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Ombre (1959) - Shadows


Regia:Cassavetes John

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura
: John Cassavetes; fotografia: Erich Kollmar; musiche: Charles Mingus, assoli al sax di Shafi Hadi; montaggio: Len Appelson, Maurice McEndree; scenografia: Randy Liles, Bob Reeh; interpreti: Ben Carruthers (Ben), Lelia Goldoni (Lelia), Hugh Hurd (Hugh), Anthony Rey (Tony), Dennis Sallas (Dennis), Tom Allen (Tom), David Pokitillow (David), Rupert Crosse (Rupert), Davy Jones (Davey), Pir Marini (Pir), Victoria Vargas (Victoria), Jack Ackerman (Jack, direttore della scuola di ballo), Jacqueline Walcott (Jacqueline), Cliff Carnell (Cliff), Ron Maccone (Ron), Tom Reese (Tom), Jay Crecco, Gigi Brooks, Marilyn Clark, Nancy Deale, Lynn Hamilton, Jed Mcgarvey, Joyce Miles, Bob Reeh, Joanne Sages, Greta Thyssen; produzione: Maurice McEndree per Lion International; distribuzione: Cineteca Nazionale - Ficc; origine: Usa, 1959; durata: 81'.

Trama:Hugh, Leila e Ben sono tre fratelli afroamericani di pelle chiara che vivono a Manhattan. Hugh, il più grande, è un cantante di nightclub in declino che vede uno spiraglio di felicità quando gli viene proposta una nuova scrittura. Leila frequenta i circoli degli esistenzialisti ma dopo un sfortunata avventura accetta la corte di un ragazzo della sua razza. Ben, il più giovane dei tre, tenta di superare il disagio di essere di colore frequentando un gruppo di ragazzi bianchi che passano le giornate tra flirt, risse e gioco d'azzardo finché decide di condurre una vita più tranquilla.

Critica (1):Nell'ambito del rinnovamento del cinema internazionale, Shadows si colloca sul versante della contestazione assoluta. Mentre un Antonioni introduce un progetto linguistico-sperimentale nelle strutture stesse dell'industria e un Godard agisce per trasformare dall'interno quelle strutture, John Cassavetes (New York, 9 dicembre 1929), interprete sobrio ed efficace di film hollywoodiani, si inserisce - con questa sua prima regia - nella corrente che rifiuta ogni contatto con i meccanismi industriali.
Il cinema si fa realtà, la realtà si converte in cinema, attraverso la sola mediazione del volto dell'uomo. L'insofferenza per gli artifici spettacolari andava manifestandosi da qualche anno, in tutto il mondo. Già nel 1953, The Little Fugitive di Morris Engel e Ruth Orkin aveva mostrato quanta "verità" si potesse catturare girando, per così dire, alla ventura: era un vecchio sogno (il sogno di Dziga Vertov, di Ivens, di Grierson) che tornava attuale, in condizioni più favorevoli, perché ora si potevadisporre di macchine da presa e magnetofoni portatili (e tecnicamente affidabili), di ottiche assai flessibili, di pellicole (e di procedimenti di sviluppo) in grado di consentire le riprese con la luce fornita dalle normali fonti di illuminazione.
Negli Stati Uniti Sidney Meyers (un pioniere: aveva cominciato nel 1948 con The Quiet One) e Lionel Regosin (On the Bowery, 1957; Come Back Africa, 1959), in Francia Jean Rouch (Moi, un noir, 1959; La pyramide humaine, 1960), in Gran Bretagna Karel Reisz (We Are the Lambeth Boys, 1959) erano alla testa del movimento. E nel 1960, mentre Cassavetes dava gli ultimi tocchi alla seconda versione di Shadows (trasferita in 35 mm. da una prima edizione in 16 mm.), a New York nasceva il "New American Cinema Group" per iniziativa di alcuni cineasti di varia estrazione intellettuale (Jonas Mekas, Shirley Clarke, Bert Stern, Robert Frank, Gregory Markopoulos, i citati Meyers e Rogosin, ecc.). Alle spalle dei riformatori stavano i fermenti libertari del radicalismo americano (da Jack Kerouac ad Allen Ginsberg) e la marea montante del dissenso negro, della presa di coscienza studentesca.
Shadows narra la storia di una famiglia negra, retta patriarcalmente dal fratello maggiore (Hugh) e composta da Ben, Lelia e Rupert (i primi due negri di pelle bianca). Il vagabondaggio e la dissipazione li accomunano: Hugh, cantante da strapazzo, insegue scritture umilianti, accompagnato da un Rupert sempre piú restío ad assisterlo; Ben si trascina da un bar all'altro, a caccia di ragazze e di soldi; Lelia cerca la libertà e l'affermazione personale (crede di trovarla, per un attimo, concedendo la sua verginità a un bianco che, non appena scopre di aver fatto l'amore con una negra, prova ignobile imbarazzo). E tutti si agitano per le strade di New York, il giorno e la notte, passando da una festa all'altra, da una bravata (la visita irridente a un museo all'aperto, una scazzottatura generale provocata da Ben in una riunione di amici) a una fuga, a una resa (è il finale: Ben e gli amici sono bastonati dai clienti di un bar e sbattuti fuori a calci. "Non si potrebbe fare qualcosa di meglio", si domanda Ben, e se ne va solo, in mezzo al traffico notturno, mentre le note strazianti del sax - costante parafrasi musicale dell'inquietudine che serpeggia nel film - lasciano in sospeso la storia sul fondu conclusivo).
Giocato sulla "presa diretta" e su una improvvisazione controllata (il soggetto lo si scriveva in gruppo giorno per giorno), Shadows dà sincera testimonianza di una condizione umana, del pregiudizio (la questione razziale, l'ideologia "familiarista" e maschilista), della emarginazione, della stasi sociale. Fissa in modo 'irripetibile (il "cinema diretto" rinuncerà presto ai suoi principi) una situazione irripetibile.
Fernaldo Di Giammatteo, 100 film da salvare, Mondadori, 1978

Critica (2):(...) Ombre, di gestazione pluriennale, è strettamente intrigato con il réseau europeo. Rivisto oggi, appare almeno quanto i primi film di Chabrol, Varda, Rozier, con quei loro giovani alla deriva, in bilico fra tentazione intellettuale e abbandono sentimentale, testimoni di uno smarrimento esistenziale prima che politico, di un'incrinatura generazionale che è stata la piaga visibile di quegli anni e che Godard ha provveduto da par suo a sterilizzare con i veleni del suo cinismo beffardo. Se si aggiungono le preoccupazioni sociologiche tipiche della scuola inglese, si ha il referto completo della genesi "europea" di Ombre che, almeno nella seconda versione, attenua le sue parentele con le opere della Scuola di New York. II film appare in qualche modo più vicino a Les cousins, tutto ruotante attorno all'unità di luogo dell'appartamento di Charles e Paul (così come Ombre ruota almeno per metà attorno all'asse narrativo dell'appartamento di Hugh- Ben-Lelia), che ai film di L. Rogosin o S. Clarke, proprio perché finisce per dissolvere l'istanza della problematica razziale nella rappresentazione corale di un microcosmo giovanile in cui tutti, bianchi e neri, intellettuali e proletari, subiscono lo stesso disagio esistenziale, l'angoscia onni avvolgente di tirar mattina e di sentirsi "senza causa" in una metropoli magmatica. Persino l'accorgimento del commento musicale di jazz è coevo, se non posteriore, a quello attuato da Louis Malle per un altro specimen della nouvelle vague, Ascenseur pour l' èchaufaud (Ascensore per il patibolo, 1957), con lo stupendo score di Miles Davis, tanto esaustivo e capillarmente fuso con le immagini da essere ben più di una musica di accompagnamento. Così in Ombre la partitura altrettanto struggente di Charlie Mingus, eseguita al sax da Shafi Hadi, con un lungo intervento finale al basso dello stesso Mingus, assolve a una funzione tutt'altro che esornativa e fa corpo con le immagini, le precisa con la sua pregnanza visto che spesso sono così offuscate, le connota con l'unico procedimento legittimo, quello della corrispondenza esatta tra improvvisazione filmica (sia pur parziale e comunque dichiarata come tale nella didascalia finale del film) e improvvisazione jazzistica (altre epifanie jazzistiche del genere saranno quelle di Giorgio Gaslini per La notte di Antonioni e di Mal Waldrom per The Cool World di S. Clarke). Self-Portrait in Three Colors è il titolo che Mingus - negro di pelle chiara che nella delirante autobiografia "Beneath the Underdog" ("Peggio di un bastardo") si è raccontato schizzofrenicamente come "un uomo in tre" - ha dato alla breve suite ricavata dal commento al fin (invero sconfessato a posteriori ). E sono tre le sfumature della pelle dei fratelli di Ombre, digradanti da quella nerissima di Hugh (Hugh Hurd) a quella piuttosto chiara di Ben (Ben Carruthers) a quella quasi bianca di Lelia (Lelia Goldoni): le tre maschere di un paradosso scenico che li vuole - come in una rediviva Commedia dell'Arte - coinvolti in un indifferenziato scambio delle parti con gli amici, bianchi e meri, fino all'agnizione finale. Il film risulta marcato proprio da questo continuo sfaccettarsi delle apparenze (le ombre), dal poliedrico strutturarsi di un collettivo assai eterogeneo, il cui composito crogiuolo vuol essere l'emblema stesso della precarietà. In esso confluiscono, mescolandosi tra loro, le esperienze e le culture di un coro di personaggi accomunati dal caso e dalle contingenze di una gioventù senza costrutto ("assurda", fu definita), spesa preferibilmente lungo un brandello di Manhattan, dal capolinea del Port Authority Bus a Central Park. Convegni nei bar, vagabondaggi, festicciole, chiacchiere: questi i riscontri evenemenziali di giornate balorde che aggregano in una disinvolta promiscuità, al di là del referente razziale, le sparse propaggini di una generazione disorientata. II plot del dramma familiare di Hugh-Ben-Lelia in fondo una meditatíon on integration, per usare un famoso titolo di Mingus - risulta comunque subordinato all'idea più generale di esporre cronachisticamente uno spaccato dell'alienazione giovanile, attraverso lo scrutinio dei comportamenti individuali-collettivi e la polifonia di voci-volti in evoluzione: una geografia dello spaesamento, un'anatomia della parcellizzazíone sociale. La stessa famiglia composta da Hugh-Ben-Lelia non è un nucleo compatto: i tre fratelli non hanno solo pelle differente, ma esperienze differenti e l'occhio di Cassavetes segue il loro dipanarsi lungo i labimti della città fino ad individuare un possibile punto di convergenza nell'appartamento in cui vivono da diversi, se non da estranei. Ma anch'esso si apre alle intrusioni esterne, al pullulare delle voci altrui al debordare dell'inferno circostante, si satura del frastuono in agguato, e diventa talvolta palcoscenico grottesco, circo stravagante. Già da Ombre è a questa decantazione finale che tendono i sedimenti drammatici cassavetesiani, anche se non è ancora elaborata appieno l'estetica della "carnevalizzazione", databile a partire da Faces.
Sergio Arecco,, Cassavates, Il Castoro Cinema, ottobre 1980

Critica (3):Self portrait in three colors è il titolo che Mingus - "negro" di pelle chiara che nella delirante autobiografia Beneath the underdog si è raccontato schizofrenicamente come "un uomo in tre" - ha dato alla suite ricavata dal commento al film, invero sconfessato a posteriori. E sono tre le sfumature della pelle dei fratelli di Ombre, digradanti da quella nerissima di Hugh a quella piuttosto chiara di Ben a quella quasi bianca di Lelia: le tre maschere di un paradosso scenico che li vuole - come in una rediviva Commedia dell'Arte - coinvolti in un indifferenziato scambio delle parti con gli amici, bianchi e neri, fino all'agnizione finale.
Sergio Arecco, John Cassavetes, Il Castoro Cinema

Critica (4):
John Cassavetes
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