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Decalogo 2 - Dekalog, dwa


Regia:Kieslowski Krzysztof

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura: Krzysztof Kieslowski, Krzysztof Piesiewicz; fotografia: Edward Kłosiński; montaggio: Ewa Smal ; musiche: Zbigniew Preisner; scenografia: Halina Dobrowolska ; costumi: Hanna Ćwikło e Małgorzata Obłoza; interpreti: Krystyna Janda (Dorota), Aleksander Bardini (il primario), Olgierd Łukaszewicz (Andrzej), Artur Barciś (infermiere); produzione: Telewizja Polsha, Sender Freies Berlin; origine: Polonia, 1988; durata: 57'.

Trama:"Non nominare il nome di Dio invano".
Una donna che ha il marito alpinista all'ospedale in fin di vita, si rivolge al primario, suo coinquilino, per sapere se potrà cavarsela. Dalla risposta dipende la sua decisione di abortire un bambino che ha concepito con l'amante. L'intreccio è psicologicamente più complesso che nel precedente, quasi tortuoso, e quasi inesistente il nesso col comandamento. Ammirevole l'uso del dettaglio, del materiale plastico: la vespa nel bicchiere, le inquadrature soggettive del moribondo sulle pareti dell'ospedale.

Critica (1):La vita è un intervallo tra due indecifrabili nulla, il nulla del prima e il nulla del dopo. Nel secondo episodio del Decalogo, ispirato al comandamento Non nominare il nome di Dio invano sono messe a confronto due vite liminari a quel nulla, una che ha appena superato lo stadio del prima, un'altra che è sulla soglia del dopo. Una donna sposata ad un uomo malato di cancro è rimasta incinta di un altro uomo. La sopravvivenza del marito preclude la nascita del bambino: se il marito non dovesse morire, la donna, che non ha mai avuto figli, sarebbe costretta (dalla sua morale) ad abortire. Dunque, queste due vite apparentemente così distanti sono legate ad un unico filo: ma non c'è nessuno che possa manovrare questo filo, nessuno in grado di stabilire quale delle due vite abbia più diritto ad essere. La lotta inconsapevole tra due vite incompatibili si combatte così nella coscienza della musicista Dorota sotto forma di dubbio angoscioso, come una scommessa cieca con il destino. Per conoscere la verità sulla sorte del marito, allora, Dorota si rivolge al vecchio primario del reparto di Oncologia che lo ha in cura, spiegandogli il suo dilemma. Ma l'uomo si rifiuta di fornirle certezze che lui non ha, di fare le veci di Dio pronunciando un verdetto sulla vita di un uomo ancora vivo. In questo modo Dorora è lasciata da sola con la sua coscienza, con la responsabilità di decidere della vita e della morte del bambino: la sua è una "bestemmia" nel senso etimologico del termine, un insulto alla sacralità della vita, al suo autodeterminarsi secondo processi estranei alla volontà e alla comprensione dell'uomo. Per dare una possibilità ad entrambe le vite di sopravvivere, il primario sarà costretto da Dorota a giurare il falso, e dunque, a suo modo, dovrà "bestemmiare" anche lui, tradendo la sua vocazione alla verità. Ma il mistero della vita, ciò che sta dietro la guarigione improvvisa dei marito di Dorota o alla sua gravidanza insperata, rimane comunque intatto. (...)
Il corpo a corpo di Dorota con le due vite che, escludendosi, le reclamano la sopravvivenza, si risolve passando al di sopra della sua volontà e del suo senso morale: la vita del bambino con l'atto demiurgico della menzogna del primario, la vita di Andrzej trovando in se stessa e nella forza del proprio dolore quel guizzo per uscire fuori dal limbo fra morte e vita in cui il mondo circostante si sgretola, e diventa sgradevole "come se mi si volesse aiutare a non avere rimpianti". Le allucinazioni visive, le impressioni che si susseguono nella mente stremata di Andrzej ruotano tutte attorno al tema del gocciare dell'acqua, della lenta perdita che scandisce il tempo della vita. Il soffitto bianco della stanza sembra un costato ferito dalle screpolature della vernice da cui cola un sangue incolore, già vuotato della vita. Dorota vive chiusa nell'autismo dei suoi contraddittori moti affettivi, e tratta la vita come oggetto di decisione (costringendo chi le è accanto, da Janek al primario, a fare altrettanto): scena emblematica di questo suo atteggiamento, quella in cui, guardando il primario che si allontana dal palazzo per andare al lavoro, la donna stacca una ad una tutte le foglie di tuia pianta rigogliosa che ha sul davanzale della finestra, arrivando a piegarne con stizza anche il fusto. Ma in un'immagine che anticipa impalpabilmente il finale del film, il fusto piegato, alle spalle della donna, si risolleva da solo, sopravvivendo. Altrettanto forte è l'immagine metafisica in cui viene descritta l'uscita di Andrzej dal tunnel dell'inessenza (da notare la similitudine con Pirandello di Ciascuno a suo modo): la straordinaria lotta per la vita di una vespa invischiata in un bicchiere di sciroppo di fragole lasciato accanto al letto di Andrzej, il suo faticoso arrancare sul cucchiaio per raggiungere il bordo, e dunque la salvezza. La concretezza di quest'immagine che si svolge accanto ad Andrzej, ma fuori di lui si evidenzia anche il senso miracoloso e inspiegabilmente semplice della regressione materiale della malattia, sottraendo ulteriormente l'andamento della vita dal dominio della volontà personale. Quello di Andrzej è un mondo a parte, fatto di verità inesprimibile, di dolore senza parole, laddove il duello di Dorota e il primario sulla sorte del bambino prescinde dalla verità, e si muove in un ambito morale e ricattatorio dove ogni parola può mutare il corso degli eventi. Tra il vecchio medico e la donna la comunicazione è sempre iperbolica, sono due mondi che si lambiscono a forza: uno, quello del primario, tutto chiuso nel ricordo monomaniacale degli affetti perduti, l'altro nevroticamente compresso nella sospensione degli affetti presenti. Dorota è in attesa di un evento irreversibile, di una catastrofe che risolva la duplicità della sua vita: come nella scena in cui spinge sulla soglia del tavolo il bicchiere pieno di tè, fino a farlo cadere e infrangere in mille pezzi, restando a guardarlo (scena opposta a quella della vespa nel bicchiere). Ma nonostante le premesse, non accadrà nulla di letale. Il gioco con la vita e con la morte di piante e animali è costante, e attraversa tutto l'episodio: dal canarino del primario alle piante di Dorota, dal cane del primario investito e ucciso da Dorota (in qualche modo anticipazione tematica di Film rosso), per giungere alla misteriosa lepre caduta da un balcone di cui il portiere, all'inizio del film, non riesce a risalire al proprietario. La fotografia di Edward Klosinski (il marito di Krystyna Janda, l'attrice protagonista) è molto chiara, la luce è diffusa a volte al limite della sovraesposizione, così come la vita, nel film, è sovraesposta all'indecifrabilità del caso. Le conversazioni a due che scandiscono il film sono giocate su una ritmica di primi piani in controcampo. Spesso le immagini sono attraversate da lunghissimi silenzi, in cui gli scambi di sguardi suppliscono le parole: come nei momenti in cui la vita di Andrzej riprende quota, a cui assiste, nelle vesti di un infermiere, l'"uomo del destino" Barcis. La musica di Zbigniew Preisner, che in ogni episodio riprende il tema fondamentale del Decalogo elaborandolo in variazioni suonate da diversi strumenti, esprime appieno, con gli accordi del pianoforte che si perdono nel riverbero, il senso prodigioso della vita (tanto quella di Andrzej che del nascituro) che prosegue il suo corso. Nel finale, la debilitata figura di Andrzej che irrorata di luce bussa alla porta del primario per ringraziarlo sembra quasi un fantasma dell'immaginazione di Dorota, che in montaggio parallelo suona il violino con la Filarmonica, con il volto per la prima volta sorridente. Contro ogni buon senso, la realtà alla fine assume l'aspetto statisticamente più improbabile. A testimonianza del fatto che ogni vita, nella sua unicità, è un'infrazione alla presunta coerenza dell'universo.
Sergio Murri, Krzysztov Kieslowski, Il Castoro Cinema, 1996

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
Krzysztov Kieslowski
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