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Caccia tragica


Regia:De Santis Giuseppe

Cast e credits:
Soggetto :Giuseppe De Santis, Carlo Lizzani, Lamberto Rem-Picci; sceneggiatura: Michelangelo Antonioni, Umbero Barbaro, Giuseppe De Sanis, Carlo Lizzani, Cesare Zavattini; fotografia: Otelo Martelli (operatori: Carlo Carlini, Gianni Di Venanzo); scenografia: Carlo Egidi; costumi: Anna Gobbi; montaggio: Mario Serandrei, Giuseppe Rosati; interpreti: Vivi Gioi (Daniela, detta Lilì Marlene), Andrea Checchi (Alberto), Carla del Poggio (Giovanna), Massimo Girotti (Michele), Vitttorio Duse (Giuseppe), Checco Rissone (Mimì), Umberto Sacripante (lo zoppo), Alfredo Salvadori e Folco Lulli (i due fattori), Michele Riccardini (maresciallo), Eugenia Grandi (Sultana), Piero Lulli (autista), Guido della Valle (il tedesco), Ermanno Randi (Andrea), Massimo Rossini (il camoscio), Enrico Tacchetti (il ragioniere), Carlo Lizzani (reduce che tiene un comizio); produzione: G. Giorgio Agliani per la ANPI Film; origine: Italia, 1946; durata: 80'.

Trama:La guerra sulla quale si sono rovinosamente infrante le illusioni del fascismo è appena finita. Nella Bassa Padana, mentre ancora si cercano le mine esplose, disseminate nei campi, i contadini già organizzano le cooperative agricole. Giovanna e Michele, che lavorano da braccianti nella cooperativa “Nullo Bandini”, si sono appena sposati. Il camion a bordo del quale tornano alla cascina porta anche molti soldi: sono i tanto attesi sussidi governativi, coi quali la cooperativa potrà pagare ai padroni l’affitto delle terre, del bestiame e delle attrezzature. Questo è, dunque, un giorno di doppia festa. Ma alla cascina, dove i contadini aspettano con ansia l’arrivo del camion, il denaro non arriva: c’è stata una rapina. Un gruppo di banditi armati ha bloccato la strada con una falsa ambulanza: hanno sparato, uccidendo due uomini, e si sono fatti consegnare la borsa col denaro. I banditi hanno preso in ostaggio la sposina per costringere al silenzio Michele, il quale ha riconosciuto il loro capo, Alberto, che era stato suo compagno di prigionia in un lager.

Critica (1):Nei panni del bandito che si pente. Andrea Checchi è molto bravo. Girotti ha una parte che fa per lui: la sua recitazione è fondata tutta sulla fotogenia; non ha una gran tecnica, ma è molto efficace. La star potrebbe essere Vivi Gioi, la fatale Daniela-Lilì Marlene, che vinse anche un Nastro d’argento per la sua interpretazione. Ma la vera star del film è l’Italia del dopoguerra e della ricostruzione. L’Italia che De Santis, in una forma così “flamboyante” e barocca, mette in scena con il suo Caccia tragica è molto simile alla Italia reale del 1946: non è un gran titolo di merito per un cineasta che faccia film di finzione. Ma vuol dir qualcosa per un ex-critico che ha sempre caldamente sostenuto la pratica del documentario e la necessità di portare sullo schermo la realtà della vita nazionale; vuol dire qualcosa per una cultura cinematografica che si rifonda seguendo – al negativo – le indicazioni provenienti da un passato di cinefavole.
Il progetto cinematografico al quale mira il regista si basa su una sorta di impasto di dramma e documentario. Questo impasto sembrerebbe reso arduo dalla forma così barocca di dramma che egli subito adotta. In realtà, sia in Caccia tragica che nel successivo Riso amaro, De Santis riesce a fare quanto egli stesso aveva apprezzato nel Renoir di La grande illusione o di La béte humaine, ad usare cioè il paesaggio per sottolineare gli stati d’animo e le situazioni drammatiche. Le prime inquadrature – un paesaggio destinato, una strada percorsa da uomini in bicicletta che non mostrano gioia, poi gli argini di un fiume, il Po, probabilmente – hanno sicuramente un taglio documentaristico puro, quasi impersonale. Ma è anche che in tanti film c’è, al principio, qualche inquadratura dal tono documentaristico, che vale da introduzione alla storia. E in tanti altri film – specie nel cinema italiano del dopoguerra – si tenta di conciliare documentarismo e finzione (si pensi a La terra trema, di Visconti). Dunque, cos’è che caratterizza in maniera decisiva il rapporto tra documentarismo e finzione in De Santis? È, a mio parere, la funzione “descrittiva” del suo cinema.
Non si tratta solo della volontà, quasi testarda, di “mostrare” i luoghi dell’Italia, anzi le tante Italie quotidiane – quel settentrione dove soffia il «vento del nord», le pianure, i fiumi, le case, le fattorie, gli uomini, i loro problemi – ché nel cinema del ventennio erano rimaste celate dietro il mito di un’Italia unitaria, integra, imperiale, tanto fastosa quanto incorporea. Si tratta, soprattutto, di un modo di narrare personalissimo, che procede per accumulazioni, che non conosce o non vuole conoscere le leggi dell’economia del discorso. È un modo di narrare abbastanza lento – anche se, poi, è capace di impennarsi in accelerazioni improvvise, che sono come un lampo nella notte – un modo di narrare fatto di ristagni, di tante cose messe in fila, l’una, dietro l’altra, come i vagoni di un treno (e, guarda caso, il treno ricorre spesso nel film di De Santis) ma con meno ordine.
Nulla è dato per scontato in Caccia tragica. Non vi sono silenzi significativi – questi li ritroveremo più tardi in Antonioni – ma tutto è detto, quando non è più volte ripetuto. Qualche esempio. I partigiani hanno rovinato i capelli alla collaborazionista Lilì Marlene: De Santis ce ne informa nel modo più violento, quando il ferito, che è stato caricato dai banditi sull’ambulanza, le strappa nel delirio la parrucca. Ma non gli basta: egli sente il bisogno di tornare sull’argomento e, nello chalet, uno dei banditi per scherno tagliuzza i capelli di una bambola, alludendo alla donna. Parimenti, il tedesco “cattivo” continua a dar prova della sua “cattiveria” anche quando ormai abbiamo ben individuato il suo carattere: spara sui contadini, vuol mettere le mani addosso a Giovanna, poi tradisce i suoi stessi compagni. È questo genere di accumulazione dei tratti narrativi che definisce la poetica “barocca” di De Santis.
A rafforzare la centralità della funzione descrittiva in Caccia tragica interviene l’uso della gru. È una gru antidiluviana, altissima, in legno, con la quale De Santis si familiarizza subito: dall’alto, la macchina da presa può spaziare liberamente su quel paesaggio italiano al quale il regista, aveva dedicato uno dei suoi primi articoli su “Cinema”; può soffermarsi sull’aspetto della terra, sconvolta dall’esplosione delle mine, descriverne perfettamente la ragione sociale. La gru ha una funzione descrittiva, certo, ma è legata ad una idea di cinema-spettacolo che è naturalmente lontana da qualsiasi forma di documentario.
De Santis lo sa bene e la maneggia con cura, ma la usa anche per sottolineare il fatto che non gli interessa la documentazione della realtà. Ha ripescato la funzione della gru nella sua memoria di critico cinematografico, innamorato del musical americano e delle eleganti coreografie di Busby Berkeley. La gru era funzionale a quelle splendide costruzioni fatte dei corpi di tante belle ragazze che danzavano avvolte in fantasiosi abitini luccicanti: si spostava, saliva, passava sopra le teste, attraverso gli spazi, ricucendo e “descrivendo” scintillanti architetture di luce e di carne. De Santis applica la medesima tecnica ad una materia diversa. La sua gru ha la stessa funzione “descrittiva” ma al posto del grande corpo maxfactorizzato dell’America c’è il grande corpo dell’Italia contadina; al posto delle sete e dei lustrini ci sono le miserie, le piaghe e i conflitti di un paese che affronta le incertezze del dopoguerra.
Inevitabilmente, la tecnica dello spettacolo rende spettacolare anche una materia che, in sé, poteva non esserlo. Mentre, dall’alto della gru, l’occhio meccanico della camera si spostava sugli uomini e sulle terre, una voce parlava spiegando il senso di quel paesaggio: in Caccia tragica De Santis tende a portare fuori campo il personaggio che ha lunghe battute, creando un effetto di voce-off. È ancora una volta la mobilità della gru combinata a quella di un treno, sul quale l’enorme attrezzo è stato coraggiosamente montato – che permette a De Santis di compiere simili artifici. Un esempio. Sul treno dei reduci che percorre le campagne c’è un giovane smilzo, con la barba lunga, che parla al microfono con l’aria di aver intrapreso un comizio. La macchina da presa ce lo mostra rapidamente. Poi, la gru porta altrove lo sguardo della camera, sulla pianura circostante, e la voce del giovane che parla al microfono resta in primo piano sonoro. Quel giovane smilzo è Carlo Lizzani, che era stato il vice di De Santis su “Cinema” e che sul set di Caccia tragica, oltre a questa comparsata, si cimenta nella doppia veste di collaboratore alla regia e di sceneggiatore. Ma questi sono dettagli. Dopo il giovane smilzo è la volta di Alberto, il bandito, che si è confuso tra i reduci per sfuggire agli inseguitori, ma è egli stesso un reduce. «Sono del vostro paese – strilla nel microfono – non ci abbandonate. Siamo come mutilati, perché queste braccia non servono...».
Ciò che mette conto notare è il fatto che De Santis usa la tecnica di sfalsamento dell’immagine rispetto alla parola con una frequenza e in un modo che ricordano l’uso che il documentario fa della voce off: quasi mai porta sullo sfondo, come sarebbe naturale, la voce del personaggio, ma la lascia nello spazio del primo piano sonoro. Indubbiamente si tratta di un modo per sottolineare la presenza della parola. Ma questo è soprattutto il luogo nel quale può venire a galla l’ideologia, il luogo nel quale è offerta all’autore la possibilità di parlare in prima persona e di “dire” in maniera esplicita il suo parere. Come se il filo della narrazione improvvisamente fosse stato interrotto. È un po’ la coscienza del racconto, che emerge qua e là al suo interno, un po’ la funzione che aveva il coro nella tragedia greca. La parola non è mai, né in Caccia tragica né nel successivo Riso amaro, un elemento di secondaria importanza. Questa presenza – finanche invadente – della parola diventerà un tratto fondamentale dello stile di De Santis, tratto al quale bisogna ricollegare pure il frequente uso che egli fa della radio, come giustificazione narrativa di un parlare sovrabbondante e quasi eccessivo. Riemerge in ciò l’aspetto barocco e la tendenza desantisiana all’accumulazione.
Dicevo della radio. In Italia il dopoguerra vede la crescita quantitativa e qualitativa dei mezzi di diffusione dell’ideologia. Caccia tragica ci mostra due di questi mezzi: uno antico e uno moderno. Quello antico è il treno dei reduci, dal quale gli uomini parlano col megafono ai contadini sparsi nei campi: si tratta di una forma di diffusione dell’ideologia che ricorda quasi la figura del banditore. Quello moderno è la radio. De Santis mette in scena un ideale conflitto tra i due mezzi di comunicazione. Naturalmente, si tratta di un conflitto impari, nel quale la voce sussurrata della radio ha facilmente la meglio sulla voce urlata nel microfono dai reduci che percorrono la campagna sul treno. La radio è leggera. Il treno pesante. I messaggi diffusi dalla radio sono agili e accattivanti, senza dubbio più efficaci di quelli diffusi dal treno. È il trionfo della tecnologia. Caccia tragica esprime il trionfo storico – sancito dall’americanizzazione della cultura italiana autarchica – del principio del piacere sul razionalismo pretecnologico.
Per una circostanza forse non casuale, quella della radio sarà una presenza ricorrente in tanti film di De Santis. In Caccia tragica la troviamo nella scena che si svolge nello chalet dove avviene l’incontro tra i banditi e gli emissari dei proprietari terrieri. «La guerra è finita – dice lo speaker – ma le sue canzoni restano nel ricordo di tutti. Ecco l’America...». Segue una nota marcetta statunitense. «Questo invece cantavano i partigiani italiani...». Segue un coro partigiano. Infine: «C’era una canzone nemica che tutti cantavano negli accampamenti: la cantavano gli inglesi, i russi, gli americani: Lilì Marlene...». E le note di Lilì Marlene vengono fuori dall’apparecchio, una melodia elegante, sinuosa, orecchiabile e perfino sdolcinata. Tutti la cantano, afferma lo speaker della radio, alleati e nemici, da una parte e dall’altra del fronte. Le sue note ricuciono le nazioni divise. Perché? Forse perché Lili MarIene è come il principio del piacere, al quale tutti sono costretti a soggiacere dal proprio destino umano. Davanti a Lilì Marlene rischiavano di non esistere più le divisioni nazionali. E non solo. Rischiano di non esistere più nemmeno le divisioni di classe: è questo che interessa al De Santis comunista. Questo appianamento della realtà sociale di fronte al principio del piacere, al consumo tecnologico dell’informazione, di fronte al sogno collettivo promosso dai mass media. Questo tema De Santis lo approfondirà con Riso amaro.
Il De Santis di Caccia tragica personifica il principio del piacere in un personaggio femminile, in quella Daniela che si fa chiamare proprio Lilì Marlene. È la donna del bandito. Segue un irrazionale impulso verso l’autodistruzione. I suoi tratti sono duri e la luce di Otello Martelli ne accentua la crudezza, che risalta ancor più al confronto con la levigata dolcezza di Carla Del Poggio. La violenza non dispiace a Lilì Marlene: è sinceramente isterica. Il suo fascino ha qualcosa di mascolino. I partigiani, che la hanno riconosciuta come spia e collaborazionista, le hanno rapato il capo. Adesso i suoi capelli stanno ricrescendo, ma sono ancora incredibilmente corti. Corti e neri. Per nascondere tutto ciò Lilì Marlene, prima porta una parrucca bionda; poi, si calca in testa un cappello a larghe falde. Un impermeabile chiaro completa la sua indefinibile figura.
In sede di sceneggiatura vi fu un aspra discussione tra De Santis e Antonioni a proposito del carattere di questo personaggio. Antonioni avrebbe voluto che in lei si avvertisse qualche propensione lesbica, specie nei rapporti con Giovanna. De Santis era del tutto contrario ad inserire accenni ad una passione contraria alla pudicizia dell’immaginario popolare dell’epoca. Nella discussione egli evidentemente, ebbe la meglio. Ma un vago sospetto di omosessualità permane nel personaggio di Daniela, come l’“altra faccia” di quelle sane e sanguigne passioni popolari che animano i personaggi di Caccia tragica. È un sentimento dello stesso genere di quello che emanava il personaggio dello “spagnolo” in Ossessione di Visconti, anche se nasce da fonti stilistiche diametralmente opposte.
Daniela, detta Lilì Marlene, è la donna perduta, senza speranza di redenzione. Quando il suo uomo, Alberto, nauseato dai delitti commessi, decide di abbandonare la condizione di bandito, deve lottare per staccarsi da lei. «Tu credi davvero di poterti separare da me!?», lo sbeffeggia Lilì Marlene, «Attraverso me, tu sei allacciato con tanti altri legami. Né io né tu possiamo spezzare questa catena». È il topos della forza del destino, che sarà ricorrente in tutto il cinema futuro di De Santis. Ma Alberto la spezza, quella catena alla quale Lilì Marlene quasi si vantava di essere legata, la spezza ammazzando la sua donna a raffiche di mitra. È l’happy end del film, un happy end che passa attraverso un evento tragico. Questa è la conclusione della caccia: De Santis mostra di credere – e invita gli spettatori dl suo film a farlo – nella ragione umana, nel progresso sociale, nella possibilità del riscatto che sarà raggiungibile a patto di avere messo da parte il principio del piacere, a patto di avere ammazzato la fascinosa e ambigua Lili Marlene.
Stefano Masi, Giuseppe De Santis, Il Castoro Cinema, 1980

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