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Comune (La) - Kollektivet


Regia:Vinterberg Thomas

Cast e credits:
Sceneggiatura: Tobias Lindholm, Thomas Vinterberg; fotografia: Jesper Tøffner; musiche: Fons Merkies; montaggio: Anne Østerud, Janus Billeskov Jansen; scenografia: Niels Sejer; arredamento: Didde Højlund Olsen, Salli Lindgreen; costumi: Ellen Lens; effetti: Søren Hvam, Luuk Meijer, Storm Post Production; interpreti: Ulrich Thomsen (Erik), Trine Dyrholm (Anna), Helene Reingaard Neumann (Emma), Martha Sofie Wallstrøm Hansen (Freja), Lars Ranthe (Ole), Fares Fares (Allon) Magnus Millang (Steffen), Anne Gry Henningsen (Ditte), Julie Agnete Vang (Mona), Oliver Methling Søndergaard (Johannes), Mads Reuther (Jesper), Rasmus Lind Rubin (Peter), Ulver Skuli Abildgaard (Preben), Sebastian Grønnegaard Milbrat (Vilads), Jytte Kvinesdal (Kirsten); produzione: Zentropa Entertainments-Toolbox Film-Danmarks Radio (DR).Det Danske Filminstitut-Topkapi Films; distribuzione: Bim; origine: Danimarca, 2015; durata: 111'.

Trama:La vita di una comune nella Danimarca degli anni Settanta. Erik, un docente di architettura, eredita la vecchia casa di suo padre a Hellerup, a nord di Copenhagen. La dimora è molto grande, così sua moglie Anna, nota giornalista televisiva, suggerisce di invitare gli amici ad andare a vivere con loro. In questo modo la donna spera di sfuggire alla noia che ha cominciato a fare breccia nel loro matrimonio. In poco tempo, una decina di donne, uomini e bambini si trasferiscono nella casa di campagna. Il gruppo inizia a convivere prendendo insieme le decisioni, affrontando discussioni e dibattiti e divertendosi con lunghe nuotate nel vicino stretto di Øresund. Non mancano però i contrasti, dovuti alle grandi o piccole idiosincrasie di ognuno di loro e il fragile equilibrio rischia di venir meno quando Erik si innamora della studentessa Emma, che si trasferisce nella casa. Spettatrice degli eventi è la 14enne Freja, figlia di Erik e Anna, che osservando la "comune" con distacco cerca di trovare la sua strada.

Critica (1):Dopo la parentesi britannica di Via dalla pazza folla (2015), Thomas Vinterberg torna a girare in patria per fare ciò che sa fare meglio: raccontare la società danese attraverso i rapporti familiari. Anche se a dire il vero non è una vera e propria famiglia (o non solo) ad essere protagonista di Kollektivet.
Siamo a Copenhagen nel 1975 e la storia è quella Erik, professore universitario di architettura, di sua moglie Anna, celebre speaker del telegiornale nazionale, e della loro figlia adolescente Freja che, dopo aver ricevuto in eredità una grande villa decidono – invece di venderla – di chiedere ad alcuni amici e conoscenti di condividere la casa con loro. La comune del titolo è formata dunque da questo gruppo eterogeneo di persone che – in un tentativo di applicazione perfetto della democrazia – abita la casa (di cui tutti sono proprietari allo stesso modo) e prende ogni decisione in maniera collettiva, facendo riunioni e mettendo ai voti le proposte. L’armonia iniziale viene presto intaccata quando Erik inizia una relazione extraconiugale con Emma, una delle sue studentesse. Confessato il tradimento alla moglie – che pur ferita, sopporta – Erik le dice anche di provare un sentimento talmente forte per l’amante da non poter fare a meno di lei e tuttavia di non voler abbandonare moglie e figlia. L’idea di Anna di chiedere a Emma di unirsi alla comune (quest’ultima inizialmente titubante ma poi accogliente), porta a una serie di conseguenze che mina la stabilità mentale della donna e l’equilibrio stesso della comunità.
Copenhagen molto più di tante città europee più grandi, famose e cool è stata (e per certi versi è ancora) la città degli hippie. Il movimento ha cominciato a “occuparla” sin dalla fine degli anni Sessanta, mentre nel 1971 vi è stata fondata quella che è diventata la comunità hippie indipendente più grande d’Europa, oltre che lo squat più longevo e fortunato mai esistito: Christiania. È dunque un luogo – come lo è nell’immaginario comune tutto il nord dell’Europa e la Scandinavia in particolare – che più di ogni altro si presta a per ambientare un film che parla di esperimenti sociali come quello descritto in Kollektivet. Vinterberg non sceglie però la prospettiva hippie per raccontare la sua storia e anzi, gioca proprio con i luoghi comuni e con le influenze culturali che un tale universo fornisce, per mettere in scena questa (crudele) parabola di normalizzazione.
I protagonisti del film non sono hippie o fricchettoni nel senso stretto del termine e, per quanto molto diversi fra loro, sono donne e uomini a loro modo inseriti nel tessuto sociale nel quale vivono. Tuttavia le aspirazioni di emancipazione dalle convenzioni borghesi e da uno stile di vita omologato – mosse più dall’eccitazione dell’esperimento che da concreti ideali anticonformisti – li rendono modelli emblematici di un’espressione sociale che percorre il discrimine fra adattamento e resistenza.
Cacciate dalla porta però, le convenzioni sociali rientrano rapidamente dalla finestra ci dice il regista. E ogni tentativo di ergere il proprio desiderio a barriera per arginare l’istinto (che qui è più che mai un prodotto culturale) finisce per creare un corto circuito relazionale dalle fortissime implicazioni emotive. Anna ne fa le spese e con lei il ménage familiare che la lega a marito e figlia. Lo sgretolarsi progressivo della relazione parentale assume i contorni della descrizione di un fallimento che coinvolge non solo il nucleo famiglia, ma si allarga a tutta la comunità. Il baluardo democratico, tollerante e inclusivo che la comune incarna, retto su regole che rifiutano ogni forma gerarchica ed eleggono la libertà a modello di comportamento, finisce quindi per arrendersi alla più oligarchica e reazionaria delle scelte. Ovvero sceglie di espellere l’elemento che crea lo squilibrio; o per dirla in maniera più diretta, si libera semplicemente della mela marcia. Illustrando l’esplicita, netta e beffarda rivincita dei principi sociali sulla (presunta) legge di natura.
Vinterberg a suo agio come non mai quando si getta in un racconto dove i conflitti covano sotto le psicologie dei personaggi è molto bravo (addirittura didascalico) a dare corpo all’ambiguità e alla sottilissima ironia che circonda ogni situazione. Il ritmo incalzante che gli permette di tenere una regia quasi completamente racchiusa in interni inoltre, dà un’idea visiva molto precisa di come tutto – i personaggi sì, ma anche le loro convinzioni, gli ideali e gli istinti – sia circondato da un’enorme e segregante gabbia. Ma anche come i panni quando sono davvero sporchi – come insegna il primo dei principi morali borghesi – si lavano sempre e soltanto in casa. Sia che questa casa ospiti il più convenzionale dei nuclei familiari, o che ad abitarla ci sia una grande e allegra comune.
Lorenzo Rossi, Cineforum – cineforum.it, 18/2/2016

Critica (2):Da cofondatore, insieme a Lars von Trier, del movimento cinematografico Dogma, il regista danese Thomas Vinterberg (Festen, Il sospetto) fa pieno centro pieno al Festival di Berlino con una profonda commedia sociologica ispirata all’omonima pièce tatrale autobiografica. Il soggetto impastato di malinconia e ironia è una rievocazione dei suoi ricordi d’infanzia in una comune dei primi anni settanta.
Thomas Vinterberg disegna nel suo nuovo Kollektivet (La comune), in concorso, un ritratto affilato della società di quegli anni, non solo danese!, tesa tra pulsioni comunitarie e individualismo nevrotico. A margine dell’applauditissima presentazione per la stampa il cineasta ha detto: “Quello che mi stava più a cuore mentre scrivevo e giravo questo film, era mostrare l’importanza del sorriso e dell’ironia. Una comune aveva molti punti deboli e ha creato non pochi problemi nella crescita emozionale della generazione successiva. Ma una cosa mi manca: la capacità di condividere il materiale e l’immateriale che allora, almeno, si è tentato. È quell’anelito, certo un ideale, di empatia che oggi mi manca. E non solo nel mio piccolo mondo danese”.
Riguardo all’attuale crisi europea dei rifugiati, Vinterberg si esprime così: “Mi vergogno di essere danese, se penso a quello che sta succedendo, e al modo in cui il mio paese sta reagendo: isolandosi. Anche per questo dico col mio film: imparate a dare a chi ha più bisogno”. Della libertà sessuale che Vinterberg ha vissuto in famiglia, il regista felicemente sposato e padre di famiglia dice: “Non ho mai creduto alle relazioni aperte. Credo nell’apertura, nella misericordia verso il prossimo, ma non credo a una relazione, o un matrimonio, aperti ad altre persone”.
(…) Oggi Vinterberg è lo specialista dei ritratti familiari nel cinema europeo. Anche questa un’eredità di Bergman? “Credo che la struttura della famiglia possa essere, o diventare, molto claustrofobica. E credo abbia delle potenzialità distruttive. Cerco di dire questo nei miei film. Ma quello che dico è anche questo: la famiglia è il centro d’amore più importante e profondo che si possa avere nella vita. È anche il centro dell’energia vitale di ciascuno di noi. Quello su cui punto la telecamera nei miei lavori sono i suoi sistemi e strutture interne. Ma tutte sono una declinazione dell’elemento fondante di ogni nucleo familiare: l’amore”.
Simone Porrovecchio, La Rivista del Cinematografo, cinematografo.it

Critica (3):

Critica (4):
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