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New Rose Hotel - New Rose Hotel


Regia:Ferrara Abel

Cast e credits:
Soggetto:
da un racconto di William Gibson; sceneggiatura: Abel Ferrara, Chris Zois; fotografia: Ken Kelsch; montaggio: James Moll, Anthony Redinan, musica: Schooly D.; scenografia: Frank DeCurtis; costumi: David C. Robinson; interpreti: Asia Argento (Sandii), Christopher Walken (Fox), Willem Dafoe (X), Yoshitaka Amano (Hiroshi), Annabella Sciorra (Madame Rosa); produzione: Edward R. Pressman per Edward R. Pressman Film Corporation; distribuzione: Bim; origine: USA, 1998;; durata: 98'.

Trama:In un possibile futuro le società multinazionali, in continua guerra tra di loro, dominano il mondo. Fox e X hanno l'incarico, per conto della Osaka, di assoldare Hiroshi scienziato giapponese che sta lavorando alla manipolazione di alcuni virus. I due ingaggiano Sandii, una ragazza poco di buono che dovrà sedurre Hiroshi e convincerlo a lasciare la famiglia

Critica (1):Scorre il video di un tentato rapimento. La vittima, in realtà sfuggita all’agguato, è un uomo dai tratti orientali che poi scopriremo essere Hiroshi Yomuri, geniale ricercatore specializzato in ingegneria genetica, in forza alla potente Maas. Dopo i titoli di testa ci ritroviamo a Tokyo, in un lussuoso locale-bordello notturno. L’istrionico Fox, professionista della compravendita di grandi cervelli, viene a sapere che Hiroshi è a Vienna, lontano dalla moglie. Lo dice a X, amico e compagno d’affari, ipotizzando di vendere lo scienziato alla Hosaka grazie all’aiuto di una prostituta di origine italiana, Sandii, conosciuta nel locale. Le offrono un milione di dollari e lei, dopo essere stata istruita sul personaggio da Fox con alcuni video e dopo aver imparato l’arte della seduzione da X (che però finisce per innamorarsene), parte per Vienna. Il piano va a segno: veniamo a sapere che Hiroshi ha ceduto alla passione e si è lasciato convincere a cambiare bandiera. Fox e X intascano cento milioni di dollari dalla Hosaha. X incontra in segreto Sandii a Berlino e ipotizza un futuro insieme. Poi la ragazza riparte e l’amante confessa a Fox i suoi sentimenti: lui provvede a fornirgli quattro geishe.
Intanto a Marrakesh, dove è stato fatto costruire un laboratorio personale per Hiroshi, arrivano tutti gli scienziati della Hosaka. Poco dopo X viene a sapere che sono tutti morti: qualcuno (evidentemente pagato dalla Maas) ha riprogrammato il sintetizzatore del Dna causando un’epidemia. La Hosaka ora vuole vendicarsi. Fox viene accerchiato in un grande magazzino e si suicida buttandosi nel vuoto.
X va a nascondersi in una delle celle del New Rose Hotel, capisce che Sandii li ha traditi (è stata lei a causare la strage) e ripensa a tutta la vicenda impugnando una pistola. I flashback si susseguono fino a estinguersi sul primo piano di Sandii mentre X le dice: "Se veramente lo desideri, lasceremo tutto".
Ci si può innamorare del "vuoto"? Forse non a prima vista. E quasi mai per un capriccio. Ma la cosa è possibile. Anzi, oggi come oggi è perfino probabile. D’altra parte Dio è morto da tempo e Nietzsche pure. I Coen giocano a far cinema col nulla e Tarantino gioca al nulla dell’assurdo contemporaneo usando tanto cinema (per non parlare del tizio che Eastwood manda in giro con un guinzaglio senza cane). Abbiamo avuto tutto il tempo per "sparire" nel vaso di Ozu, per sapere il minimo indispensabile (?) sullo zen e il tiro con arco, per conoscere ogni dipendenza possibile (anche ideale e culturale) e sperimentare ogni angoscia metropolitana. Se a tutto questo aggiungiamo che Nicholas St. John forse se n’è andato a insegnare catechismo in qualche setta fondamentalista (come ipotizza Abel) abbandonando Ferrara ai suo destino, ecco che il quadro è completo. Col vuoto non si improvvisa. Bisogna aver prima percorso tanta strada, fatto e disfatto un sacco di esperienze, progettato redenzioni... Magari si flirta un po’, tra un pieno e l’altro, tra una tragica storia estrema coi fiocchi e una commissione risolta con disinvolta eleganza. Poi le circostanze, le intuizioni le scelte ti portano a un passo dall’incontro, lasciandoti intuire - diciamo così - l’al di là di ciò che credevi di cercare. E scocca la "scintilla"...
(...) Alberto Pezzotta ha scritto (Abel Ferrara, Il Castoro, 1999) che Blackout "è la dimostrazione di come non si possa fare cinema dopo essersi spinti tanto oltre nel dolore e nell’ambiguità". Verissimo. Dopo essersi spinto tanto oltre, Ferrara non può più fare quel cinema. Non può più continuare a scavare furiosamente nel cuore della disperazione. Non può più andare oltre nell’iperrealismo dell’angoscia, nel racconto – in paradossali parabole al contrario – del Male infinitamente gratuito. Può pero legittimamente "decentrare" lo sguardo e cercare di scoprire/svelare - con la freddezza di un necrofilo dell’immagine - la "materia" di cui quell’angoscia si nutre. Il vuoto cui approda non è quello proto-nichilista che inscena tragicamente il trionfo della Negazione o viene avvilito per la sconfitta dei Valori. È un vuoto che gira su se stesso, fascinoso e persuasivo, una spirale – in cui convergono indifferentemente briciole di vizio, filosofia, desiderio, banalità... – che si attorciglia su un modo di fare cinema diventato consapevolmente maniera di se stesso. È quindi un gioco estremo e molto seducente nel momento in cui si accetti che in questa particolare contingenza creativa il Ferrara di St. John è presente solo come materia opaca da frantumare nella centrifuga auto-dissolutiva messa in moto a partire da Blackout. Un vuoto interlocutorio forse che dovrà decidere se andare in fondo in questa ricerca – sempre più povera di "compromessi" narrativi e allergica alle convenzioni lineari – del buio che sta dietro l’immagine, della scintilla che può brillare tra un fotogramma e l’altro, del vuoto che rende possibile tutto il pieno... oppure tornare correndo il rischio di diventare l’epigono di se stesso.
"Immagine di senso". L’espressione è curiosa e intrigante. L’ha usata Creuzer per evocare il modo espressivo proprio del simbolo e della comunicazione prerazionale in genere (che possa diventare anche post?). Non c’è ancora il racconto mitico, non c’è linguaggio, linearità discorsiva, storia, dimostrazione e quindi "verità". C’è semmai la radura heidegerianaa, l’aperto, la possibilità di una rivelazione senza mediazioni dialettiche. L’immagine di senso è un’immagine insieme plastica, visiva e acustica. Una forma di comunicazione "altra" e pienamente significativa (per una mente che non è certo quella platonica, aristotelica, hegeliana...) che suona come una smentita delle nostre abitudini conoscitive. Ebbene – e arrivo al punto – film come New Rose Hotel danno a volte la netta impressione di cercare quasi inconsapevolmente un’altro linguaggio, un’altra via di comunicazione, un’immagine di senso capace di indicare senza mostrare e poi svuotarsi nel momento stesso della sua apparizione, aggirando la necessità di legarsi a un intero, a un sistema di significazione (... film) che le dia un senso. Pensiamo al cinema prodotto dalla splendida accoppiata Ferrara-St. John (Driller Killer, China Girl, King of New York, The Addiction, The Funeral). Era come se ognuno offrisse all’altro la possibilità di manifestare le proprie intuizioni in termini intelligibili. Era come un incontro tra visione e parola, talento immaginifico e tensione morale, allucinazione estemporanea e rigore drammaturgico. Svanito St. John, è come se il cinema di Ferrara abbia perso, o rinunciato, a una parte di sé. Lo si è visto in Blackout e ancora di più lo si vede in New Rose Hotel. Non ci sono più gli impeccabili e disperati percorsi tra colpa, peccato, salvezza/dannazione. Le visioni di Abel Ferrara ora cercano di significare di per sé, prendono il sopravvento su tutto il resto e diventano l’unico motivo del suo discorso. È un altro linguaggio, non più lineare ma circolare. Un percorrere avanti e indietro il doppio cerchio di quell’infinito messo simbolicamente in bella mostra sul tavolino di una camera d’albergo. Ed è un linguaggio che si sostanzia in atmosfere palpabili tanto sono "dense": bagni di colore (rosso morboso, bianco intellettuale, verde illusione...) in cui si naufraga volentieri, volti scavati da luci taglienti, tappeti sonori distorti e musiche che sono la quintessenza dell’ambiguità... E poi oggetti-feticcio che fissano improvvisamente l’attenzione; zattere che navigano in un oceano visivo caotico e indistinto. Oggetti tattili come il bastone di Fox (guerriero ferito, re decaduto forse, appeso al suo scettro), che tiene il tempo della messinscena, svolge diligentemente la sua metafora fallica, vibra nell’aria o sul mini-pc di X per siglare una vittoria. Oggetti visivi-simbolo come il tatuaggio sotto l’ombelico di Sandii-Asia, una figura alata che prende forma dalla radice del suo essere, evocazione del demone sensuale che porta con sé. Oggetti sonori come i rintocchi da teatro Kabuki (siamo pur sempre in Giappone) che ci sorprendono qua e là: vedi ad esempio la campana a spirale colpita da Fox al limite di un’angoscia o il sordo gong fuori campo che accompagna misteriosamente l’offerta in denaro a Sandii nel secondo replay. Oggetti e atmosfere come luoghi di un potenziale sprofondamento nel vuoto/tutto al di là dell’immagine.
(...) L’infinito e insopportabile accumulo di flashback finale, come è stato sottolineato (ancora da Pezzotta), non vale né come "acquisizione conoscitiva" (visto che, grazie al suggerimento di Fox, sappiamo già che Sandii ha tradito) – come invece accadeva nel film di Kurosawa –, né come "reinvestimento emotivo". È solo una frantumazione definitiva, uno sciogliere i pezzi narrativi-dialogici-d’atmosfera che nell’ora di cinema precedente erano stati dati pigramente all’interno di una vicenda narrativa. È soprattutto un precipitare del film in se stesso, nel proprio abisso, vuoto di luce e pieno di illusioni – e tutto questo vale indipendentemente (!?) dal fatto che Ferrara sia stato costretto o meno a completare in fretta e furia e in economia il film, utilizzando scarti e provini, o a riusare scene già impiegate: cosa che, dopo essere stati attraversati dal dubbio, ci sembra ora improbabile e ora indifferente. Tanto per esaltare quell’assenza di movimento (o meglio, quel movimento circolare intorno a se stesso) che caratterizza tutta la messinscena. Vedi lo scherzo - perché di questo evidentemente si tratta – degli spostamenti spaziali (Tokyo, Vienna, Berlino, Marrakesh...), dati unicamente in ossessive panoramiche aeree che per lo più non dicono assolutamente nulla, estrema dichiarazione di indifferenza nei confronti del racconto, o comunque ulteriore indicazione di vuoto (in cui tutti i luoghi sono uguali), in un film i cui personaggi sono quasi sempre chiusi fra quattro pareti, catturati per lo più in primi e primissimi piani che valgono come "immagini di senso", piuttosto che come elementi drammatici.
(...) Forse qualcuno se lo sarà chiesto: perché continuiamo a dire "vuoto" invece di chiamare in causa il nostro caro e più familiare "nulla"? Perché di questo si tratta, di vuoto all’orientale, più che di drammatica negazione dell’essere. Vuoto come "ciò che, in qualcosa, non c’è" (come spiega benissimo Giorgio Pasqualotto in Estetica del vuoto, Marsilio, 1992). Il centro immobile della ruota. O anche il "niente" di una finestra che spalanca la realtà verso un’altra dimensione. Ferrara ad un certo punto mette in bocca a Fox l’insensata versione pateticamente trasgressiva, o se vogliamo "laica", di un haiku giapponese (di cui nel racconto di Gibson non c’è traccia): "Un cane in giacca e cravatta entra in un bar e ordina al barista: "Uno skotch allungato con acqua di toilette"". La si può lasciar cadere come una giullarata poco riuscita. Oppure si può riflettere sull’idea che quel tipo di composizione porta in origine con sé. L’haiku in effetti (dice Pasqualotto) vale come registrazione di un evento di cui in realtà non si vuole esprimere nessuna verità o interpretazione; vuole cioè solamente interrompere il flusso della parola logico/razionale, mostrando il linguaggio mentre accade, cioè nel vuoto che lo rende possibile. È una pratica zen. Così come allo zen va riferito il koan, la risposta stravagante e straniante, ad esempio, offerta dal maestro al discepolo per "svegliarlo", mimata (sempre trasgressivamente e "laicamente"), in quel dialogo tra Fox e Madame Rose (un’altra di quelle invenzioni di cui non c’è traccia in Gibson) in cui, in un botta e risposta filosofico-esistenziale, a domanda serissima, "Tu cosa cerchi?", Fox risponde spiazzando tutti: "Un pompino perfetto". Il koan è un decentramento della domanda fatto apposta per spostare l’attenzione dal significato del discorso al suo puro esibirsi. Scopo, come si vede, perfettamente raggiunto.
(...) Se in Blackout il nero era la via di una fuga possibile, qui invece il fondo della (fredda) disperazione, il buio totale su cui il film sembra bloccarsi, è solo il preludio ad un nuovo inizio, a un ripetersi delle cose nello stesso identico modo, con Fox in flashback che dice per la prima volta durante il film: "Ho capito. Si è accesa la luce!". Non è vero, come è stato scritto, che Ferrara sembra aver perso il sacro del suo cinema, la possibilità di esprimere Altro. Anche New Rose Hotel, in realtà, è una delle sue sacre rappresentazioni. Ma si tratta di un sacro diverso. Al posto del "pieno" del percorso salvifico o diabolico a suon di colpe, dannazioni e redenzioni, c’è il "vuoto" di un’azione – di un cinema – fine a se stessa (le spade da samurai in trasparenza dietro il grande video nell’albergo di X?) che sembra preludere a trascendenze ulteriori (cinema senza cinema?). Certo, può anche darsi che le cose non stiano così, che un giorno (la cosa non è poi così improbabile) Abel Ferrara si svegli, convochi una conferenza stampa e dica (sbagliandosi) che New Rose Hotel è un film osceno scritto e girato coi piedi di cui si pente amaramente. Il che trasformerebbe queste righe in quello che sono in realtà: vuote considerazioni su un film dedicato al vuoto.
Fabrizio Tassi, Cineforum n. 383, aprile 1999

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