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Stranger than Paradise - Stranger than Paradise


Regia:Jarmusch Jim

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura:
Jim Jarmusch; fotografia: Tom Dicillo; montaggio: Jim Jarmusch, Melody London; musica: John Lurie, eseguita da “The Paradise Quartet”, la canzone I Put a Spell on You è eseguita da Screamin’ Jay Hawkins; suono: Greg Curry, Drew Kunin; interpreti: John Lurie (Willie), Eszter Balint (Eva), Cecilia Stark (la zia Lottie), Danny Rosen (Billy), Rammellzee (l’uomo con i soldi), Tom Dicillo (il funzionario dell’aeroporto), Richard Boes (l’operaio), Rockets Redglare, Harvey Perr, Brian J. Burchill (i giocatori di poker), Sara Driver (la ragazza con il cappello), Paul Sloane (il padrone del motel); produzione: Sara Driver per la Grokenberger Film Produktion (München) e la Cinesthesia Productions Inc. (New York), con la ZDF – das Kleine Fernsehspiel – Cristoph Holch; distribuzione: Lab 80; origine: Usa, 1984: durata: 90’.

Trama:Il nuovo mondo. Willie, un giovane di origine ungherese, vive a New York da dieci anni. Una sua cugina di sedici anni, Eva, arriva dall’Ungheria per iniziare una nuova vita Molto a malincuore Willie la ospita per dieci giorni, prima della partenza di lei per Cleveland, dove abiterà con la zia Lottie. Durante la permanenza di Eva, i pregiudizi di Willie su di lei si modificano a poco a poco; ma è solo dopo la sua partenza che Willie si accorge di come Eva è veramente: una “pecora nera” della famiglia, proprio come lui. Un anno dopo. Willie e Eddie, il suo migliore amico, che ha conosciuto Eva, dopo una vincita poker, decidono di noleggiare una macchina e di andare a trovare Eva a Cleveland. Arrivati là osservano la sua nuova vita squallida: Eva vende hot-dogs e vive con zia Lottie, noiosa e ostinata, nel rigido inverno dell’Ohio. Dopo aver trascorso alcuni giorni in questa zona desolata, Willie e Eddie salutano Eva per tornare a New York. Il paradiso. Mentre stanno lasciando Cleveland, Willie e Eddie decidono di tornare indietro e di «rapire» Eva, per portarla a Miami per una vacanza in «paradiso». La sottraggono alla furiosa zia Lottie e partono per la Florida. Prima di raggiungere Miami, si fermano in un motel malconcio vicino al mare. Ma qui Willie e Eddie perdono quasi tutti i loro soldi alle corse dei cani e Willie comincia trattare male Eva. Tutto va talmente male che Eva comincia a progettare di tornare in Europa, con del denaro che ha trovato casualmente. Eva se ne va dopo aver lasciato una parte del denaro a Willie e Eddie. Al ritorno, i due, che hanno di nuovo vinto giocando, si precipitano all’aeroporto per far scendere Eva dall’aereo per Budapest. L’aereo è partito, ma non Eva, che è tornata invece al motel, dove però non ha più trovato i suoi amici…

Critica (1):Visi scarni, affilati, occhiaie e barbe lunghe come in una vecchia striscia di Feiffer. Profili allampanati contro un orizzonte grigio e sempre uguale. Stanze in affitto e letti sfatti, un tavolo imbrattato, vaschette con cibi precotti e, in giro, qualche bottiglia di birra, nella migliore tradizione del dirty americano. «Ossa rotte, bottiglie rotte, ideali infranti…» recitava Robert Mitchum al culmine del proprio dramma scespiriano in Il temerario (The Lusty Man, 1952) di Nick Ray. New York bianca & nera, nuda e un po’ desolata come la prima Monument Valley di Ford, qualche grattacielo come una montagna della preistoria a picco sui marciapiedi. Interni da immigrati con la poltrona «buona» a patchwork, fiori sgargianti sulle tende, la cugina Eva che vende hot-dogs in un fast-food semideserto, la zia Lottie che si ostina a parlare in ungherese. E poi le strade d’America, punti di fuga verso il «Paradise», svincoli e raccordi alla Paris Texas, che conducono nel deserto o nell’Oceano. La Florida sognata da Ratso e Joe in Un uomo da marciapiede (Midnight Cowboy, 1969) sulle note malinconiche di Nilsson, Everybody’s Talking. Camere ammobiliate di motel e infine un jet che s’infila nel cielo, col muso in alto, contro il sole. Qualcuno che ritorna correndo, qualcun altro partito per sbaglio o rimasto, per sempre, a terra. Questo è tutto ciò che si vede nel film di Jim Jarmusch Stranger than Paradise (letteralmente «più strano del paradiso»): One From the Heart di periferia, Johnny Guitar senza pistole e senza melodramma, asciutto, stralunato, dropout, come i suoi personaggi, piccola antologia cinematografica, e, nello stesso tempo, dissacrazione del cinema, da circa centocinquanta milioni. È quasi impossibile dire che cosa sia l’opera di questo musicista – autore underground che ha lavorato con Ray e Wenders e che annovera, tra i propri riferimenti, i nomi di Ozu, Ruiz, Vertov, Rivette, Eustache. Come tutti i cult-movies eletti a furor di popolo, possiede un’anima, ma è quasi privo di corpo: di «lui» si possono citare solo le immagini e quello che trasmettono allo spettatore, nient’altro di ciò che si vede e di ciò che si prova nel vederlo. (...). Fuori dal Mito e dalla Letteratura, fuori dalla Causa e perfino dal Cinema, il loro background è reso alla perfezione da un’immagine emblematica, che sintetizza il cuore del film: immobili e silenziosi, come in una foto ricordo, Eddie, Eva e Willie, osservano la principale attrazione turistica di Cleveland, un lago (Erie?) ghiacciato. Figure intirizzite che si stagliano contro il bianco uniforme del gelo, essi riflettono su di sé, per un attimo di tragicomica meditazione, la sterilità della natura e, per suo tramite, il proprio ineluttabile isolamento. Un «grande freddo» li sovrasta sempre e sottolinea ogni momento della loro disavventura verso il Paradiso, ultima tappa (séguito di Il mondo nuovo e Un anno dopo) del film: il «freddo» dell’incomunicabilità, dell’indifferenza, dell’umorismo acido e corrosivo che ne pervade le azioni. Il «freddo», appunto, della solitudine. Perché Stranger Than Paradise parla soprattutto di cose spoglie: alberi, luoghi, mobili, corpi, dialoghi, rapporti sentimentali, tutto in quest’opera è stringato, povero, scarno e laconico, un po’ sgualcito e dimesso come gli abiti dei protagonisti, logoro e floscio come i loro cappelli, ed insieme estremamente caustico, ingiurioso come uno sberleffo. «Una storia sull’esilio, dal proprio paese e da se stessi, e sui legami che si sono appena persi» la battezza Jarmusch: una metafora sull’esistenza, la sua, che registra con acume e senza falsi pudori, il disadattamento, l’estraneità, la «schizofrenia», di una generazione, non anagrafica, ma ideale. Da questo punto di vista Stranger Than Paradise potrebbe essere comparato ad Easy Rider, se non fosse per la sua totale «mancanza» ideologica, per il suo gusto del paradosso e dell’ironia. Non è, come i «road-movies» (se così lo si può, a prima vista, catalogare) che l’hanno preceduto, una ballata rock, ma un esile e irripetibile motivo jazz, un’improvvisazione be-bop, di coloro che (come li stigmatizza il grande Benny Goodman) «non sono nemmeno capaci di tenere una nota!»; non vi è, infatti, nel suo tessuto narrativo né rabbia, né protesta, ma soltanto «stile» ed «arte». Opera «dodecafonoca», diseguale, incostante, di proposito e non per caso, Stranger (che, si badi bene e non si sottovaluti la coincidenza, preso da sé significa anche «straniero») possiede molto di più la frigida bellezza dei classici, che le eccentriche alterità dell’underground: il West di Ford e le metropoli tentacolari di Ray; le nevrosi di Kazan e le facce di Keaton; gli «errori» di Wilder, i «misteri» di Hitchcock. Jarmusch reinventa l’essenzialità del silent-movie, il suo fascino artigianale, la sua diretta comunicativa: battute salaci e tronche, come didascalie, camera fissa e frontale a descrivere ciò che le avviene davanti, divisione della pellicola nell’unità di misura, allegorica, del mitico «rullo», recitazione e gestualità misurate, attentamente studiate. «Arte povera, assoluta, necessaria», lo ha giudicato il critico del giornale Libération, e – si potrebbe aggiungere –«comica»: una specie di Chaplin dell’assurdo, di quando Charlot emigrava dall’Inghilterra inospitale e senza chance, per venire a scroccare qualche pasto e un po’ di emozioni nell’America delle opportunità, imbrogliare il poliziotto, beffarsi dell’istituzione borghese ed illudersi, qualche volta a ragione, sulla potenza dell’amore. Solo che la distanza produce qui un curioso effetto di straniamento, come se ciò che viene rappresentato non corrispondesse alla realtà dei tempi: mancano (e non poteva che essere così) il calore e la commozione, le lacrime e il sentimento, la filosofia del tramp, la dolorosa consapevolezza della «maschera», il gusto patetico dell’istrione. Gli «alienati» di Stranger Than Paradise sono destinati al Limbo, non al Paradiso come quelli di Chaplin e i Tempi moderni di Jarmusch sono molto più «vuoti», inespressivi, spersonalizzanti, di quelli affrontati da Charlot. Nell’età di Reagan non esiste via di scampo se non il gelido sarcasmo su se stessi, senza altri sviluppi: un sorriso amaro, senza volto. The Big Chill, appunto: «Il cinema – sembra dire Jarmusch da dietro la cinepresa – è più freddo dell’amore».
Claver Salizzato, Cineforum n. 243, aprile 1985

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
Jim Jarmusch
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