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Capitalism: A Love Story - Capitalism: A Love Story


Regia:Moore Michael

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura: Michael Moore; fotografia: Jayme Roy, Daniel Marracino; musiche: Jeff Gibbs; montaggio: Conor O'Neill, John Walter, Jessica Brunetto, Alex Meillier, Tanya Ager Meillier, Pablo Proenza, T. Woody Richman; interpreti: Michael Moore; produzione: Michael e Anne Moore, Rod Birleson e John Hardesty per Dog Eat Dog Films, Overture Films; distribuzione: Mikado; origine: Usa, 2009; durata: 119’.

Trama:Sullo sfondo del passaggio di consegne tra l'entrante amministrazione del neoeletto Barack Obama e quella uscente dell'ex presidente Bush, il documentario mostra le conseguenze provocate negli Stati Uniti dalla crisi economica mondiale e le responsabilità delle Corporazioni nel disagio provocato nelle esistenze non solo dei cittadini americani ma anche nel resto del mondo.

Critica (1):«Non ci sono abbastanza salviette disinfettanti nel mondo per ripulire Washington». Ok, basta così, è chiaro. Invece nel suo seducente film di montaggio Capitalism: a love story. Moore va oltre, tocca il cuore del problema esposto altrove, Bowling for a Columbine (Oscar 2002) o la Palma d' oro 2004 per Farenheit 9/11: perché pagano sempre i poveri? Il colpevole è il capitalismo, ma il regista la prende alla larga, partendo dall' antica Roma per arrivare alla crisi economica culminata e pilotata non a caso, dice, nel via libera del consiglio di stato Usa al salvataggio delle banche a quindici giorni dall' elezione di Obama. Un colpo di stato finanziario? «Sì, si può dire così». Nel trattare materie che potevan essere noiose ed oscure, Moore fa il miracolo di renderle divertenti, curiose, commoventi. Come quando usa l' humour sia negli spezzoni (la pubblicità di una banca con la voce del Padrino, le titubanze religiose dette dal Gesù di Zeffirelli) che nella colonna sonora (Herrmann con Vertigo, ma anche il Bidone di Rota-Fellini). Moore va con un sacchetto da zio Paperone dalle banche a chiedere la restituzione del maltolto e circonda la Borsa con il nastro giallo usato dalla polizia sui luoghi del delitto. E poi svela altarini, dopo aver messo in moto l' operazione «ditemi tutto quello che sapete» sul suo sito: vien fuori che le banche si intestano i premi assicurativi sugli impiegati, gioendo alla loro morte. È commovente quando, con un prezioso discorso, ci fa sentire il presidente Roosvelt che parla nel ' 44 ed espone la teoria di un mondo dove ciascuno deve avere i propri diritti, e ci sembra James Stewart in un film di Capra (o Preston Sturges). In mezzo ci sono ruberie odierne, scandali finanziari, equivalenze politiche e un parallelismo evangelico quando interroga tre prelati uniti nel ritenere il capitalismo quel cancro dell' umanità che Gesù volle combattere. Non manca il fattaccio di 60 milioni di mutui a interessi variabili ma sempre in crescendo: la gente lascia con la casa anche la sua storia, il passato. Dice che negli Usa l' 1% della popolazione possiede più del restante 99%. Un editorialista (Wall Street Journal) dice che la democrazia sono due lupi e una pecora che decidono cosa mangiare a cena. Il nuovo Moore, che finisce con un' Internazionale a swing jazz, fa ridere e arrabbiare a cuore aperto. (…)
Maurizio Porro, Il Corriere della Sera, 30/10/2009

Critica (2):«Il capitalismo è buono solo quando è sotto terra», spiega in questo suo nuovo capolavoro, e con argomentazioni inoppugnabili, Michael Moore, il potente giornalista venuto dal Michigan con una valigia piena di comicità sferzante. Il film è quasi una filastrocca appassionata per bambini sulle «creature selvagge», molto adatta a Halloween, raccontata da un Don Chisciotte vittorioso, ma ancora incredulo del miracolo Barack Obama.
A quei bambini, molti con le basette bianche, bisognerà spiegare per la prima volta cos'è davvero il mostro «socialismo», quali sono le sue virtù, e perché bisognerà inventarne un altro modello, vincente sul mercato, se si vuole salvare un mondo fatto a pezzi dai «subprime» e dai «derivati» (in ultima pagina Sandro Portelli ci fa capire quanto è difficile scatenare questa grande rivoluzione culturale proletaria americana). La filastrocca è condotta con ritmo esilarante ed è piena di indignato furore patriottico sia sulla distruzione dell'ex «paese di dio» (curata con meticolosa perfidia e alto senso del profitto privato immediato, dalla diabolica gang Bush) che sulla fine di un mitico sogno di felicità per tutti gli americani (vedere Katrina) e non solo per i Ceo delle grandi multinazionali, cui di rigore spetterebbe la rieducazione «controllata» e non le buone uscite faraoniche che già riempirono d'oro i responsabili dell'altro supercrack della storia Usa, quella del '29, di cui in questi giorni festeggiamo, terrorizzati, l'ottantesimo anniversario. Ma è possibile un nuovo patto tra lavoratori e classi dirigenti Usa, un new new deal d'epoca «global», fosse anche il green deal profetizzato dal nuovo presidente, che ritorni in qualche modo alla scoperta di F.D. Roosevelt, cui tanto deve Mao: «è la lotta dal basso che deve dirigere tutto: senza scontro sociale nessun grande balzo in avanti è mai possibile»?
Nel documentari di Michael Moore, girati sempre in prima persona singolare maschile, lancia in resta all'assalto dei luoghi inespugnabili del potere (qui le banche e Wall street), il nucleo forte è il collage pop, la rielaborazione sgocciolante, alla Andy Warhol di materiali filmati pre-esistenti, che tanto fanno storcere il naso ai puristi dell'invertebrato cinema-verité, e che invece appartiene alla tradizione nobile del documentarismo politico americano (pensiamo a Emile De Antonio), fatto di risposte argomentate e non di domande generiche, di decostruzione del linguaggio del potere, e non di sentimentalismo umanitario sparso. Prendiamo la sequenza più sconvolgente, quando F. D. Roosevelt, filmato nel '44, presenta la «seconda carta dei diritti». Il presidente spiega che per non rendere formale il «diritto alla felicità» garantito ai cittadini americani dalla prima carta, ha intenzione di assicurare, per tutti, casa, cibo, istruzione, acqua e sanità. Moore commenta che questo nucleo forte di stato sociale sarà il perno sia della carta mondiale dei diritti dell'uomo (voluta da Eleonora Roosevelt) che delle costituzioni dei paesi vinti (Italia, Giappone, Germania) e obbligati ai principi democratici. Ma che, alla morte di Roosevelt, sarà talmente rimosso dal sistema nazionale dei valori (anzi cancellato con particolare crudeltà, perché in odore di comunismo - vi dice qualcosa? - a forza di maccartismo, Vietnam e omicidi politici) che perfino ritrovare quel filmato presidenziale (scovato poi in un archivio della Carolina del sud) è stata impresa improba. Feroce rimetterla in circolazione, come feroce è un paese nel quale, grazie alle arzigogolate truffe e rapine di Citibank e soci, ogni 7" una casa viene pignorata, 14 mila persone restano senza lavoro, l'1% ha tutto e il 99% niente. Intanto gli operai occupano le fabbriche o inventano lotte alternative. O rubano al manifesto l'idea che la forma cooperativa è una potente forza di mercato. E che il bene pubblico dovrebbe garantire, anche pagando più dei 4,5 milioni di euro che dall'anno prossimo Berlusconi si riserva di scipparci (facendo contento solo il Fatto quotidiano). È proprio vero: «Quando i liberali a parole smettono di far danni, bisogna dar fiducia a chi finalmente agisce da marxista».
Roberto Silvestri, Il Manifesto, 30/10/2009

Critica (3):

Critica (4):
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