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Duchessa di Langeais (La) - Ne touchez pas la hache


Regia:Rivette Jacques

Cast e credits:
Soggetto: dal romanzo di Honorè de Balzac; sceneggiatura: Pascal Bonitzer, Christine Laurent, Jacques Rivette; fotografia: William Lubtchansky; musiche: Pierre Allio; montaggio: Nicole Lubtchansky; scenografia: Emmanuel de Chauvigny (Manu De Chauvigny); costumi : Maïra Ramedhan-Lévy; interpreti: Jeanne Balibar (Antoinette de Langeais), Guillaume Depardieu (Armand de Montriveau), Michel Piccoli (Vidame de Pamiers), Bulle Ogier (Principessa de Blamont-Chauvry), Anne Cantineau (Clara de Sérizy), Mathias Jung (Julien), Julie Judd (Lisette), Marc Barbé (Marchese de Ronquerolles), Nicolas Bouchaud (De Trailles), Thomas Durand (De Marsay), Beppe Chierici (L'Alcalde), Remo Girone (Confessore del convento), Paul Chevillard (Duca de Navarreins), Barbet Schroeder (Duca de Grandlieu), Victoria Zinny (Madre superiora), Denis Freyd (l'abate Gondrand), Claude Delaugerre (Auguste), Birgit Ludwig (Diane de Maufrigneuse); produzione: Pierre Grise Productions, Cinemaundici, Arte France Cinéma; distribuzione: Mikado; origine: Francia - Italia, 2007; durata: 137'.

Trama:Armand de Montriveau, giovane e attraente generale francese, ritrova nell'isola di Majorca come suora di clausura la duchessa Antoinette de Langeais, di cui si era perdutamente innamorato cinque anni prima. Riviviamo da questo momento le varie fasi di una passione maschile abilmente contrastata da una donna attratta ma non disposta a cedere.

Critica (1):Acciaio contro acciaio, così Armand de Montriveau (Guillaume Depardieu) descrive l'amore con Antoinette de Langeais (Jeanne Balibar). È questo uno strano modo di intendere l'amore. O forse ne è solo un modo, uno fra i molti. In ogni caso, scrivendo La duchesse de Langeais ( 1833), Honoré de Balzac sembra averlo sofferto proprio come scontro e conflitto (nel 1832, lo scrittore fu crudelmente beffato della marchesa Henrietta Marie de Castries). Ora, portando quel libro sullo schermo, Jacques Rivette e i suoi cosceneggiatori Pascal Bonitzer e Christine Laurent ne fanno un film "a due dimensioni". La profondità dello spazio - l'illusione che il cinema è capace di darne, e in maniera più diretta del romanzo - è appunto quel che sembra mancare a La duchessa di Langeais (Ne touchez pas la hache, Francia e Italia, 2007, 137'). Ma si tratta di una mancanza splendidamente espressiva.
Come se in sala stessimo leggendo Balzac, la sceneggiatura si struttura in capitoli, ognuno introdotto da un'inquadratura a sfondo nero su cui spicca una frase tratta dal libro. Ad aumentare l'effetto letterario, una voce fuori campo le ripete, quelle frasi. Poi, all'interno dei capitoli, molto spesso la scena è dominata dalla presenza di Armand e Antoinette, dialoganti e freddi. Intanto la macchina da presa riduce al minimo ogni movimento. Soprattutto, evita di muoversi verso la terza dimensione spaziale, quella della profondità.
Molto più dei loro corpi, sono le "immagini" dei due protagonisti il centro espressivo di La duchessa di Langeais.
Allo stesso modo, molto più della loro passione, è il loro desiderio che interessa a Rivette. E si tratta di un desiderio feroce, per quanto astratto e chiuso in se stesso. Meglio ancora: feroci e chiusi in se stessi sono i loro due desideri, ognuno per conto proprio.
Sullo sfondo dello strano amore fra il generale napoleonico e la duchessa coquette c'è la Francia della Restaurazione, con la sua "società" retta dal piacere funereo delle forme. Per trionfarci, in quella società, occorre sapersi infilare in tasca la tabacchiera con i modi della principessa di Blamont-Chauvry (Bulle Ogier). Con la stessa eleganza, si possono avere amanti. L'importante è che il gioco non si faccia serio, e che l'amore non pretenda di valere più d'una tabacchiera. Quel che conta davvero, in quella società di "morti" alla moda, è la solidità sociale di fondo. Come la principessa dice ad Antoinette, nessuna passione vale quanto l'aver come figlio un duca. E con lei concorda l'ancor più disincantato signore di Pamier (Michel Piccoli), che ha attraversato la storia di Francia di regime in regime, d'eleganza in eleganza, di cinismo in cinismo.
Eppure, Antoinette e Armand si amano, si desiderano. Meglio, ognuno desidera l'altro, per conto proprio. Quando lo vede a un ballo, lei decide di farlo suo: di vincerlo, e di tenerlo. A muoverla è il fatto che lui è appunto il più desiderato a Parigi, il più in vista. Quanto ad Armand, quella stessa notte lo promette a se stesso: "Avrò come amante la duchessa di Langeais ". Poi, il giorno seguente, tutto sembra procedere. Antoinette si fa trovare stesa su un divanetto. Lui le si siede accanto, con l'aria di chi sia trepido. Lei si scopre piedi e gambe. Il gioco comincia, o così sembra. Ma subito Antoinette glielo nega, quel biancore pieno di promesse.
Tutto accade senza "profondità", senza che i corpi ne siano protagonisti. A dominare è qualcosa di più sottile: la strategia del possesso. Vuole, questa strategia, che Antoinette si offra e si neghi, e che poi torni a offrirsi per tornare a negarsi. Armand deve essere suo, del tutto. Dunque, occorre che lei non lo diventi, sua, e che non gli si consegni. Allo stesso modo, e capovolgendo il fronte, alla durezza di Antoinette Armand oppone la propria. Sarà lui a fuggire, per provocarla. E quando lei ne soffrirà, sarà lui che potrà farla sua, senza essere suo.
In questa guerra, in questo scontro di acciai, l'uno e l'altra insistono oltre ogni eleganza. Il loro gioco smette d'essere alla moda, e si fa serio. Non si trasforma in passione, non "prende corpo". E però cresce fino a farsi assoluto. Di fronte alla sua potenza, la società scompare. A loro modo, Antoinette e Armand si affrancano dal suo vuoto, e fanno di se stessi un capolavoro, ancora una volta ognuno per conto proprio.
Alla fine, quando lei vince con la morte -con il più assoluto degli assoluti -, lui ne dichiara la grandezza. Antoinette non c'è più, dice un suo amico, e il suo corpo è privo di vita, inutile come un libro. "È diventata un poema", lo corregge Armand. E come un poema, o come il film di Rivette, la sua profondità non ha (più) bisogno di spazio.
Roberto Escobar, Il Sole-24 Ore, 29/7/2007

Critica (2):

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Jacques Rivette
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