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Bronson - Bronson


Regia:Refn Nicolas Winding

Cast e credits:
Soggetto: Brock Norman Brock, Nicolas Winding Refn; sceneggiatura: Brock Norman Brock, Nicolas Winding Refn; fotografia: Larry Smith; montaggio: Mat Newman; scenografia: Adrian Smith; costumi: Sian Jenkins; interpreti: Tom Hardy (Charles Bronson/Michael Peterson), Kelly Adams (Irene), Katy Barker (Julie), Amanda Burton (madre di Charlie), Andrew Forbes (padre di Charlie), Jon House (Webber), Matt King (Paul Daniels), James Lance (Phil), Juliet Oldfield (Alison), Jonny Phillips (Governatore prigione), Hugh Ross (Zio Jack), Joe Tucker (John White); Produzione: Vertigo Films-4dh Films-Aramid Entertainment-Str8jacket Creations-Em Media- Perfume Films; distribuzione: One Movie; origine: Gran Bretagna, 2008; durata: 89’. Vietato 14

Trama:Le vicende di uno dei più famosi criminali inglesi, Michael Gordon Peterson, che nel 1974 a soli 19 anni per farsi un nome tenta di rapinare un ufficio postale con un fucile a canne mozze. Arrestato e condannato a sette anni di carcere, durante il periodo della prigione diventa ossessionato dall'idea di diventare famoso e assume il "nome d'arte" di Charles Bronson. Per riuscire nel suo intento, Peterson/Charles Bronson inizia a mettere in atto una serie di azioni violente riuscendo a ottenendo numerosi prolungamenti di pena.

Critica (1):Nicolas Winding Refn presenta… il detenuto più cattivo delle carceri britanniche, Michael Peterson. Condannato a 7 anni per rapina e poi asceso a fenomeno coatto (reclusione, ma non solo), perché quella pena è levitata a 34 anni (di cui 30 in isolamento) e oggi all'ergastolo causa irrefrenabili “intemperanze” dietro le sbarre. Circola una petizione per liberarlo, ma difficilmente il non-biopic del genietto danese, premio alla regia per Drive a Cannes, contribuirà al riesame: Bronson - il nickname con cui fu ribattezzato dal suo manager di street boxe - è un’iradiddio che butteresti via la chiave.
Crasi di Vin Diesel e Aldo Baglio, è lo straordinario Tom Hardy, con surplus di muscolatura, a dargli replica: non c’è trama, non c’è narrazione, piuttosto, rudi, crudi ma immaginifici tableaux vivants in prima persona singolare. In breve, che cinema è? Non un prison-break, perché il carcere è l’hortus conclusus di Bronson, che fuori è un disadattato imbelle, né uno slasher-movie, poiché le sparute efferatezze sono esternalità, né, ovviamente, cinema d’essai buono per (quasi) tutti i palati e i paraocchi: Refn sintetizza una molecola aliena, una scrittura privata da leggere tra le righe dei generi e l’interpunzione di un “cinema” altrove occhiuto e pastorizzato.
Al suo (metacinematografico) Bronson concede magnanimo il tu per tu con la camera, lo mette perfino sul palco di un music hall travestito da clown, ma c’è di più: in libera uscita è una splendida rappresentazione di un criminale e del suo habitat d’elezione, che la fotografia di Larry Smith sa accordare tra poesia e lirismo. Scorre il sangue e non si lesina sulle botte, ma questo calcolo agiografico (sui generis) ha per risultato un’iperrealistica catarsi, un affrancamento dalla prigionia audiovisiva ultima scorsa. A portarlo in sala è la benemerita One Movie, allo spettatore il gradito compito di togliersi le fette di cinemino dagli occhi e riscoprirsi giustizieri per immagini e suoni: in cattività è meglio. Almeno, per Bronson.
Federico Pontiggia, Il Fatto quotidiano, 9/6/2011

Critica (2):“Il mio nome è Charles Bronson e per tutta la vita ho cercato di diventare famoso”. Nonostante il titolo e questa frase d’apertura, non si tratta di un biopic riguardante il compianto attore americano rimasto nella memoria di tutti per aver incarnato il “giustiziere della notte” più famoso dello schermo, anche perché il personaggio che vediamo parlare e che, interpretato dal Tom Hardy di “RocknRolla” (2008), comincia a raccontarci la sua storia, si presenta calvo e con i baffi. In ogni caso, però, è una storia vera quella affrontata dalla pellicola del danese Nicolas Winding Refn, in seguito premiato a Cannes per “Drive” (2011), in quanto, dopo aver posto davanti all’obiettivo di ripresa questa carismatica figura, della quale Bronson scopriamo presto essere uno pseudonimo, si procede con una serie di flashback volti a ricostruirne la sua tutt’altro che rosea esistenza. Esistenza che comincia negli anni Cinquanta nei quartieri operai delle città britanniche e destinata a passare per malefatte adolescenziali ed una rapina all’ufficio postale che gli procura una condanna a sette anni di carcere, durante i quali manifesta la sua irrequieta indole con ripetute aggressioni e provocazioni alle guardie. Esistenza non priva neppure del furto di un anello di fidanzamento in una gioielleria e di una cospirazione per rapina, parallelamente ad un’attività artistica rappresentata dalla scrittura di libri e dalla realizzazione di opere d’arte, che l’autore di “Valhalla rising” (2009), decisamente portato per questo tipo di vicende su celluloide, racconta come se lo stesso protagonista si stesse cimentando in una performance da palcoscenico. Infatti, al di là di una certa, probabile influenza da “Arancia meccanica” (1971) di Stanley Kubrick, testimoniata soprattutto dall’uso della musica classica come colonna sonora di un contesto decisamente feroce, tra le immagini non è davvero l’ironia ad essere assente. Un’ironia volta a riconfermare il particolare gusto del regista, il quale, come già accaduto per la sua trilogia “Pusher”, sfrutta la violenza solo al fine di farle fare da sfondo ad un racconto per immagini costruito quasi per intero sui dialoghi, corredandolo, però, di toni vagamente grotteschi. Per un cinema, quindi, che fa sì ricorso agli elementi tipici della produzione volgarmente definita “commerciale”, ma per sfruttarli all’interno di un dramma rivolto ad un pubblico molto meno vasto e, allo stesso tempo, fortunatamente lontano dai tanti, insostenibili “polpettoni autoriali”.
F. Lomuscio (a cura di), filmup.leonardo.it

Critica (3):

Critica (4):
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