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Regina d’Africa (La) - African Queen (The)


Regia:Huston John

Cast e credits:
Soggetto:
da un romanzo di C. S. Forester; sceneggiatura: James Agee, John Huston; fotografia (Technicolor): Jack Cardiff; effetti speciali: Cliff Richardson; scenografia: Wilfred Shingleton; costumi: (di Katharine Hepburn) Doris Langley, (degli altri) Connie De Pinna; musica: Alan Gray; montaggio: Ralph Kemplen; interpreti: Humphrey Bogart (Charlie Allnutt), Katharine Hepburn (Rose Sawyer), Robert Morley (rev. Samuel Sawyer), Peter Bull (cap. del Louisa), Theodore Bike] (primo uff.), Walter Gotell (secondo uff.), Gerald Onn (sottuff.); produzione: Eagle; origine: USA, 1952; durata: 103'.

Trama:Congo, 1914. Nella foresta africana, allo scoppio della guerra, si incontrano un’ossuta zitella con vocazione di missionaria, Rose Sawyer, e un relitto umano, alcolizzato e cinico, Charlie Allnutt. Poche cose sembrano legare questi due individui, tipici prodotti del mondo coloniale: la verve polemica, la necessità di sopravvivere, l’odio contro i tedeschi. Sicché, nonostante le loro concezioni ideali siano ben diverse, i due decidono di dare un contributo alla guerra facendo esplodere una nave tedesca. A bordo di un vecchio battello fluviale, l’African Queen, si lanciano nell’impresa con incoscienza e ironia. Scoprono anche la profonda attrazione reciproca che in ogni modo cercano di nascondere a se stessi, mentre corrono mille pericoli nella foresta vergine. Alla fine però l’impresa è coronata dal successo. Allnutt trova in quest’affermazione del proprio valore una molla per riemergere dalla desolazione della sua vita, Rose il pretesto per abbandonarsi nelle braccia del suo compagno. Singolarmente per Huston, il film si conclude con un happy end senza ambiguità.

Critica (1):La regina d’Africa (1952) è il film dei paradossi e delle contraddizioni apparenti. Sono almeno tre. È un film d’avventure e, insieme, una critica del cinema d’avventure pur senza esserne mai la parodia. È una storia d’amore che ha per protagonisti un cinquantenne irsuto e alcolista e una zitella ossuta e bigotta che ha passato la quarantina. È un film di ambiente africano, girato tra l’Uganda e lo Zaire, con gravi e spesso drammatici disagi per la troupe, dove l’Africa, il folklore, il colore, il fascino dell’Africa sono quasi assenti. La fauna africana che nel cinema d’avventure esotiche made in Hollywood è una componente importante, diventa qui un pretesto per le imitazioni burlesche di Charlie Allnutt-Bogart che bambineggia per amore. Più che le belve, più che i goffi ippopotami e i sinistri coccodrilli, contano, narrativamente parlando, i nugoli di moscerini che fanno impazzire e le orrende sanguisughe che provocano in Charlie un tremito e un terrore che, forse, erano anche di Bogart: s’ha la netta impressione che quella scena non sia tutta finta, recitata. Dice Howard Hawks che la sola differenza tra una commedia e un film d’avventure è la diversità del punto di vista: nell’una e nell’altro il problema da risolvere è di uscire da una situazione pericolosa o imbarazzante. Perciò le contaminazioni tra i due generi possono riuscire così bene. Anche Hawks – al quale era stato proposto di dirigere La regina d’Africa – riteneva che l’unico modo di cavare un buon film dal romanzo di C.S. Forester fosse di farne emergere la latente carica umoristica. Non occorre molta immaginazione, almeno se si è visto The General per congetturare che sarebbe stato un soggetto ideale per Buster Keaton. Lo stesso Huston ha dichiarato che la sua originaria concezione del film e la sceneggiatura scritta con James Agee erano di intonazione più drammatica, più vicine al romanzo. Anche l’epilogo era tragico, in conformità con quello di Forester, almeno nell’edizione americana del romanzo: “Nella fredda oscurità Allnutt fu strappato da Rosa, un’onda lo colpì al viso, la donna scomparve sotto l’acqua. L’African Queen era affondata, e con essa finì il coraggioso tentativo di silurare la Koenigin Luisa per la gloria d’Inghilterra”. La conversione all’umorismo grottesco avvenne durante le riprese e fu suggerita a Huston soprattutto dal conflitto tra i due personaggi principali, dal confronto tra i due diversi istrionismi recitativi di Katharine Hepburn e Humphrey Bogart. Non occorre un’analisi approfondita del materiale narrativo per scorgere nello stravagante tentativo di due inglesi di mezza età di affondare, alla maniera dei kamikaze nipponici, una nave da guerra germanica che controlla un grande lago vicino al Kenia, disponendo soltanto di un piccolo e sgangherato rimorchiatore – l’African Queen, appunto – e di qualche chilo di dinamite, quella tematica dello sforzo, dell’avventura, della volontà che aveva caratterizzato i film precedenti: la ricerca dell’oro di Il tesoro della Sierra Madre, il tunnel dei rivoluzionari cubani di Stanotte sorgerà il sole. la rapina alla gioielleria di Giungla d’asfalto. La fretta, lo schematismo, la voluta e un po’ masochistica banalità con cui Huston racconta i tedeschi “cattivi” significano, a mio avviso, una cosa sola: che gli stava a cuore soprattutto la commedia a due, lo scambio tra i personaggi. Nella comune impresa Rose, la compassata e spigolosa missionaria, impara un nuovo modo di essere donna, e Charlie un modo nuovo di agire come uomo. Uno dei momenti più intensi del racconto, quello che riassume tutte le antinomie (avventura e ironia, tenerezza e crudeltà) è il movimento aereo della cinepresa, posta su un dolly, che, dopo avere inquadrato dall’alto la figura di Rose Sawyer, immersa nell’ultima preghiera (ma l’agnostico Huston la fa pregare nel nome di un amore ben terreno), scopre a poche decine di metri la presenza del grande lago. La regina d’Africa è un’altra conferma del modo con cui Huston adatta e piega il suo linguaggio alle esigenze della materia narrativa: la cinepresa sta continuamente addosso ai due personaggi e se ne allontana soltanto per riprendere dall’alto, in immagini icasticamente pregnanti, la piccola imbarcazione nel quadro immenso di una natura solenne e minacciosa. Huston, però, non si limita a registrare un duetto recitativo: lo guida, ne determina gli effetti con la scelta dell’angolazione o con il montaggio e li amplifica. Basta vedere il modo con cui la spigolosità anatomica della Hepburn – zigomi, ginocchia, gomiti – viene sottolineata nella prima parte del film per essere poi smussata, a poco a poco, fino a diventare radiosa di bellezza amorosa. Lasciamo la parola al regista: “Katie e Bogart erano proprio buffi insieme. Ognuno dei due riusciva a fare emergere le migliori qualità dell’altro, e il mescolarsi delle loro due diverse concezioni artistiche riusciva a portare alla luce inaspettatamente il lato ameno di situazioni drammatiche. Lo humour trova spazio soltanto tra le righe del racconto e rimane ad esso subordinato: quel che è fondamentale nel film sono il risveglio di una coscienza e la trasformazione di una zitella in un capitano di nave. In realtà fu soltanto la straordinaria combinazione Hepburn-Bogart a far emergere il lato comico della vicenda”.
Morando Morandini, John Huston, Il Castoro cinema, 1995

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
John Huston
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