, pulsa esistenza da ogni poro (e qui è splendido il lavoro di William Chang, lo scenografo). La macchina a mano di Christopher Doyle e Law Way Keung, scorre attraverso spazi angusti, trasformando la casa stretta e piena di oggetti di 663 in uno spazio infinito, dove Faye può davvero liberarsi e “liberare” il mondo circostante. È ancora A bout de souffle che ci viene in mente, con la scena nella camera d’albergo tra Belmondo e Jean Seberg. Mura, finestre, lenzuola, una stanza piccola che diviene uno spazio “infinito”, per la capacità di raccontare i sentimenti in movimento (o in subbuglio) che la macchina da presa di Raoul Coutard aveva.
Non è un caso che tutto il cinema migliore che splende (purtroppo raramente) sugli schermi s’ispira a Godard. Da Hal Hartley a Leos Carax (con le sue luci e ombre), fino a Wong Kar-Way il nuovo cinema sembra debba “necessariamente” prendere a modello il più irregolare, imprevedibile e deviante dei cineasti. Ma, come ha detto lo stesso Wong Kar Way, egli di giorno con Ashes of time (il suo secondo film), lavorava, di notte, con Hong Kong Express, sognava. E più il cinema si avvicina ai sogni (ad occhi aperti) e meglio ci sa raccontare la vita.
Federico Chiacchiari, Cineforum n. 350, 12/1995

Critica (2):[...] Hong Kong è un sogno, ma è un sogno occidentale. Una terra in esplosione, una popolazione in attesa della fine, del 30 giugno 1997. Allora, dopo oltre 100 anni, Hong Kong, da colonia britannica tornerà ad essere cinese a tutti gli effetti. E si dovrà ricominciare. E così anche il poliziotto 223 attende, giorno dopo giorno, scatoletta dopo scatoletta, il primo di maggio per accettare la fine della sua storia d'amore. Eppure, quando il giorno del giudizio arriva, sotto una pioggia purificatrice, il "day alter" si preannuncia più difficile e misterioso, ma anche irrimediabilmente più affascinante del giorno precedente. Un futuro che si fa annunciare su un cercapersone: è la bionda dark lady che augura, alle sei del mattino, a 223 il buon compleanno. Finisce una storia e ne inizia un'altre. Coincidenza? Così come sono solo coincidenze il fatto che 233 e 633 siano entrambi poliziotti? Coincidenze che frequentino lo stesso quartiere? Coincidenza che non si conoscano? E anche che Faye finirà con il diventare hostess, come la prima donna di 633? E che entrambe le storie inizino con due abbandoni e finiscano con due nuovi amori? Le coincidenze sono solo un modo per fuggire alle spiegazioni e queste ad Hong Kong - terra dove si pratica ancora la geomanzia, si dialoga con il computer, ma si mangia ancora con le bacchette, si parla agli oggetti per consolarli, dimenticando che agli oggetti non importa nulla della nostra vita - ci possono anche stare. Coincidenze e scadenze: possibili solo perché possediamo i ricordi. "Ma se scadono anche i ricordi - si chiede 223 -, come è possibile non essere irrimediabilmente soli in questo mondo?".
In Hong Kong Express domina la dolcezza dei pensieri semplici di chi non riesce a capire che solo dimenticando i ricordi più ingombranti si può ritornare alla vita. Trionfano le immagini pulite, lontano migliaia e migliaia di miglia dalle scivolose e patinate figurine di un cupido in calze a rete, o dai grandi tuffi in un centimetro d'acqua di chi si ostina a voler ballare da sola. Hong Kong Express è una favola, la cui semplicità dei contenuti sembra contribuire, insieme alla macchina da presa mossa a braccio, ad alleggerire la pesantezza e la claustrofobia di ogni storia d'amore che deve profeticamente condurre i due ministri nella seduzione tra le bianche lenzuola di un letto a due piazze.
I poliziotti 223 e 663, invece, soffrono e riflettono. Compiono lunghe elucubrazioni esistenziali e invocano il destino a tal punto da sconfinare nel rito. È un rituale, nel primo episodio, l'acquisto di una scatoletta ogni giorno per accompagnare l'attesa della donna che l'ha abbandonato, la corsa e il pianto purificatori, l'ascoltare i messaggi sul cercapersone. Così come sono rituali, nella seconda storia, i lunghi soggiorni di Faye nella casa di 663 o il cibo che il poliziotto porta ogni giorno alla sua amata hostess, o ancora l'assordante "California Dreamin’" che accompagna la vita di Faye. E ogni cambiamento porta con sé il timore dell'ignoto, nella favola romantica di Hong Kong, dove il sesso è inversamente proporzionale al cibo, l'abitudine è un sicuro rifugio, tanto da non far trovare il coraggio a 633 di aprire le lettere che riceve e da impedirgli di notare che una nuova presenza si è insidiata nella sua vita e, lentamente, gli sta addirittura cambiando l'arredamento della casa. Come, rassicuranti, sono i ricordi che, testardamente, i due poliziotti si ostinano ad alimentare. Almeno sino a quando non se li ritrovano scaduti fra le mani. Ma procediamo con ordine. È un bivio. Dunque, meglio decidere subito. In località Hong Kong Express ci si può arrivare per due strade molto differenti. La prima, via aerea, scendendo dall'alto. La seconda, invece, seguendo le numerose orme lasciate sul terreno da Mister Movie Hong Kong (a dire il vero, britannico ancora per pochi mesi, stando al count-down che terminerà la notte del 30 giugno '97). Il fatto è che, visti dall'alto i film, se fatti come si deve, si assomigliano un po' tutti tra loro. E così, la quarta fatica del giovane Wong Kar Wai sembra mimetizzarsi e può apparire semplicemente come una pellicola tenera e coinvolgente, che parla d'amore e di tradimenti.
Un film tutt'altro che orientale nel ritmo, nei suoni e nei dialoghi. Un buon prodotto, decisamente in grado di competere alla pari con le cinematografie "commercialmente evolute" - specialmente quella statunitense - nel quale la velocità dell'eroe nazionale e inimitabile Bruce Lee si è tutta quanta trasfusa, in una sorta di procedimento osmotico, nella tecnica spezzettata e schizoide di palpitanti, colorati e confusi videoclip musicali.
Simone Simonazzi, Il cinema di Hong Kong

Critica (3):

Critica (4):
Wong Kar-Wai
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