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Repulsion - Repulsion


Regia:Polanski Roman

Cast e credits:
Sceneggiatura
: Roman Polanski, Gérard Brach; fotografia: Gilbert Taylor; montaggio: Alastair McIntyre; musica: Chico Hamilton; suono: Leslie Hammond; scenografia: Seamus Flannery; interpreti: Catherine Deneuve (Carol Ledoux), Yvonne Furneau (Hélène Ledoux), John Fraser (Colin), Patrick Wymark (il proprietario), Ian Hendry (Michael), Valerie Taylor (Madame Denise), Hele Fraser (Bridget), Monica Merlin (Signora Renlesham), Renée Houston (Signora Balch), James Villiers (John), Hugh Futcher (Reggie), Mike Pratt (il cantoniere); produzione: Gene Gutowski - Compton Films/Michael Klinger, Tony Tenser - Tekli; origine: Gran Bretagna, 1964; durata: 104’.

Trama:È il racconto della dicesa verso la follia della protagonista Carol che viene lasciata a casa da sola dalla sorella - con la quale vive un rapporto di semi-soggezione psicologica e di attaccamento morboso - quando questa decide di intraprenderà un viaggio in Italia con il compagno. Carol rimasta sola, accentua la sua mania sessuofobica rifiutando uno spasimante con cui esce da qualche tempo, e combinando diversi guai sul lavoro (in un centro estetico), dove la vista del sangue sgorgato da una ferita volutamente provocata ad una cliente, fa saltare in Carol gli schemi mentali che ancora la tenevano ancorata alla reltà.

Critica (1):Ad una prima analisi, Repulsion è un film di terrore puro. Non è un difetto di poco conto per un audience satura di Fantômas pastorizzati in autoclave, prigioniera di un confort morale rigorosamente asettico, del quale l’orribile istituto di bellezza dove lavora Carol è la replica approssimativa sottovetro. Come scriveva François Truffaut: « La paura è un’emozione nobile e può essere una cosa nobile fare paura. È nobile confessare che si ha paura e che ciò ha procurato piacere. Un giorno o l’altro, solo i bambini avranno ancora questa nobiltà». E aggiungeva – a proposito di Gli uccelli – che non era stato perdonato a Hitchcock di averci voluto spaventare e soprattutto di esserci riuscito. Per quanto paradossale possa sembrare, sono più o meno gli stessi rimproveri che sono stati rivolti a Polanski. Penso a quel cronista stupito e furiosamente deluso di non trovare affatto qui le ingenue attrattive di certi film di paura. A malapena l’esegeta, seguendo la moda, arriva a simulare qualche piacere alla proiezione di un mediocre Freddie Francis che già si trovava a confrontarsi con un’opera apparentemente dello stesso registro, ma infinitamente più elaborata e, a conti fatti, più intelligente della media delle produzioni correnti. Come prendere le distanze da tutto ciò? Come fuggire al film se i procedimenti rifiutano di farsi vedere ad un primo colpo d’occhio? Ne verranno una confusione ed uno smarrimento comprensibili ai quali si farà fronte accusando Repulsion di essere una farsa macabra o un esercizio grandguignolesco, ciò che precisamente il film di Polanski non è in nessun momento. Bisogna notare a questo proposito che la prima parte del film, prima dell’assassinio, è certamente la più angosciante e la più terrificante. Infatti non veniamo messi a confronto con alcuna situazione identificabile e quindi rassicurante. Polanski si accontenta di svelare con precauzione i segni ai quali, al momento opportuno, darà un senso. Come il personaggio di Carol, attorno al quale si muove con movimento pendolare, il film è ancora vuoto, caricato di un potenziale di terrore che non tarderà a manifestarsi, ma del quale è impossibile anticipare la forma fisica. Questo universo di limpidezza felpata e di erranze sonnambulesche si impone come il veicolo ideale della paura. Non è solamente la calma prima della tempesta – il che rivelerebbe alla fine dei procedimenti usitati – è, in sé, la descrizione di un autentico incubo condizionato dove le forme e gli oggetti più quotidiani diventano medium incomprensibili della paura. Un incubo immobile, dunque, che evoca senza fatica quegli insopportabili locali rigorosamente insonorizzati dove il più piccolo fruscìo prende una dimensione apocalittica. Contrariamente a quanto è stato scritto, Carol non è indifferente alle cose del sesso. Mettiamo i puntini sulle i: si tratta di una ninfomane, ma lei sola sa, in sogno, farsi l’amore. Le sue allucinazioni sono popolate di stupri che, per il loro carattere ossessivo, sono totalmente all’opposto della sessualità normale della sorella. Quando sente la coppia nella camera vicina, i gemiti e i lamenti, che indicano con stupefacente realismo le differenti fasi dell’orgasmo, sono per lei richiami indecifrabili provenienti da un mondo sconosciuto. Proprio per il piacere che è in grado di dare – di infliggere? – Carol detesta il maschio. Quando l’approccio diventa troppo carico di implicazioni sessuali (le avances del proprietario) lei non si accontenta solo di fracassarne il cranio; impugna un rasoio che sottintende la funzione di castrazione. Ancora una volta, anche in questo film di Polanski, c’è il ritratto di una donna. Ritratto senza compiacimento alcuno, dove nessuno viene risparmiato, a cominciare da quelle temibili tardone, fanatiche del lift e del peeling, che danno all’amore un sapore di fibre sintetiche. Solo Carol beneficia di tanto in tanto di una reale simpatia o di uno sprazzo di pietà dopo il terrore. Senza dubbio, nelle ultime inquadrature, si è riconciliata con se stessa. Senza dubbio è troppo tardi e Polanski alla fine acconsente – come se ciò non avesse più importanza – a svelare il viso di Carol bambina. Questo sguardo straordinario – il solo che non fissa l’obiettivo del fotografo – che si congiunge nel tempo con l’altro sguardo che apriva il film.
Michael Caen, Cahiers du Cinéma, n. 176, marzo 1966

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
Roman Polanski
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