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Otello - Tragedy of Othello: The Moor of Venice (The)


Regia:Welles Orson

Cast e credits:
Soggetto: dalla tragedia omonima di William Shakespeare; sceneggiatura: Orson Welles; fotografia: Anchise Brizzi, George Fanto, Alberto Fusi, Aldo Graziati, Oberdan Troiani; musica: Alberto Barberis, Angelo Francesco Lavagnino; montaggio: John Shepridge, Renzo Lucidi, William Morton, Jean Sacha; scenografia: Luigi Scaccianoce, Alexandre Trauner; interpreti: Orson Welles (Otello), Suzanne Cloutier (Desdemona), Micheal Macliammoir (Jago), Robert Coote (Rodrigo), Michael Laurence (Cassio), Hilton Edwards (Brabanzio), Nicholas Bruce (Lodovico), Fay Compton (Emilia), Doris Dowling (Bianca); produzione: Mercury Productions (USA) - Scalera Film (Roma) - Les Films Marceau (Parigi); distribuzione: Cineteca di Bologna; origine: Francia, Italia, Marocco, 1952; durata: 98'.

Trama:Dal dramma di William a Shakespeare: il capitano moro Otello, al soldo di Venezia, sposa Desdemona, ma l'invidioso Jago convince a poco a poco l'onesto soldato di essere stato tradito e lo spinge all'uxoricidio. Capito di aver ucciso un innocente, Otello si suicida.

Critica (1):(…) “Vi prego, quando, nella vostra lettera, narrerete questi foschi eventi, di darmi per quello che sono, non attenuate la verità, e non aggravatela con malizia; parlate di uno che nel troppo amore non ha saputo esser savio, di uno che non era facile a ingelosirsi ma che, aizzato, perdeva ogni ritegno (...); di uno dai cui occhi abbagliati piovevano lagrime come dai pini le gocce d'incenso”. Nella vecchia traduzione di Paola Ojetti (non ho a disposizione i dialoghi del film) le parole che Otello pronuncia prima di darsi la morte con un pugnale si attagliano perfettamente, oltre che al personaggio, al suo interprete regista, e lo sguardo umile e accorato che Welles nell'occasione ci lancia dallo schermo ha il sapore di un presagio e il senso di un commiato, entrambi caratterizzanti da sempre l'intera sua opera cinematografica.
Non è la sola volta in cui Orson gioca a esporsi, in un misto di narcisismo e masochismo che a posteriori induce a riflettere. (…) La grandezza di Welles attore, prima ancora che regista, si misura in Othello sul metro della misura. Non è uno scioglilingua e nemmeno una tautologia. È la potenza della sua presenza fisica, ancora possente senza essere pletorica, commista a una sorta di umiltà di fondo: quella che deriva al personaggio dal fatto di essere moro" (come quella che deriva a Shylock dal fatto di essere ebreo in una Venezia più o meno analoga). Nei suoi rapporti con il potere, nei suoi rapporti con le forze in campo (o messe in campo contro di lui), nei suoi rapporti con l'amore, il personaggio è un "diverso" consapevole di esistere come tale, in un misto di umiliazioni patite e di arroganze esibite, di ire sopite e di obnubilamenti improvvisi, di calcoli astuti e di slanci generosi: il tutto sotto l'insegna di una precarietà esistenziale e di un dissolvimento in atto. Lo stile frammentato (un po’ per libera scelta, un po’ per esigenze pratiche e produttive) anziché disperdere l'impressione la accentua. Othello pare in scena dalla prima all'ultima inquadratura, anche quando materialmente è assente: di lui si parla in continuazione, per lui (o contro di lui) si agisce, a lui si adegua il sovrabbondante impianto scenico, ora barocco ora espressionista.
Ascoltare Welles in originale – come Othello finalmente consente e come, a livello di massa, la televisione ormai ampiamente permette: basti pensare a The Magnificent Ambersons – è la controprova del tono adottato. Magniloquente ma non enfatica, spesso sommessa e quasi flautata, frequentemente accompagnata da accentazioni di mestizia e di intima sofferenza, la voce che proma-na da quella poderosa cassa toracica gonfiando le gote e lasciandosi emettere attraverso quelle turgide labbra è una dimensione della chiave adottata per una messa in scena di grande suggestione non disgiunta da grande umanità. Grazie a questa voce, le passioni appartengono al panorama, le metafore si traducono in immagini, gli eccessi rientrano nel piano della normalità. Il Moro di Venezia assume così i contorni di qualcuno che si distingue dagli altri non per sovrabbondanza ma semmai per difetto: e il suo "difetto" è quella capacità di "comprensione", di assunzione su di sé dei mali esistenziali, che manca viceversa a chi lo circonda. Il vero guaio del mondo sta nell'invidia, non nella gelosia; sta nelle lente spire del complotto, non negli improvvisi scatti della violenza; sta nella meschinità ben paludata, non nella istintività ancorché sregolata.
Leggere Othello, l'interpretazione che ne dà Welles, come un contributo alla sua autobiografia è ancor più legittimo se si pensa al contesto delle riprese e al risultato finale. Nonostante le interruzioni, le dispersive locations, lo snervante protrarsi nel tempo della visualizzazione e quel tanto di improvvisato o di raccogliticcio che contraddistingue spesso l'opera del regista (ora come espressione di una mente inquieta, ora come divertissement da eterno fanciullone), la cifra stilistica di questo film shakesperiano (e l'aggettivo serve anche a indicare una sostanziale, talora persino pedissequa, fedeltà al testo originale) è di un'encomiabile unitarietà, e il parallelo con la vita si fa così ancora più intenso. Le 1500 inquadrature che affollano un'ora e mezzo di pellicola, con una media di durata di 4 secondi l'una, si configurano come flash, non assumono la dimensione di "materiale intellettuale", bensì si dispongono (elementi di un continuum, di una summa esistenziale. Inquadrature sghembe, composizioni elaborate, prospettive audaci, tormentati movimenti di macchina, giochi asimmetrici di campi e controcampi, toni luministici a effetto, calcolatissime insistenze di acque e di cieli impongono la loro presenza a livello di frammento (si tratti di un trailer o di una serie di foto di scena) letteralmente si annullano nell'insieme, che è un tuffo nella moderna psiche prima ancora che nelle antiche architetture.
La stessa "geografia ideale” che si presta a curiose citazioni e ad aneddoti (Iago che passa da una chiesa di Torcello a una cisterna portoghese ...), non assume rilievo di possibile identificazione, presente per esempio – un po' a livello di cartolina illustrata – in Giulietta e Romeo di Castellani, bensì viene a costituire un unicum giustamente indecifrabile. Quasi come il fazzoletto, la candida pezzuola, di Desdemona (d'ora in poi, per favore, pronunciare Desdemòna!) che altro non è se non la reincarnazione di un bocciolo di rosa, un tempo chiamato Rosebud.
Lorenzo Pellizzari, Cineforum n. 321, 1-2/1993

Critica (2):«Perché l'hai fatto?» Così si rivolge Otello a chi gli ha distrutto anima e corpo. La sua domanda avrà una risposta che niente rivela, e che soprattutto non ammette repliche. Con lui, l'"onesto" Jago è categorico: «Non chiedermi niente. Quel che sai sai...» Perché Jago ardisce la sua macchinazione? Come accade per le opere grandissime, a partire dal testo di William Shakespeare, e rimanendogli "fedeli", si possono elaborare le ipotesi più varie: perché gli è stato preferito Cassio nella carica di luogotenente, dunque per invidia; perché (forse) la moglie Emilia l'ha tradito con Otello, dunque per gelosia; perché è egli stesso innamorato del Moro, dunque per desiderio incattivito, esacerbato e capovolto in dispetto. Quest'ultima possibilità, adombrata da Orson Welles nel suo Othello (1950), sembra di nuovo suggerita da Parker, in una inquadratura in cui, mentre abbraccia Larry Fishburne, sul volto di Kenneth Branagh per un lungo attimo disorientato la passione si sostituisce alla perfidia. C'è anche chi sostiene che Jago non sia altro che un riflesso di Otello, e che dunque egli stesso odi il proprio luogotenente che gli sembra abbia e anzi sia tanto più di lui: bianco, veneziano, raffinato, nobile, seducente. A Cassio, del resto, il Moro s'è rivolto come al "mediatore" del suo desiderio nei giorni in cui corteggiava Desdemona. Dunque, quando Jago gli chiede se il luogotenente fosse stato al corrente fin dall'inizio del suo amore, per Otello non si tratterebbe d'altro che dell'emersione improvvisa ed esplosiva d'un latente conflitto di desiderio con l'antico mediatore trasformatosi in rivale (su questa e su molte altre ipotesi di lettura shakespeariana si può vedere René Girard, Les Feux de l'envie, Grasset & Fasquelle, Paris 1990). Se così fosse anche per Parker, quella sul volto di Branagh non sarebbe passione, ma invece identificazione, rispecchiamento, ricongiungimento fra Otello e il suo proprio fantasma. E però questa linea interpretativa non regge di fronte all'osservazione che, nonostante la bravura e la presenza erotica di Fishburne, certamente nell'Othello di Parker, al contrario che in quello di Welles, è Iago a giganteggiare e non il Moro. È l'odio del traditore che riempie il film, infatti: un odio che vive di se stesso, e che non è "giustificato" che con pochi cenni ora al tradimento di Emilia e ora al desiderio di prendere il posto di Cassio nella gerarchia militare. Invece di rincorrere giustificazioni, appunto, la regia di Parker sceglie di legare con insistenza lo sguardo di Iago ai nostri. Nelle ombre d'una Venezia trasformata in immagine dell'anima o nel chiuso della fortezza a Cipro, il traditore guarda ripetutamente l'obiettivo, e non solo per comunicarci i Suoi pensieri, ma piuttosto per catturare i nostri, o addirittura per indurci a riconoscere quelli in questi. Perturbante è, in tal senso, l'inquadratura in cui, convinto Roderigo che rientra in scena per pochi secondi, torna a guardarci, senza tuttavia dirci altro che il suo proprio sguardo, da complice a complici. Di nuovo, e questa volta con intensità terribile, ci guarderà morente, appoggiato al letto su cui staranno i cadaveri di Emilia, Desdemona, Otello. Ecco il punto: l'odio di Iago ci è familiare come se una parte potenziale, per quanto notturna e chiusa, dei nostri stessi cuori. Una parte, ancora, che non è causata o derivata da alcunché, una parte originaria, che sta nel "sottosuolo" pronta a riemergere alla superficie per oscurarne la luce. E così appunto accade nel sotterraneo della fortezza, quando l'odio di Iago riesce a uccidere l'amore di Otello, e con esso la sua anima e il suo corpo. Il grande condottiero amato e stimato, l'amante ricambiato, il marito tranquillo, l'uomo equilibrato: nulla più resiste ed esiste di questa vita tanto fortunata da apparirci modello ideale. Nel suo ordine ha fatto irruzione il disordine, che s'esprime nei contorcimenti dell'epilessia. Nel sottosuolo, l'odio _ un odio assoluto, connaturato all'essere _ ha aperto un varco di caos, servendosi della gelosia, dell'invidia e del dispetto, cioè non essendone causato ma causandoli, manipolandone i meccanismi mortali di desiderio. Derubato di se stesso, il Moro è ora immagine del traditore, larva proiettata da lui. E come immagine e larva, Parker ce lo mostra nel bianco d'un lungo barracano, che si toglierà solo per uccidere Desdemona, emergendone con il lutto di indumenti neri. In questa lettura della tragedia shakespeariana non è Jago fantasma di Otello, ma Otello di Jago, il quale alla fine può ben dire come un creatore alla sua creatura: «What you know you know...», «Quel che sai sai. Da adesso in avanti non dirò più una parola».
Roberto Escobar, Sole 24 Ore

Critica (3):

Critica (4):
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