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Mister Hula Hoop - Hudsucker Proxy (The)


Regia:Coen Ethan, Coen Joel

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura
: Ethan Coen, Joel Coen, Sam Raimi; fotografia: Roger Deakins; musica: Carter Burwell; montaggio: Thom Noble; scenografia: Dennis Gassner; costumi: Richard Hornung; suono: Allan Byer; Effetti Vis.: Michael McAlister (superv.); interpreti: Tim Robbins (Norville Barnes), Jennifer Jason Leigh (Amy Archer), Paul Newman (Sidney J. Mussberger), Charles Durning (Waring Hudsucker), John Mahoney (capo), Jim True (Buzz), William Cobbs (Moses), Bruce Campbell (Smitty), Joe Grifasi (Lou), John Seitz (Benny), Steve Buscemi (Beatnik Barman), Peter Gallagher (Vic Tenetta); produzione: Ethan Coen, per Polygram Filmed Entert./Silver Pieturesprod./Working Title Films; distribuzione: Warner Bros; origine: USA, 1994; durata: 112'.

Trama:A New York nel 1958 l’incauto giovane laureato Norville Barnes di Muncie viene assunto come fattorino nella grande ditta di giocattoli Hudsucker contemporaneamente al suicidio dei proprietario, Waring Hudsucker. Nominato presidente dal subdolo Sidney Mussburger, al quale doveva consegnare una “lettera blu”, Norville dovrebbe provocare con la sua dabbenaggine il crollo delle azioni che, ricomprate in blocco da un gruppo ristretto capeggiato dallo stesso Mussburger, darebbe a questi la proprietà della fiorente industria. Una giornalista intraprendente, Amy Archer, riesce a farsi assumere da Marville e ben presto si accorge che non è lo scemo che sembra, soprattutto quando fa brevettare e vendere un cerchio di plastica, l’hula hoop, che lo proietta nell’empireo finanziario e produttivo. Il successo eccita Barnes: Amy, che inizialmente ricambia l’affetto dei giovane, lo abbandona disgustata dal suo egoismo. Il giovane ascensorista Buzz sottopone a Norville una sua invenzione, la cannuccia pieghevole, ma lui lo licenzia: vendetta, Buzz, d’accordo col giornale di Amy, sostiene di esser stato lui l’inventore dell’hula hoop, e Mussburger preannuncia a Barnes il licenziamento per indennità. Incontrato Norville ubriaco e disperato dopo la rottura definitiva con Amy, Buzz lo picchia e lo insegue a capo di una folla furiosa. Rifugiandosi nell’ufficio presidenziale, Norville, indossati i vecchi panni dei fattorino, si lancia dal 440 piano, ma il custode dell’orologio, fermando i meccanismi, blocca il tempo e impedisce a Barnes di sfracellarsi al suolo. Il defunto Hudsucker appare e lo invita a non disperare e a consegnare la famosa “lettera blu” che è rimasta nel grembiule. In essa Hudsucker, prevedendo la manovra di Mussburger, nominava un eventuale nuovo presidente‑marionetta titolare dell’intero pacchetto azionario. Mentre Mussburger impazzisce, Norville viene confermato presidente.

Critica (1):Più di una volta il cinema dei fratelli Coen ha mostrato come tratto caratteristico l’attenzione precisa e puntuale nei confronti di quella che semplicisticamente potremmo chiamare la “forma”. Lo “stile” personale dei Coen è infatti spesso e in modo piuttosto ricorrente contraddistinto da una sintassi cinematografica complessa, raffinata, da una messa in scena accurata sia nella composizione dell’inquadratura che nella varietà dei raccordi, sia nella scelta dei colori che nell’articolazione delle linee prospettiche. Questa raffinatezza e questa ricercatezza formale si manifestano anche attraverso il gusto per la citazione più o meno diretta e che ci suggerisce quanto i due fratelli del freddo Minnesota conoscano il cinema americano classico, sappiano attingere a piene mani, ma soprattutto con occhi acuti e sensibili, ad un patrimonio di immagini straordinario ed inesauribile. Non di esercizi di stile però si tratta, poiché ai fratelli Coen non manca il senso dell’ironia e un tocco leggero e disincantato che li porta ad abbassare di grado situazioni e personaggi.
Forse il film che più di ogni altro si identifica con questa idea di stile è proprio Mister Hula Hoop perché in un certo senso il contenuto del film sta nella sua stessa forma, sta nel gioco dell’intreccio pienamente goduto attraverso la costruzione e la disarticolazione temporale, sta nell’interesse evidente per le direttive e le espansioni spaziali, sta persino, e perché no, nel continuo e costante riferimento a figure umane, sensazioni e soluzioni offerte dalla storia del cinema, tra cui spiccano, nel caso del nostro film, Frank Capra e Preston Sturges. Quindi possiamo dire che Mister Hula Hoop prenda forma anche attraverso la ri‑visione delle scanzonate screwball comedies americane. Lo spettatore può addirittura divertirsi soltanto per il fatto di andare a caccia delle citazioni e dei “calchi”, ovviamente aggiornati e corretti.
Ogni pensiero, ogni azione appartiene perciò alla pagina di un catalogo già sfogliato, già visto.
Mister Hula Hoop è disseminato da queste schegge, è percorso da virtuosismi visivi, da espedienti narrativi e compositivi che invitano lo spettatore, come un instancabile Pollicino, a raccogliere e a riconoscere gli indizi, le orme passate, in un’opera piena di suggestioni. Proprio questo ci interessa: compiere un “cammino” nella forma tra suggerimenti, attese e promesse, quasi tutte mantenute.
Mister Hula Hoop si apre, come tanti altri film metropolitani, sull’inquadratura totale in campo lungo dei grattacieli di New York battuta dalla neve. È una città di cartapesta colta nella sua fissa immobilità. La macchina da presa, sfidando la rigidità del tempo e della stagione, progressivamente si muove, si incunea tra i palazzi illuminati quasi come in una moderna foresta di tronchi secchi e scheletrici, fino a cogliere un grande orologio che sta per segnare il trascorrere del nuovo anno e su cui compare una scritta suggestiva: Il futuro è adesso. È un inizio affascinante e ricco perché ci fornisce alcune preziose coordinate sia dal punto di vista spaziale sia, soprattutto, dal punto di vista temporale. Ed eccoci giunti ad uno dei punti nodali. Uno degli aspetti più importanti, quasi la vera e propria sostanza dell’intero film, è il costante e continuo riferimento al tempo: quello del grande orologio, pubblico e visibile da tutti i passanti, ma anche quello privato e individuale; quello del lavoro e quello dello svago; quello della vita e quello della finzione narrativa.
A immergerci subito in questo variegato “discorso sul tempo” è innanzitutto una voce esterna, narrante. Una sorta di deus ex machina che ci guida e ci conduce per mano. È un narratore extradiegetico – ma più avanti scopriremo che non è vero – onnisciente.
Tesse le fila della narrazione aprendo l’ordine degli avvenimenti, per poi interromperli successivamente, disarticolando il continuum temporale, operando stacchi e incollaggi, fratture e riprese, e più tardi, ricomponendo la fluidità e lo scorrimento con la chiusura di un ciclo. Questa voce ci presenta la città di New York in un momento cronologicamente ben definito. Siamo nel 1958, anche se ancora per pochi minuti, sta per arrivare il nuovo anno, il “futuro”. Il momento è solenne, ma la voce sembra non farci caso. Essa assume un tono paternalistico solo perché proviene da chi ha un grande potere sugli uomini per il fatto di essere in grado di controllare il tempo. Come un potente e rispettato sacerdote, il controllore del tempo si impone sugli uomini, sulle loro debolezze e sulle loro meschinità perché conosce e fa funzionare il tempo, perché dà il tempo controllandone lo svolgimento e l’ordine, guidandone il flusso.
Questa voce infatti può permettersi di commiserare gli uomini che brulicano con le loro fragili e misere esistenze nella “grande mela”: uomini spinti a inseguire il tempo del successo e quindi del denaro, uomini inutilmente delusi nel tentativo di cogliere l’attimo che scorre, come quello che vede il trapasso da un anno all’altro con lo scoccare della mezzanotte. Per questi uomini, infine, la speranza e il tempo sono ormai la stessa cosa, cioè niente, perché non riescono ad avere un futuro dato che non sono neppure capaci di vivere il presente. L’individuo, in questo mondo triste, è unicamente spinto dal desiderio di denaro e di successo, dalla volontà cieca di salire e di svettare sugli altri. Ma soprattutto, ha subito una grande perdita: la capacità di dominare il tempo. Vittima del tempo, l’uomo metropolitano ha fatto sparire la categoria del futuro annullandola in un presente fluido e senza sostanza.
La voce narrante però si concentra, come l’obiettivo della macchina da presa, su un solo personaggio, quel giovane allampanato, l’ingenuo di Muncie, pronto a concludere la sua vita, e quindi il suo tempo, precipitandosi dall’alto di un grattacielo: Norville Barnes. Il narratore vuole chiarirci la storia passata di Norville, vuole spiegarci perché un uomo che sia riusci­to a salire così in alto, letteralmente e metaforicamente, abbia il morale così basso. Se per Norville, come per tutti gli uomini, «il futuro è la cosa meno certa che ci sia», il passato tuttavia non sembra essere migliore, schiacciato com’è da pericoli e trabocchetti. Per questo la voce suggerisce allo spettato­re di «vedere insieme» questo passato. La macchina da presa abbandona allora Norville trascinato dalla propria voglia di vuoto e di abisso, fa un piccolo movimento a destra verso le lancette del grande orologio e si tuffa all’indietro nel tempo.
Mariolina Diana, Joel e Ethan Coen, Garage, 1997

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
Joel Coen
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