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Memorie di un assassino - Sar-in-ui chu-eok


Regia:Ho Bong Joon

Cast e credits:
Sceneggiatura: Bong Joon Ho, Sung-Bo Shim; fotografia: Kim Hyung-koo; musiche: Tarô Iwashiro; montaggio: Sun-min Kim; scenografia: Ryu Sung-hee; interpreti: Song Kang-ho (Detective Park Doo-Man), Sang-Bum Kim (Detective Seo Tae-Yoon), Roe-Ha Kim (Detective Cho Yong-koo), Jae-Ho Song (Sergente Shin Dong-chul), Hee-Bong Byun (Sergente Koo Hee-bong), Seo-Hie Ko (Kwon Kwi-ok); produzione: CJ Entertainment, Muhan Investment, Sidus; distribuzione: ACADEMY TWO; origine: Corea del Sud, 2003; durata: 131’.

Trama:1986: una giovane donna viene rinvenuta stuprata e uccisa nei pressi di un villaggio di provincia. Un paio di mesi dopo si susseguono altri stupri e omicidi in circostanze simili. Il detective locale, Park Doo-man, viene coadiuvato da Seo Tae-yoon, giunto appositamente da Seoul, ma la ricerca dell'assassino si fa sempre più difficile.

Critica (1):Il vento dell’Est, che ha rivoluzionato l’assegnazione degli Oscar con quattro statuette vinte per la prima volta da un film coreano, ha aperto le porte anche a un’altra regia di Bong Joon-ho, recuperata dalla distribuzione AcademyTwo già responsabile dell’arrivo in Italia di Parasite. Si tratta di Memorie di un assassino (in originale Salinui chueok, del 2003), secondo la rivista inglese Sight&Sound «uno dei film chiave del primo decennio del XXI secolo», premiato per la sceneggiatura al Festival di Torino (…).
Adesso, sul grande schermo, si offre in tutta la sua bellezza, permettendo così allo spettatore non solo di apprezzare meglio il lavoro del regista Bong ma soprattutto di addentrarsi meglio nella conoscenza del cinema coreano, uno dei più prolifici al mondo. Ma anche dei più sorprendenti per i numerosi cambi di tono (presenti anche in Parasite) l’intreccio tra i generi e una recitazione lontanissima dai canoni occidentali.
Memorie di un assassino inizia come un giallo. In una cittadina di provincia, si cominciano a rinvenire cadaveri di giovinette stuprate: una prima volta in un canale d’irrigazione agricola, poi in campo aperto. Tutte sono state legate e imbavagliate con la propria biancheria intima, un sasso in bocca per impedire loro di parlare prima di essere violentate e uccise. E la sera del delitto il cielo era immancabilmente piovoso. Siamo nel 1983, la Corea è ancora un Paese profondamente classista, dove la polizia conserva un potere quasi intangibile e chi finisce nelle sue mani non se la vede mai bene.
Succede così anche ai sospetti che il detective Park (Song Kang-ho) e il suo assistente Cho (Kim Roe-ha) vanno a cercare tra i minorati e i pervertiti della zona. Convinto di saper riconoscere gli assassini dagli occhi (bisogna aggiungere che i fatti gli daranno naturalmente torto?), Park pensa che i colpevoli debbano necessariamente nascondersi tra i rifiuti della società: prima un poveraccio con evidenti ritardi mentali, poi un feticista che sfoga nell’onanismo le sue repressioni, entrambi da umiliare quando non apertamente da torturare (i metodi d’interrogatorio fanno rimpiangere quelli della Gestapo) e soprattutto da indirizzare verso confessioni che non hanno niente di spontaneo.
Perché questa discesa verso un realismo crudo e violento? Per spostare l’obiettivo dal film di genere al quadro sociale, dall’inchiesta poliziesca a un più ampio ritratto della società coreana. Per questo entrano in scena anche un detective decisamente meno sbrigativo e venuto da Seul (Kim Sang-kyung) insieme a una specie di «coro» fatto di giornalisti televisivi e della carta stampata con funzioni di «contropotere». E mentre i reporter hanno il compito, nell’economia del racconto, di ribadire un qualche tipo di sguardo «morale» (arrivano anche a far sostituire un capufficio della polizia, troppo compromesso con le torture dei detenuti), il detective indirizza l’inchiesta verso una possibile soluzione, con l’aiuto (metaforicamente significativo) di una semplice sergente della polizia (Ko Seo-hie), l’unica che sembra capace di cogliere i segnali che vengono dalla realtà.
Così, verso la metà del film, Bong (che ha scritto la sceneggiatura con Shim Sung-bo a partire dal romanzo Come and See Me di Kim Gwang-rim) sembra voler abbandonare la trama gialla per aprirsi verso una descrizione corale e contraddittoria della Corea (del Sud), povera e repressiva ma anche violentemente maschilista, che vive un complesso di inferiorità verso gli Stati Uniti (il mito della Cia, quello dell’analisi del Dna) e si trova a fare i conti con un Male incomprensibile e sfuggente, da cui rischiano di essere sempre sconfitti (guardate la scena del confronti a tre nella galleria ferroviaria). Ma dove le persone riescono, anche se a fatica, a emanciparsi grazie a un processo di lenta maturazione. Che un finale ambientato nel 2003 si permette di rimettere in discussione con un ultimo, doloroso sberleffo.
Paolo Mereghetti, corrieredellasera.it

Critica (2):

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Critica (4):
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