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Affare di gusto (Un) - Une affaire de goût


Regia:Rapp Bernard

Cast e credits:
Soggetto: Philippe Balland, tratto dal suo romanzo Affaires de goût; sceneggiatura: Bernard Rapp, Gilles Taurand; fotografia: Gerard De Battista; musiche: Jean-Philippe Goude; montaggio: Juliette Welfling; scenografia: François Comtet; costumi: Martine Rapin; interpreti: Bernard Giraudeau (Frederic Delamont), Jean-Pierre Lorit (Nicolas Riviere), Florence Thomassin (Beatrice), Charles Berling (Rene’ Rousset), Jean-Pierre Leaud (Giudice Istruttore), Artus De Penguern (Flavert), Laurent Spielvogel (Dr. Rossignon), Delphine Zingg (Nathalie), David D’Ingeo (Marco), Frederic De Goldfiem (Felix); produzione: Cdp – Le Studio Canal+ – Entre Europeenne Cinematographique Rhone-Alpes – Centre National De Cinematographie – La Sofica Gimages 2 – Procirep – Studio Images 6 – France 3 Cinema – Rhone Alpes Cinema; distribuzione: Istituto Luce; origine: Francia, 2000; durata: 90’.

Trama:Delamont è un industriale di successo, colto, raffinato, originale, ma affetto da fobie. Conosce per caso in un ristorante Nicolas, un cameriere, e gli propone di diventare il suo assaggiatore dietro un lauto compenso. Nicolas accetta, ma la relazione professionale si trasformerà in un gioco sottile e pericoloso.

Critica (1):In galera chissà perché, interrogato chissà per cosa, il giovane Nicolas sfida lo spettatore a scoprire il suo segreto e a seguire la sua storia. Assunto dal miliardario Delamont come assaggiatore, il ragazzo scopre di essere destinato a una fine ben diversa, plagiato dal “tutore” fino ad assumerne le stesse caratteristiche, persino una fisionomia simile. Il gioco al massacro continua e la testa di Nicolas va in tilt. Come trucidare il gusto degli altri e piegare i “sottoposti” al sentire del padrone. La vicenda, ovviamente, si presta a mille interpretazioni, anche politiche, ma la più importante e interessante è quella erotica, che scombussola sequenza dopo sequenza certezze eterosessuali. La forza di volontà sui desideri vince ma trasforma in volgarità anche il piacere. Non è un caso che la raffinatezza delle portate e dei banchetti voluti da Delamont si trasformi in qualcosa di pornografico quando Nicolas viene indotto a odiare le stesse pietanze vomitevoli per il capo. Il duello tra volontà non è nuovo e rimanda, in maniera persino scontata, a Il servo di Joseph Losey, anche se ricondotto a una prospettiva di classe più marcata (nel classico film con Dirk Bogarde era il maggiordomo la figura dominante). Al di là di qualche trovata risaputa, è pur vero che l’ex critico e scrittore Bernard Rapp realizza un dramma nero imponendo nella ricetta una salutare suspense, con momenti di autentica trepidazione. Il 60% della riuscita del film, però, è nella recitazione di Bernard Giraudeau (Delamont), attore superlativo e ancora troppo poco celebrato al di qua delle Alpi.
Mauro Gervasini, Film TV, 13/6/2001

Critica (2):È certo Nicolas Rivière (Jean-Pierre Lorit) l’assassino di Bernard Giraudeau (Frédéric Delamont). Così almeno si direbbe. Oscuri sono invece i motivi del gesto omicida su cui indaga Un affare di gusto (Une affaire de gout, Francia, 1999, 90’). Perché mai il servo ha ucciso il suo signore? Che sia questo il loro rapporto - che si tratti di signoria e servitù dell’anima - è reso bene evidente dagli sceneggiatori, lo stesso Rapp e Gilles Taurand, che elaborano un racconto di Philippe Balland. L’uno, maturo e potente, ha comperato l’altro, giovane e senza alcun ruolo sociale. Nicolas è a disposizione di Bernard. Nulla vale, nella sua vita, se paragonato con la vita del suo signore: 24 ore su 24, precisa il contratto. In Nicolas non c’è niente di positivo. La sua vita è raccontata per quello che non è. Non ha una professione, non ha un futuro, non ha una casa (solo, ne condivide una). Anche l’amore per Béatrice (Florence Thomassin) non ha alcunché di fisso, benché sia profondo. La chiama la sua libertà, questa condizione fuori da ogni norma e normalità, e ne va orgoglioso. E con lui ne va orgogliosa Béatrice. Per loro, il mondo d’un qualunque Giraudeau è la confutazione filistea di ogni generosa apertura e autenticità. Bernard, al contrario, è (o pare) del tutto positivo. Fin dall’inizio, nel film è raccontato per quello che ha e per quello che è. Anzi, ha ed è a tal punto, che ormai non desidera avere ed essere di più, ma avere ed essere diversamente. Il gusto - il suo insistere su di esso - è lo strumento per convincersi d’una tale diversità.
Giudicare, dare o negare valore, filtrare, porre confini, escludere: questo gli dà (o sembra dargli) modo di costruirsi una superiorità senza confronti, una differenza per così dire assoluta. Ossia: una superiorità e una differenza che, per paradosso, escludono proprio di misurarsi con altri. L’unico confronto che valga, il solo che Bernard ritenga degno di sé, è quello con se stesso. Comperare Nicolas, trasformarlo in uno specchio vivente, vedere in lui la propria immagine e poi trarne conferma di sé: questo è il progetto del suo narcisismo. O ne è una gran parte: quella più "dichiarata" dalla sceneggiatura. Se così si intuiscono i motivi che inducono il signore all’accordo, restano peraltro da ricercare quelli che, invece, spingono il servo a cedere la propria anima. Come un piccolo, minimo Faust, Nicolas si vende al suo Mefistofele in vista d’un desiderio totale. Per il modello classico si trattava della giovinezza, per lui si tratta di colmare il vuoto e la mancanza, il non della sua vita. Accettare di diventare lo specchio di Bernard, significa per Nicolas non tanto avere ed essere come lui ha ed è: significa diventare lui, annullarsi nella sua positività, sentirsi confermato per il fatto d’esserne divorato e metabolizzato. Molto raffinato ed elegante, colmo di allusioni, Un affare di gusto resta volutamente ambiguo sul senso profondo d’un tale rapporto. C’è fascinazione intellettuale, tra i due, e insieme c’è il piacere di dominare e quello complementare d’essere dominato. Né mancano indizi d’un coinvolgimento erotico che rende anche corporea, anche materiale la signoria e la servitù delle anime. In ogni caso, qualunque ne sia il colore emotivo, il loro rapporto cresce dentro se stesso, assoluto e chiuso. Tra i due c’è un mimetismo sempre crescente, che sempre più esclude e nega tutto ciò che è altro. Il capolavoro che Bernard cerca, e che solo gli darebbe la conferma d’una superiorità senza confronto, è il trionfo illimitato del medesimo: la sovrapponibilità della sua immagine con quella di Nicolas, e la riduzione a esse del mondo intero.
D’altra parte, che cosa sarebbe un tale trionfo, se non il trionfo stesso del niente e della morte? E non è forse questo quel che cerca il suo narcisismo: il niente e la morte come estrema misura di sé, come criterio assoluto e invincibile di differenza? In tal modo, il suo essere e avere si specchierebbero nel non avere e non essere del servo, divorandolo e facendosene divorare.
Così accade, appunto: Nicolas uccide Bernard, senza sospettare che a ciò Bernard lo abbia preparato fin dall’inizio. Non altro ci consente di supporre il sorriso appena accennato di questo, quando quello sta per colpirlo. E ora che il film si chiude - allo stesso modo che, su Nicolas, si chiudono le porte del carcere - scopriamo l’inganno da cui questa storia di morte ha preso inizio. Non è affatto il signore la vittima. Non è il servo l’assassino. E i due non sono nemmeno opposti, come le loro servitù e signoria lascerebbero supporre. Sembrano piuttosto i due lati "fraterni" d’una radicale, nichilistica noia di vivere.
Roberto Escobar,
Il Sole-24 Ore

Critica (3):Mousse di coniglio alle olive nere
1 coniglio disossato, 200 gr. di olive nere snocciolate, 1 cipolla, 1/2 litro di brodo vegetale (ottenuto con sedano, carota e cipolla, o di dado), un filo d’olio, sale, pepe. Un paio di fette di pancarré a persona. Lessare la polpa di coniglio nel brodo, frullarla con le olive e con un trito di cipolla imbiondito nell’olio (leggermente salato), emulsionando il tutto in un mixer. Utilizzare il brodo per ottenere la giusta consistenza spumosa della mousse. Servire tiepida con crostini appena dorati di pancarrè tagliati a piccoli quadrati.

Pot-au-feu di piccione
4 piccioni disossati, 2 cipolle, 2 chiodi di garofano, 3 carote, 2 rape, i porro, 2 spicchi d’aglio, sale e pepe, 400 gr. di patate.
Il pot-au-feu è un piatto tipicamente francese: comprende brodo, carne e verdure. Non è quello che si dice un lesso, ma qualcosa di più anche perché è fatto di solito con carni rigorosamente magre come il piccione che si cita nel film di Rapp. Per prepararlo immergere la carne nell’acqua salata in ebollizione schiumando il brodo a aggiungendo rapidamente le verdure: carote, porro, cipolla, rape e l'aglio (magari spremuto nel brodo), infilando nelle cipolle i chiodi di garofano. Il pot-au-feu deve bollire lentamente almeno per 3 ore. Quello di piccione, anche solo 1 ora. Le patate invece vanno lessate a parte e servite insieme al piatto unico che secondo l’uso francese comprende il brodo nella zuppiera e le carni insieme alle verdure in un piatto a parte; esattamente come il lesso. Attenzione: nel film c’è un ingrediente segreto, l’infuso di verbena che lo chef usa aggiungere al brodo di verdure per rendere la carne del piccione più aromatica.

Critica (4):
Bernard Rapp
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