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Cose cambiano (Le) - Things change


Regia:Mamet David

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura: David Mamet, Shel Silverstein; fotografia: Juan RuizAnchia; musica: Alaric Jans; montaggio: Trudy Ship; scenografia: Michael Merritt; costumi: Nan Cibula; suono: John Pritchett; interpreti: Don Ameche (Gino), Joe Mantegna (Jerry), Robert Prosky (Joseph Vincent), J.J. Johnston (Frankie), Ricky Jay (Mr. Silver), Mike Nussbaum (Mr. Green), Jack Wallace (proprietario della calzoleria), Dan Conway (il maggiordomo), Willo Varsi Hausman (Miss Bates), Gail Silver (la governante), Len Hodera (Ramone), Jhon Conescu (Bellenza), Merrill Holtzman (No Pals), W.H. Macy (Billy Drake), Steve Goldstein (Randy), Sarah Ekhardt (Cherry), Karen Kohlhaas (Grace); produzione: Michael Hausman, per Filmhaus production; distribuzione: COLUMBIA; durata: 101'.

Trama:
Anziano calzolaio italoamericano accetta di accusarsi di un omicidio non commesso in cambio di una bella somma.

Critica (1):Da lustrascarpe a capro espiatorio per un delitto mafioso a presunto, potente boss. Chicago - Lake Town sul Tahoe e ritorno . Tutto in un week end. Complici del vecchio Gino la sua faccia, i suoi sogni e un piccolo gangster da cuore tenero, Jerry. La partita si fa pericolosa, forse mortale, ma negli ultimi cinque minuti tutte le pedine tornano a posto, come per miracolo. Quasi nulla è cambiato.
"Si alzò e si mise a passeggiare... sulle prime con una certa rigidezza, poiché temeva che la corona potesse caderle di testa; ma si confortò al pensiero che nessuno poteva vederla". Per la seconda volta David Mamet cerca oltre lo specchio, nel reale pazzo e inverosimile che ciascuno ha, senza saperlo, a portata di mano, le sue storie di segreta follia. Sulla scacchiera cammina disinvolto, forse egli stesso incredulo che fare cinema sia così facile e divertente, Budget a rischio limitato, équipe affiatata fin dai tempi del St. Nicholas Theatre, solido successo (come autore di teatro e sceneggiatore, con una commedia. Sexual Perversity in Chicago, già tradotta in film) alle spalle. E' come dire: poca preoccupazione per il box-office, discreta autonomia e qualche privilegio.
Da freddo professionista, si serve di personaggi chiave senza calarsi in essi senza dichiarare amore. Li vuole intimamente fragili, cedevoli al caso, forse curiosi. La dott. Margaret Ford di Seattle e il lustrascarpe Gino di Chicago, distanti quasi 2000 miglia non solo in linea d'aria, hanno in comune dei capisaldi esistenziali: la solitudine; l'alta considerazione per il proprio lavoro (che è come dire un buon concetto di s8); desideri nascosti sui quali giocare tutto. Attraversato lo specchio di Alice, essi danno un volto a quell'inconscio combattuto e negato che appartiene a un intero paese e alla sua "civiltà": dietro all'efficienza e al successo, la volontà castratrice che li ha creati è pronta alla vendetta; ma anche chi ha fallito gli obiettivi aspetta il suo giorno da leone.
Mamet, che vuole portare con dignità la corona, semplifica le contraddizioni e fa corrispondere tout court tipologie umane e generi cinematografici: le luci i fumi i trabocchetti del noir sono perfetti per il viaggio notturno di Margaret. Al contrario, lo scambio di persona tra Gino e il boss mafioso "capo del capo del capo" non può muoversi che sul registro della commedia. Onnipresente, Joe Mantegna accentua il suo ruolo esegetico trasformandosi da demonio tentatore in angelo custode. Don Ameche sembra non aver lasciato il set nei 45 anni che lo separano dall'ultima scena di Heaven Can Wait. L'anticamera dei boss come quella dell'inferno. Poi la promessa, inaspettata, del paradiso. Per sottolineare il richiamo/omaggio al film di Lubitsch, Mamet ne restituisce intatta una scena (quella della fuga attraverso l'atrio della villa) con il vecchio attore nella parte 'femminile' che era di Gene Tierney. Con la maschera dello stupore e dell'innocenza senili, non proprio patetico ma labilmente comico, Ameche è oggi, senza trucco, un uomo anziano di gradevole aspetto. Così il cinema di Mamet: piacevole a vedersi. Non da vivere o da soffrire. Né da divorare. Rifiutando mode visuali allusive e paradossali, il regista tenta un discorso di tutto rispetto, ma cade nelle trappole della sua stessa 'classicità'. Pur nella precisione tecnico figurativa prossima al virtuosismo, l'amalgama di tempi e azione, di indizi e sorprese è a bassissima gradazione alcolica Anche la commedia, come il noir, cresce sull'accumularsi delle attese e su disvelamenti progressivi. E con tre soli giorni a disposizione, non c'è tempo da perdere. Invece il movimento, acceso da un inizio assai promettente e definitivamente ucciso nel finale, procede a sussulti, incerto e mortificato anche dall'uso innaturale, persino baro, che Mamet (forse perchè uomo di teatro) fa della parola. "Le cose cambiano": la frase, di dubbia pregnanza filosofica, è pronunciata nel film due volte, da personaggi diversi e in situazioni diametralmente opposte.
Se il fraseggio sentenzioso (c'è persino una versione della nota favola di La Fontaine con la cicala che si mangia la formica) e la mancata crescita della gag frenano il film in discesa, dov'è la poesia che gli spetterebbe di diritto? La mdp la insegue sulle rive solitarie del lago Tahoe dove due vecchi si scambiano pegni di amicizia. Forse la coglie nel presagio di morte che aleggia sui progetti di Gino: ritornare al paese natale, pescare quando sorge il sole e bere quando cala, avere una barca tutta per sè... Quanti uomini, al cinema, sono stati duramente puniti per aver osato sognare. Al punto da farci dimenticare che, tra la felicità e la morte, esiste una terza possibilità: che tutto rimanga uguale a prima. In contrasto con il titolo, la staticità e il nulla di fatto dominano il film e mettono le briglie persino alla mafia. Se, in fondo, i padrini in pantofole possono rappresentare una piacevole variante per lo spettatore, quello che preoccupa è l'immobilismo creativo di Mamet: due film, ma un gioco unico, di antitesi e contrasti, sullo stesso tema. Il fantasma della crescita zero è alle porte. Ora il regista è all'opera direttamente su un suo testo teatrale, il già famoso Glengarry Glen Ross: sarà tutto ancora troppo facile, oppure David Mamet realizzerà davvero il suo secondo film?
Adelina Preziosi, SEGNO CINEMA n. 36. Gennaio 1989

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
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