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Due orfanelle (Le) - Orphans of the Storm


Regia:Griffith David W.

Cast e credits:
Sceneggiatura: David Wark Griffith, dal romanzo di Adolph D'Ennery e dal relativo adattamento teatrale; fotografia: b.n., Hendrik Sartov, Paul Hallen; scenografia: Edward Scholl, Charles Kirk; interpreti: Lillian Gish (Henriette), Dorothy Gish (Louise), Joseph Schildkraut (Vaudrey), Monte Blue (Danton), Lucille Laverne (madame Frochard), Creighton Hale, Frank Puglia, Frank Losee, Catherine Emmet, Morgan Wallace, Kate Bruce; produzione: United Artists; origine: USA, 1921; durata: 97.

Trama:Alle soglie della Rivoluzione, due sorelle adottive parigine - Enrichetta e Luisa Girard - devono affrontare le durezze della vita. La prima viene rapita da un nobile perfido e geloso del nipote, la seconda, cieca, viene sfruttata e costretta a mendicare da una donnaccia.

Critica (1):Parigi 1789: da una provincia idillica arrivano, ideali vittime dell'umana malvagità, le orfanelle Henriette e Louise, figlie l'una di un onesto sarto testè defunto, l'altra - che è cieca - del peccato di gioventù di una Contessa straziata (ma non troppo) dai rimorsi. La metropoli con le sue mille insidie le divide: Henriette cadrà vittima di un aristocratico dissoluto, Louise - con logica simmetria - di una perfida sfruttatrice di mendicanti... Ma come la Francia è spaccata in due dalla rivoluzione e poi dal terrore, così ogni stazione della duplice via crucis si spezza in due metà contrastanti e complementari: l'aristocratico aspirante stupratore ha un cugino buono, la mendicante ha due figli di cui uno perfido l'altro angelico, la Rivoluzione stessa si presenta nei due volti opposti di Danton (accettabile) e Robespierre (mostruoso), a loro volta rinvianti a un modello passato e "positivo" (la rivoluzione americana) e uno futuro e "negativo" (quella sovietica). Il trionfo del bene - la cieca riacquista vista, madre e prestigio sociale, Danton con una cavalcata entusiasmante strappa Henriette e il fidanzato alla ghigliottina ecc., sanziona come una tardiva concessione o un premio a lungo rimandato le finalità squisitamente sadiche della messa in scena di Griffith, a un tempo geometrica e delirante (basti pensare alle scene dell'orgia e della gazzarra per le strade dopo la presa della Bastiglia) oltre che tesa a sublimare, come ben pochi altri registi avrebbero saputo, le tensioni di un eterno psicodramma puritano, in cui si oppongono salvo poi conciliarsi in ultima istanza, l'orrore e il fascino dell'Europa ripudiata (l'ottica è sempre ovviamente americana), le esigenze di Eros e quelle di Thanatos, le fila dei destini individuali e quelle della storia, il sesso e i tabù social-familiari (Henriette non può sposare un aristocratico, ma non può nemmeno sposarsi tout court se non ha l'approvazione della sorella). L'importanza del film nell'ambito del nostro discorso non sta comunque solo nella sempreverde efficacia melodrammatica di questo abile frutto della letteratura spremilacrime e d'appendice (di cui Maurice Tourner e il nostro esperto, Gallone, avrebbero poi fornito versioni sonore rispettivamente nel 1934 e nel '42) e nemmeno nelle sue origini almeno in parte teatrali (del romanzo di Dennery si conoscono vari adattamenti tardo ottocenteschi, ad es. quello di Eugéne Cormon e quello di John Oxenford di cui il British Museum conserva una copia stampata e profumata - sic - da John Rimmel nel 1874: quest'ultimo con i suoi sei atti e otto tableaux somiglia molto allo scenario del film di Griffith). Le due orfanelle rappresenta un momento fondamentale in quel che Gian Piero Brunetta ha chiamato la "nascita del racconto cinematografico", e proprio sul terreno dell'intrattenimento popolare che dime-novels e teatro di Broadway, nonostante gli sforzi, non riuscivano più a soddisfare dato anche l'emergere di nuove categorie di fruitori. Se all'inizio, dovendo condensare una serie di antefatti (perché la Contessa è triste, perché il suo fattore è cupo e vendicativo, come ha fatto il sarto a raccogliere Louise, ecc...), Griffith riducendo l'immagine a illustrazione delle medesime, proprio come i primitivi mostravano sullo schermo scene e "figure" di romanzi noti (fuga di Eliza in La capanna dello Zio Tom, ecc...) delegando la "spiegazione" a chi avesse letto il testo, poi man mano che il film si libera dalle ipoteche dell'antefatto, l'azione è portata avanti da e con l'immagine, mentre le didascalie, almeno nell'edizione originale, diviene puro commento, con i verbi quasi sempre al modo infinito (es. Danton Pronouncing His Most Beautiful Speech). Il cinema di Griffith si propone così non già come alternativa, si come aggiornamento rispetto alle forme espressive codificate e il suo palcoscenico è la summa delle follie censurate e dei labili compromessi di una cultura di tipo vittoriano, rinverdita dalla straordinaria ricchezza di un nuovo medium che ne rendeva i messaggi involontariamente rivoluzionari. Ma non si trattava solo dell'atteggiamento paternalistico e sorridente che si assume (è così facile) davanti ai viraggi color seppia delle pellicole di cinquant'anni fa, ai caratteri "eleganti" e ormai goffi delle didascalie. La visione di questo film è più proficua della lettura di interi trattati di narratologia.
G. Fink, A. Miccolo, Cinema e teatro, Guaraldi Firenze 1977

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
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