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Fuoco fatuo - Feu follet (Le)


Regia:Malle Louis

Cast e credits:
Sceneggiatura: Louis Malle (dall'omonimo romanzo di Pierre Drieu La Rochelle); fotografia: Ghislain Cloquet; scenografia: Bemard Evein; musica: Erik Satie (al piano Claude Helffer); montaggio: Suzanne Baron; interpreti: Maurice Ronet (Alain Leroy), Jeanne Moreau (Jeanne), Bernard Noél (Dubourg), Alexandra Stewart (Solange), Lena Skerla (Lydia), Bernard Tiphaine (Milou), Tony Taffin (Brancion), JeanPaul Moulinot (il dottor La Barbinais), Jacques Sereys (Cyrille Lavaud); produzione: Nouvelles Editions du Film; durata: 110'.

Trama:Il film narra gli ultimi due giorni di vita di Alain, un uomo intossicato dall'alcool e stanco della propria inutile esistenza. Gli incontri che ha con alcuni amici gli danno l'esatta sensazione dell'assoluta estraneità esistente tra lui e il prossimo. Dopo essere fuggito esasperato dall'amico Doubourg, che gli consiglia di trovare una qualsiasi sistemazione, Alain incontra Jeanne: un incontro doloroso che gli conferma la sua impotenza di vivere e dal quale ha la percezione precisa della fine imminente. Neanche l'incontro con Solange, una donna bella e generosa, riesce a placare l'angoscia di Alain. Chiuso nella sua stanza, Alain tira fuori una pistola e compie infine il gesto risolutore.

Critica (1):Le feu follet (1963), doveva iniziare con una annotazione in limine «Ilsuicidio», questo si legge nello script originale, «è la risorsa degli uomini la cui molla vitale è corrosa dalla ruggine della quotidianità ». Soppressa tanto nelle copie normali quanto in quelle parigine, prive peraltro nell'avvio dei titoli di testa, la frase suona in qualche modo in forma aforistica, come un puntualizzare che guidi al cuore della questione; e avrebbe adeguatamente introdotto, se solo la si fosse filmata al testo più personale della filmografia malliana. La cui poetica è già tutta in quel richiamo che oppone la delicatezza di certe nature all'opacità ed all'estrema mediocrità del quotidiano. Acquisita criticamente la chiave di lettura, il problema della trascrizione del libro di Drieu, insieme a quello del rapporto tra questi e Malle, e gli stessi interrogativi concernenti la rilevanza clinica del caso descritto, passano decisamente in secondo piano. Il precedente letterario - il romanzo steso da Pierre Drieu La Rochelle negli anni '30-e l'aggiornamento operato da Malle, per la prima volta autore in toto di un suo film, determinano indubbiamente sfasamenti e ambiguità; non per questo le ragioni della scelta appaiono meno convinte e comprensibili. Prima di ripiegare sul Feu follet, Malle aveva tentato di calare la sua insofferenza in un paio di sceneggiature - Assez de champagne e Trente ans, ce soir - delle quali almeno la seconda porta un titolo decisamente significativo. Con Le feu follet gli è però agevole prendere le distanze dal contingente e dall'autobiografico; e insieme, fatto essenziale per un cineasta che aveva sempre voluto oggettivare in altro la propria sensibilità, parlare di ciò che conosceva senza cedere nel rischio di una riscrittura del privato. Nel caso del Feu follet l'assioma del lasciarsi scivolare in un soggetto si traduce infatti in progressiva immedesimazione. Ma perché proprio il suicidio? Debbono essere accantonate le spiegazioni particolari - l'emozione per la morte di un amico, il rimorso per non essere riuscito a impedire che si uccidesse - se non per il peso che questo può avere avuto sulla lettura del libro. Né il regista sembra preso dall'intricato nodo dei rapporti tra Jacques Rigaut e Drieu: tra quegli che, suicidandosi, era stato il modello del romanzo e l'uomo che aveva non poche responsabilità nella sua morte (al punto che la stesura del Feu follet è anche un modo per liberarsene, per scaricarsi di un peso). Quando Malle osserva che il libro cristallizza tutta una serie di cose per lui importanti, è chiaro che non allude soltanto alla sua componente ambigua. Volendo intessere l'elegia di quelli che stanno da una certa parte, diciamo di una razza ormai in procinto di sparire, Le feu follet è il calco che permette l'operazione nel modo più soddisfacente. Altro è invece parlare di film al terzo grado (Robert Benayoun in «Positif») visto che l'intervento di Malle si trova a integrare nel proprio tessuto anche certune peculiarità di Drieu, che a sua volta volta non aveva potuto totalmente affrancarsi dalla vicenda di Rigaut. E poiché il cinema è in alcuni casi anche un'arte collettiva, in questo complicato processo di embricazione deve riconoscersi il contributo di Maurice Ronet: il quale, già per quella sua figura svigorita ma soprattutto per avere vissuto una esperienza assai simile a quella del personaggio, dà della accoratezza malliana una versione persuasivamente personale, sebbene non priva di una certa deliquescenza. Per tornare comunque al suicidio, non bisogna dimenticare che esso è una costante della più irrequieta letteratura borghese del '900, quella che si colloca velleitariamente all'opposizione. Da Jacques Vaché a Rigaut, da Crevel allo stesso Drieu c'è nella cultura francese una sorta di filo oscuro che la percorre dal primo al secondo dopoguerra. Se Rigaut nel '20 aveva scritto in "Littérature"che il suicidio dov'essere vocazione, la "Révolution surréaliste" poneva cinque anni dopo il quesito se esso potesse apparire una soluzione, l'autentica soluzione; e così sino all'autoannientamento eroico del Mythe de Sisyphe. Evidentemente, tutto questo era noto a Malle. Il quale ad ogni modo si serve del suicidio per sottolineare la situazione estrema del personaggio. Il rapporto con Drieu - e con Rigaut - non esclude un distacco dai presupposti del libro. Drieu ha disprezzo per il suo protagonista e lo inquadra per via stesso in un contesto meschino e sordido; narrare sino in fondo una vicenda squallida è per lui una sorta di transfert, la rimozione del complesso di colpa. Malie al contrario partecipa elegiacamente dell'ultima giornata di Alain Leroy, del quale condivide gli abbandoni, le ripulse, le rivolte improvvise. La sua malattia, l'orrore della maturità e della vita, è la stessa che egli avverte in maniera forse edonistica, intellettualisca: è la linea d'ombra alla soglia dei trent'anni di Conrad, cui non a caso Malle si è richiamato. La consonanza sentimentale con il personaggio del film è d'altrondde trasferita nello stile e nel ritmo interno delle sequenze. Per esemplificare, si potrebbe portare il modello di una composizione musicale costruita inizialmente su accordi indecisi, e districantesi poi secondo strutture e un crescendo che amplifica lo sviluppo ad andante. La parabola in calare, con il graduale allentarsi della tensione e un allargamento dei sintagmi narrativi conchiude l'unità del testo. Altrimenti detto, è il problema della qualità tradizionale del discorso filmico di Malle, di quel suo relativo anacronismo che qui vuol soprattutto puntare a un doloroso estraniamento dalla dialettica contemporanea. [...]
Gualtiero De Santi, Louis Malle Il Castoro Cinema, 1977

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
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