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Marito per Tillie (Un) - Pete And Tillie


Regia:Ritt Martin

Cast e credits:
Soggetto: Peter De Vries; sceneggiatura: Julius J. Epstein; fotografia: John A. Alonzo; musiche: John Williams; montaggio: Frank Brache; interpreti: Rene' Auberjonois (Timmy Twitchell), Whit Bissell (il pastore), Timothy Blake (Lucy Lund), Philip Bourneuf (Dottor Willet), Carol Burnett (Tillie Schlaine), Henry Jones (Tucker), Walter Matthau (Pete Seltzer), Lee Harcourt Montgomery (Robbie), Barry Nelson (Burt), Geraldine Page (Gertrude), Kent Smith (Padre Keating); produzione: Universal; distribuzione: Cineteca Lucana; origine: Usa, 1972; durata: 90'.

Trama:Spronata dall'amica Gertrude, che la vorrebbe finalmente accasata, la trentanovenne Tillie frequenta il non più giovanissimo Pete Seltzer, gran cacciatore di gonnelle. Pur conoscendo, di lui, questo ed altri difetti, lo sposa e gli regala un figlio, Robbie. Pete ama sia il bambino sia Tillie, il che non gli impedisce di cercare avventure, che la moglie sopporta pazientemente. All'età di nove anni, Robbie muore. Tillie, che ha una crisi religiosa e da un anno si rifiuta al marito, e Pete, si separano ma non divorziano. Ricoveratasi in una clinica, dopo una furibonda lite con Gertrude, per ritrovare il suo equilibrio, Tillie riceve una offerta di matrimonio da parte di un suo amico omosessuale. Pete, pero', si rifà vivo e la coppia si ricompone.

Critica (1):Un film su quelle che i francesi chiamerebbero " les choses de la vie ". Piú amare che dolci. Se l'intento era di comunicare emozioni senza forzare i sentimenti, Pete'n' Tillie mantiene la promessa, scoppiettante di battute nella prima parte, ricco di pudica tenerezza nella seconda, quando la sorte si fa crudele. Il raro equilibrio di umorismo e brillantezza, dramma e levità, è prodotto da una felice sintonia di fattori, ultimo dei quali - secondo molti recensori - sarebbe proprio la regia di Ritt, onesta esecuzione di una partitura non esattamente nelle sue corde. Appunto ingeneroso. Certo che Ritt non è Billy Wilder, e neppure Blake Edwards: del primo gli mancherà sempre la grinta acida dell'umorismo a doppio fondo: del secondo il geniaccio per la battuta fulminante, per il gag pirotecnico a ripetizione. Ma questa sua prima sortita nella commedia (altre faranno poi seguito, sino a divenire una gustosa variante) non ha per nulla l'aspetto freddo e trasandato della regia, diciamo cosí, per "corrispondenza": come Lumet, anche Ritt - pur non nato per la commedia - sa assecondarne le specifiche valenze, adattarsi alle sue esigenze, valorizzarne gli aspetti più propriamente introspettivi e psicologici.
Non c'è dunque da scandalizzarsi se la parte del leone, oltreché all'anziano sceneggiatore Julius J. Epstein, qui anche in veste di produttore, spetta ai due protagonisti, Walter Matthau e Carol Burnett, simpatica e sino a quel momento inedita coppia di brutti anatroccoli non piú giovincelli. Consueto campione di cinismo rotto alle sorprese della vita, Matthau suona al piano sempre lo stesso ragtime (talvolta, quand'è di buonumore, nudo, con soltanto un bizzarro cappellino in testa) e filosofeggia sui " veri sentimenti " raccontando di averci fatto sopra uno studio approfondito, in base al quale ha concluso che meritano di restar nascosti. Ovviamente è "liberai", non crede in Dio, beve, va a donne, ha la battuta sempre pronta e nessuna intenzione di mettere la testa a posto: è il classico animale metropolitano di mezza età, senza problemi economici e pregiudizi, divenuto sullo schermo una sorta di alter ego di ciò che l'attore è anche nella vita.
Inibita, complessata e destinata al club dei cuori solitari per contro la Burnett, non del tutto da buttare però se riesce a tener testa - anche intellettualmente - al partner, trascinandolo al matrimonio. Quando poi scopre il tradimento del marito, convoca l'amante e la fa scappare narrandole, con classe e apparente distacco, delle molte altre infelici cadute nel medesimo tranello. Il colpo che, comprensibilmente, non se la sente di incassare le viene dalla scomparsa del figlio, e allora bestemmia, se la prende con la Madonna e con tutti i santi del paradiso prima di colpevolizzare la flemma del coniuge. Epilogo all'insegna della riconciliazione, ma tutt'altro che stucchevole e molto umano: " sia pur troppo programmatico, quel lieto fine è raccontato con pudore e tenerezza " (Morando Morandini, " Il Giorno ", 17 aprile 1977). Sono le mezze tinte, l'effetto
straniante del fitto e spesso cervellotico (ma in chiave ironica) dialogare, il cambio modulato di registro (mai traumatico, neppure quando le circostanze lo autorizzerebbero) a reggere il peso di una architettura familiare non originalissima negli assunti ma certamente sobria e credibile. un po' crepuscolare ma senza languori e cedimenti. E non è poco.
Roberto Ellero, Martin Ritt, Il Castoro Cinema, 3-4/1977

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
Martin Ritt
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