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13/Tzameti - 13/Tzameti


Regia:Babluani Géla

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura:
Géla Babluani; fotografia: Tariel Meliava; montaggio: Noémi Moreau; scenografia: Bernard Péault; interpreti: George Babluani (Sébastien), Philippe Passon (Jean-François Godon), Pascal Bongard (l'arbitro), Vania Villers (Sig. Shlondorff), Fred Ulysse (Alain), Aurélien Recoing (Jacky, un giocatore), Augustin Legrand (Jose'), Nicolas Pignon (il padrino), Olga Legrand (la signora Godon), Christophe Van de Velde (Ludo); produzione: Olivier Ourse e Jean-Marie Delbary per Les Films De La Strada, Quasar Pictures; distribuzione: Teodora Film; origine: Francia/ Georgia, 2005; durata: 86'.

Trama:Sebastien è un giovane operaio georgiano emigrato di 22 anni che, nella rassicurante provincia francese, si occupa di alcune riparazioni in una villa in stato di decadenza. La persona che lo ha assunto non è in grado di pagarlo perciò lui ruba una lettera con alcune indicazioni misteriose. E' infatti attratto dalla chimera di un grosso guadagno: segue le indicazioni sulla lettera per una sorta di caccia al tesoro e si ritrova così coinvolto in un giro clandestino da incubo in cui gli uomini scommettono sulla vita di altri uomini. Sebastien decide di sostituirsi a un morto per overdose e di partecipare, al posto suo, al gioco della roulette russa dove l'esistenza umana dipende da un tamburo che spara alla luce di una lampadina che si accende.
Il regista georgiano Géla Babluani - qui alla sua opera prima - ci mostra il mondo dal punto di vista del protagonista: la curiosità di Sebastien si trasforma in orrore; il ragazzo entra in un microcosmo dove solo il Caso decide chi deve vivere e chi deve morire. La scelta del b/n ricorda il cinema indipendente francese (quello di Mathieu Kassovitz, per esempio) che rende sullo schermo una realtà disperante e disperata: uomini alla deriva, uomini come bestie. La macchina da presa scorre lenta sui corpi e sui volti dei personaggi per scavare nelle anime spezzate di individui schiavi del denaro e della corruzione, prede dell'autodistruzione fisica e psicologica. Il montaggio dalle geometrie perfette e dal ritmo incalzante crea una situazione claustrofobica e spiazzante; la villa, il bosco, l'albergo, la stazione diventano non-luoghi, sono un universo senza futuro e senza via di uscita. Non si può non pensare a Il cacciatore. Non si può non chiedersi che cosa e chi stiamo diventando.
Alessandra Montesanto, mymovies.it

Critica (1):C'è molto della storia del cinema russo – di quello vecchio, muto e in bianco e nero - nell'esordio del ventisettenne georgiano Géla Babluani, 13-Tzameti, applaudito e giustamente premiato l'anno scorso a Venezia (alle Giornate degli autori) vincitore del gran prix della giuria al Sundance 2006 e distribuito solo adesso in Italia, come uno dei "Cinque pezzi facili" (ma quanto difficili da vedere) radunati (dalla teodora per "appesantire" un po' la distribuzione estiva ad alto tasso di pop-corn movie.
Cinema russo naturalmetne contaminato, come si conviene a ogni buon autore russo. L'insegnamento da Ejzenstein a Tarkosvkij, è soprattutto questo: lo stesso Babluani, figlio del più celebre regista Temur, vive tra il suo paese e la francia, dove ha studiato cinematografia e prodotto i suoi primi lavori, tra cui il cortometraggio A fleur de peau del 2002. Di fronte a Tzameti e alla sua storia di immigrati faticosamente alla ricerca della sopravvivenza quotidiana viene da pensare a Dostoevskij e alle sue curiosità per i demoni che trascinano la vita nei sotterranei dell'esistenza e nelle zone oscure dell'agire umano; viene da pensare a Dürrenmatt e alla logica stringente di certe trame di ordinaria disumanità dei suoi libri migliori: a Lang per le stesse ragioni e per la densità ossessiva dell'inquadratura; a tutta la tradizione del noir, rivisitato però al di fuori del sogno e delle compensazioni simboliche del look, grazie all'iniezione di realismo e di puro maledettisno del polar (il film è ambientato e quasi interamente recistato in francese); e poi naturalmente a Tarkovskij, per la cura dell'immagine e la capacità di circondare luoghi, oggetti e persone di valori metaforici, senza mai scendere in un simbolismo letterale e/o intellettualistico; e poi a tutto quel cinema dell'est che in questi anni – ma anche in passato - ha saputo raccontare (bene o male, poco importa) vite disperate, consumate dalla povertà, dalla guerra, dall'incertezza per il futuro; vite che riassumono e rielaborano contesti politici e culturali contemporanei, spremendo da queste immagini purissime la tragedia di tutti gli uomini. Fissata come in Tzameti in una sfilata impressionante di volti in primo piano, di facce "giuste" e maledette, rovinate dagli stenti e sfibrato dalla fatica di trascinare la vita: Babluani le sa guardare benissimo, senza falsa pietà o moralismo a buon mercato. [...]
Luca Malavasi, Cineforum n. 457, agosto/settembre 2006

Critica (2):Ci sono film fatti di facce, e a volte sono tra i più belli. Il cinema italiano degli anni '40 è fatto di facce, i film dell'Europa dell'est degli anni '50, pure.
Forse, per questo, il film, diretto da un autore che ha un padre regista georgiano , è fatto, almeno nella prima parte, di sguardi piantati in volti che sono un frastuono di rughe come in certi fumetti d'autore. Il suo film, 13, che ha aperto a Venzia le "Giornate degli autori", la sezione nata nel 2004 dalla collaborazione dell'associazione degli autori e quella dei produttori indipendenti, innanzitutto dispone della incredibile faccia del giovane protagonista, un immigrato russo in Francia che, aggiustando un tetto, viene a conoscenza di un "colpo" che sembrerebbe promettere una fortuna di cui sembra aver bisogno almeno quanto la madre e il fratello che conducono la più tipica delle vite da extracomunitari in un paese benestante. È una faccia che esprime allo stesso tempo sorpresa e terrore, angoscia e stordimento, già da prima che, impadronitosi fortunosamente di un indirizzo ed un appuntamento, un biglietto di treno ed una prenotazione in un hotel, si ritrovi nel peggiore degli incubi. Si dice sempre così, esagerando, anche nella vita, non solo nel cinema. Ma se vedrete il film - è davvero impossibile anticipare la sorpresa - vi renderete conto che non si tratta di una metafora.
Vedrete anche facce di criminali incalliti e andati a male come non se ne vedevano dai tempi di Melville e un crescendo finale dalla tensione a tratti insostenibile: 13 è completamente imbevuto di quel clima di disincanto, sogno di riscatto, fregatura mortale e violenza imminente che da anni chiamiamo noir. Gela Babluani, il regista, è cresciuto tra i disordini della guerra civile della Georgia post comunista, ha studiato in Francia e per il suo primo lungometraggio sceglie la storia di un immigrato del suo paese che, sempre in Francia, credendo di essersi fortunosamente impadronito di qualcosa come un biglietto vincente, si ritrova invece a dover partecipare ad un campionato di morte filmato in un bianco e nero scabro e glaciale. Babluani ha 26 anni e questo film è da non perdere.
Le facce su cui la vita sembra aver giocato troppo duro nell'inizio, non sono che un preludio di un torneo di disperazione e autodistruzione del clou del film: uno spettacolo di morte e urla, una danza di assasini catatonici che mettono in scena la propra e l'altrui morte per una manciata di sguardi sadici e avidi. Un'arena di angoscia buia e stanca, un labirinto di paura e rapacità che fanno di quest'opera prima un titolo da sottolineare con energia sul proprio taccuino.
Mario Sesti, in filmfilm.it

Critica (3):

Critica (4):
Géla Babluani
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