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Essential Killing


Regia:Skolimowski Jerzy

Cast e credits:
Sceneggiatura: Eva Piaskowska, Jerzy Skolimowski; fotografia: Adam Sikora; musiche: Pawel Mykietyn; montaggio: Réka Lemhényi; scenografia: Joanna Kaczynska; costumi: Anne Hamre; effetti: Albert Szostkiewicz; interpreti: Vincent Gallo (Mohammed) Emmanuelle Seigner (Margaret) Stig Frode Henriksen, Nicolai Cleve Broch, David Price, Varg Strande, Lars Markus, Verpeide Bakke, Lars Berg Jensen, Eirik Daleng, Even Løken Bergan, Phillip Goss, Thomas Berg, Morten Enger, Torgrim Ødegård, Zach Cohen, Iftach Ophir, Anders Kile Grønningsæter, Christian Teisnes, Niklas Nygaard, Tracy Spencer Shipp, Håkon Speirs Færvik; produzione: Jerzy Skolimowski, Eva Piaskowska, Ingrid Lill Høgtun per Skopia Film-Recorded Picture Company (Rpc)-Element Pictures; origine: Polonia-Norvegia-Irlanda-Ungheria, 2010; durata: 100’.

Trama:Afghanistan. Mohammed è ricercato dai soldati americani. Dopo averne uccisi tre, l'uomo viene ferito, catturato e portato in un centro di reclusione in Polonia: durante un trasferimento notturno, l'auto che lo trasporta ha un incidente, e Mohammed riesce a fuggire. La lotta per la sopravvivenza continua, anzi, inizia...

Critica (1):È in quell'essential del titolo che si racchiude il senso del film di Jerzy Skolimowski. Il cineasta polacco rie­sce dove ormai pochi registi incidono realmente: rac­chiudere in novanta minuti un universo-mondo pieno di complessità, di sfumature, di ideologie estreme, di comportamenti spesso inesplicabili, ma ineluttabili, di scelte senza ritorno. Come: senza dialoghi, attraverso la forza devastante delle immagini che non danno tregua nemmeno un secondo, affidandosi all'interpretazione di un attore formidabile, che lontano dagli sterili sperimentalismi d'autore di Promises Written on the Water e del cortometraggio The Agent mostra una fisicità inaspettata e che regge l'inquadratura ossessiva della macchina da presa in infinite location senza dare mai l'impressione di forzare, di lasciarsi andare alla maniera, di gigioneggiare; ovvero l'esatto opposto del cinema che dirige.
Il Vincent Gallo talebano in fuga (da chi poi? Dalle truppe della coalizione politica militare di stanza in Afghanistan per stanare i safe haeven di Al Qaeda?) non pronuncia una parola in un film quasi interamente muto e che non casualmente si chiude con un personaggio realmente sordomuto che gli permette l'ultima disperata fuga. Non una battuta, una spiegazione. Eppure, le dirompenti immagini ci dicono tutto. Tutto quello che occorre per capire. Per comprendere il motivo per cui in questa incredibile terra nessuno è uscito vincitore nei secoli. Dal fulmineo incipit, con quel canyon che ricorda i landscapes dei western, con l'elicottero che inizia il folle inseguimento, fino al rapido trasferimento ai paesaggi innevati delle montagne avvertiamo un senso di stordimento, di mancanza di coordinate. Lo stesso che informa le truppe che sono in Afghanistan a combattere e a cercare un nemico che c'è ma che si mimetizza, che si fa tutt'uno con l'ambiente che lo circonda. Un paesaggio in continua trasformazione, come esemplificato dalle rocambolesche vicende del talebano in fuga. Un paesaggio aspro, duro, impenetrabile, insidioso. Solo un fedele combattente di Allah lo attraverserebbe come lo attraversa Mohammed, colpito, ferito, senza cibo, senza una meta. Solo per non farsi catturare, ed essere fedele al giuramento fatto sul Corano e su chi lo ha indottrinato nel corso degli anni. Ha più significato questa disperata fuga che i compassati ritratti sociologici della famiglia Makhmalbaf che, in un'ottica interna, completamente edulcorata, a uso e consumo dello spettatore occidentale, didatticamente e didascalicamente ci spiegano le radici dell'odio e di una religione spesso intollerante e cieca. Un altro segnale disturbante, inquietante è il miscuglio di lingue che si odono da lontano o che si perce­piscono appena nei pochi dialoghi del film. L'Afghanistan, così come ce lo racconta Skolimowski, non solo è una terra impenetrabile, quasi o ancora di più di quanto lo fosse il Vietnam per gli americani a cavallo tra gli anni Sesssanta e Settanta, ma senza una guida politica, spirituale. Un paese poliglotta e bastar­do, con un'anima europea e una asiatica. Certo, poi, c'è l'uomo a contatto con la natura. La necessità di sopravvivere e fuggire, a ogni costo. Era forse dai tempi di The Haunted - La preda che un regista non riusciva a creare una dialettica così ricca e complessa tra l'individuo e l'ambiente circostante. Mohammed sopravvive non perché è un Rambo che sgomina i suoi avversari, come un eroe senza macchia e senza paura (in questo senso non vanno interpretate come iperboliche ed eccessive alcune scene come quella in cui Mohammed succhia il latte dal seno di una donna gravida incontrata su un sentiero), ma perché conosce il territorio, lo annusa, lo interpreta, come fosse un amico che gli tende delle trappole, ma che alla fine non lo respingerà mai. Un po' quello che accadeva al personaggio interpretato da Tommy Lee Jones, che, non a caso, era reduce dalla guerra in Vietnam. L'ultima cavalcata nella neve è il coerente approdo di una mis­sione di cui non si può conoscere il limite, e un simbolico ricongiungimento con quella terra che lo ha protetto durante la fuga.
Antonio Termenini, Cineforum n. 498, 10/2010

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