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Ti ricordi di Dolly Bell? - Sjecas li se Dolly Bell


Regia:Kusturica Emir

Cast e credits:
Soggetto: Abdulah Sidran; sceneggiatura: Abdulah Sidran; fotografia: Vilko Filac; musiche: Zoran Simjanovic; montaggio: Vera Sipovac; interpreti: Slobodan Aligrudic, Mira Banjac, Ljiliana Blagojevic, Nada Pani, Zika Ristic, Slavko Stimac, Boro Stjepanovic, Pavle Vujisic; produzione: Sutjeska Film Sarajevo Jugoslavia Film; distribuzione: Ventana; origine: Jugoslavia, 1981; durata: 107’.

Trama:Il film si svolge a Sarajevo agli inizi degli anni sessanta. Attraverso uno spaccato di questa piccola società si vivono gli anni dell'apertura di Tito verso l'occidente, in particolare verso l'Italia, da cui arrivano le prime testimonianze del consumismo, le "vespe", la musica, il ballo. Il protagonista è un ragazzo, Dino, figlio di un rigido teorico marxista che però chiude un occhio sulle "aperture" del figlio. Dino vive la sua adolescenza con gli amici come per I vitelloni di Fellini, ed il primo amore con Dolly Bell, futile, povera, tenera. Il padre muore lasciando per testamento le sue piccole miserie alla famiglia che finalmente lascia la baracca dove alloggiava, in cambio di una casa popolare. Dino è un ragazzo, ma gli eventi lo trasformano in un uomo mentre, nel finale, si allontana con il camioncino carico delle povere masserizie della famiglia.

Critica (1):Emir Kusturica è nato a Sarajevo nel 1955; all'epoca in cui il film è ambientato aveva appena sei anni. Ciò esclude che la prospettiva memoriale indicata dal titolo (Ti ricordi... ?) sia da intendersi in senso strettamente autobiografico; quel “ti” non è autoriflessivo, ma si rivolge a uno spettatore generico partecipe del mito cinematografico. Dolly Bell infatti, prima di diventare l'appellativo della giovane prostituta di cui Dino, il protagonista, ingenuamente si innamora, è il nome della spogliarellista del Crazy Horse, che appare nel film italiano di Blasetti Europa di notte e passa come un marziano sullo schermo di una Casa del Popolo di Sarajevo, trascinando con sé sospiri e fantasie. Quel “ti ricordi” Insomma dialoga con l'immaginario collettivo: sospeso e disperso è il destinatario, mitico l'oggetto della comunicazione.
Il “compagni e compagne”, proveniente da un altoparlante, con cui si apre il film, è quindi un falso appello, forse sottilmente ironico. La sostituzione, nei confronti dello spettatore, della mozione ad agire (di cui il riferimento obbligato sono le storie esemplari, dalla finalità pedagogica, del “realismo socialista”) con un insinuante invito a ricordare, lo spostamento dalla dimensione storica a quella dei feticcio, il ribaltamento dello sguardo analitico, storicista, rappresentativo in quello oscillante, complice e quindi opaco della seduzione sono gli elementi di novità che l'opera prima di Kusturica porta nella cinematografia jugoslava.
Il film, pluridecorato (tredici premi, di cui il principale è il Leone veneziano per il miglior esordio nel 1981), giudicato dalla stampa connazionale ed estera “simpatico e attraente”, costituisce in effetti uno dei primi tentativi a Est - ma nel paese forse più vicino per aspirazioni e scambi all'Occidente – di reinterpretare un periodo storico particolare, come gli anni Sessanta, attraverso il mito e le mode, al di fuori cioè di un “inabissamento” descrittivo o della cronaca di vita, ma al di fuori anche della commedia di costume, nutrita di un puro gioco combinatorio di caratteri e situazioni e ugualmente chiusa nell'assetto spaziale e temporale della propria messa in scena.
Il filtro ambiguo della memoria (chi ricorda a chi?) serve appunto a spezzare la determinatezza della finzione, ossia la definizione univoca dei “visto dal poi” e dei “visto dal dentro”, la traiettoria che dal destinante va al destinatario secondo una sola direzione. Il film si apre all'immaginario collettivo proprio perché sostiuisce alla datazione dei racconto la circolarità della situazione mitica (ad esempio, il rapporto padre-figlio) e alla verosimiglianza ambientale, intesa come calco realistico, l'evidenza di alcuni reperti-feticcio che ricreano lo “spirito” dell'epoca e ne producono l'immediata riconoscibilità moderna. Così è per le minigonne, per le prime timide manifestazioni di emancipazione sessuale, per le canzoni, che non sono impiegate come sfondo e complemento sonoro ma vengono in primo piano, in quanto “segnali” predisposti a innescare la godibilità al presente del pubblico (vedi il leit-motiv stentoreo e storpiato 24.000 baci; sintomatico inoltre l'episodio in cui l'amico di Dino ossessionato dal sesso, riferendo di una sua ennesima avventura erotica inventata, abbandona a un tratto la parola per il canto .
In virtù di queste accentuazioni nella contestualizzazione della vicenda, cioè dell'uso non strettamente funzionale all'economia dei racconto dei reperti mitici, la narrazione diventa un medium, strumento non di rievocazione dei passato ma di evocazione di una sorta di memoria collettiva attraverso la cooperazione fra l'autore e lo spettatore, ovvero: Ti ricordi di Dolly Bell? come “jugoslavian graffiti”. È forse questa - stando alle dichiarazioni di Kusturica in un'intervista - la “terza dimensione” in cui si colloca il film, quella che “conserva e contiene alcuni fondamentali attributi dell'esistenza, e indaga su alcune categorie imprescindibili, come il padre, il primo amore, i primi conflitti con l'ambiente”, ma sotto il segno del distacco ironico e della comicità “intesi come contrappunto alle drammatiche esperienze dell'esistenza”, così da costituire “un tandem dotato di una tensione interna e di un antagonismo”. Insomma, le ricostruzioni dei passato possono essere veramente recepite solo attraverso l'attualizzazione che si produce in un meccanismo di piacere, in uno scambio complice fra autore e spettatore.
Non è probabilmente un caso che Kusturica avrebbe voluto aggiungere al titolo della sua opera prima la definizione “film storico d'amore”, scansando fin da subito gli equivoci di un approccio storicista. La cosa non è irrilevante per chi conosce anche solo approssimativamente la situazione della cinematografia jugoslava, dove capita spesso di imbattersi nell'inerte quadro d'epoca (esempio recente, conosciuto anche in Italia: Il falcone di Mimica) e dove esiste una critica ancora legata al “positivo” della rappresentazione, che non è necessariamente ottimismo, ma qualifica di un'autenticità frontale che finisce coi diventare, ancora una volta, prescrizione della saldezza dei punto di vista e della trasparenza di una finzione senza malizie, che non “gioca” con lo spettatore.(...)
Lodovico Stefanoni, Cineforum n. 220, 12/1982

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
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