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Diavoli (I) - Devils (The )


Regia:Russell Ken

Cast e credits:
Soggetto: John Whiting, dal testo di Aldous Huxley; sceneggiatura: Ken Russell; fotografia: David Watkin; musiche: Peter Maxwell Davies - musica dell'epoca arrangiata e diretta da David Munrow; montaggio: Michael Bradsell; interpreti: Dudley Sutton(Barone Laubrdemont), Kenneth Colley (Legrand), Andrew Faulds (Rangier), Michael Gothard (Barré), Max Adrian (Ibert), Christopher Logue (Richelieu), John Woodvine (Trincant), Brian Murphy (Adam), Vanessa Redgrave (Suor Giovanna), Oliver Reed (Padre Urban Grandier), Iza Teller (Suor Iza), Catherine Willmer (Suor Caterina), Gemma Jones (Madeleine De Brou), Murray Melvin (Mignon), Georgina Hale (Philippe), Judith Paris (Suor Judith), Graham Armitage (Luigi XIII); produzione: Robert H. Solo, Ken Russell per Warner Brothers; distribuzione: Cineteca Griffith; origine: Gran Bretagna, 1971; durata: 113’. Vietato 18

Trama:Nel 1631, sotto il regno di Luigi XIII, il cardinale Richelieu, deciso a fiaccare definitivamente le velleità autonomistiche delle città di provincia, ordina la demolizione delle mura di alcuni centri. A Laudun il barone De Laubardemont, mentre presiede all'esecuzione dello ordine, trova un oppositore in Urbain Grandier, parroco di San Pietro, un sacerdote che pur manifestando una sincera religiosità conduce una licenziosa vita privata. Costui, abbandonata, incinta, Philippe Trincant, figlia di un magistrato, suscita in seguito enorme scandalo celebrando il proprio matrimonio con la giovane Madeleine De Brou. La fama di Grandier richiama l'interesse di suor Jeanne Des Anges, deforme e frustrata superiora delle Orsoline, la quale, allo scopo di stabilire con lui un concreto rapporto, gli offre il posto di direttore spirituale del proprio convento di clausura. Ottenuto un cortese rifiuto, la madre superiora passa ad uno stato di isterico furore che in breve trasmette anche alle consorelle. Il canonico Mignon, zio di Philippe, avuto sentore delle strane perversioni delle Orsoline, d'accordo con alcuni influenti personaggi ostili al parroco di San Pietro, attribuisce il fenomeno ad ossessione diabolica e ne incolpa Grandier, affidando le invasate suore agli esorcismi del fanatico Padre Barrè. Le orgiastiche e pubbliche pratiche esorcistiche, manipolate con cura e malignità, consentono a De Laubardemont di incarcerare e processare come stregone l'odiato parroco. Nel corso del processo, annientata prontamente ogni velleità di resipiscenza, suor Jeanne e le consorelle danno dimostrazione di sfrenata satanicità accusando Grandier, che viene sadicamente torturato e condannato al rogo. Pentito per la sua vita scandalosa, il parroco di San Pietro accetta i tormenti come espiazione dei suoi peccati e muore il 18 agosto 1634, rifiutando però stoicamente sino all'ultimo di confessarsi reo di colpe non commesse.

Critica (1):Il film presentato a Venezia fu poi sequestrato e dissequestrato. In tutto il mondo le polemiche furono aspre e la fortuna non sempre immediata (in Svezia, ad esempio, fu ritirato dalla circolazione « per il sacrilegio dei valori religiosi e spirituali »). Il chiasso servì però molto bene a fare de I diavoli un buon investimento commerciale della Warner Bros produttrice e della Dear International distributrice, e finì per abbinare nella mente di molti, non abbastanza provveduti, l'attività di Ken Russell solo a questo film, che se non raggiunge certo la bellezza di Donne in amore o di alcune sequenze di L'altra faccia dell'amore, non ha nemmeno la caparbia ostinazione nel cattivo gusto di La perdizione. È un buon film, un alto prodotto commerciale con l'indimenticabile sequenza alternata della visione di Suor Giovanna. In Italia il Centro Cattolico per lo Spettacolo attaccò subito il film e l'organizzatore della mostra veneziana, G. L. Rondi. Gli fece eco « L'Osservatore Romano » accusando l'opera di essere un « lungo e convulso spettacolo di sadismo, di sesso, di violenza ». (...) Il film inizia con l'immagine di Richelieu, in piano medio, che guarda svogliato uno spettacolo allestito dallo stesso re Luigi XIII. Questi, travestito da avvenente fanciulla, con una conchiglietta sul pube, danza tra spumose onde di cartone azzurro e tritoni fuoriuscenti dal mare (un inizio, l'esibizione di un travestito, che fa pensare a quello de La caduta degli dei, e con Visconti Russell ha in comune il gusto teatrale. Ma Visconti fa muovere gli attori come fossero su un palcoscenico, mentre Russell fa muovere la macchina da presa con gusto teatrale. In questo il suo cinema è vecchio, datato, irrimediabilmente legato dal cordone ombelicale alla Mater theatralis). Alla fine del balletto, Richelieu con freddezza ossequiosa dirà: «Molto originale, maestà: la nascita di Venere. Spero di poter assistere alla nascita di una nuova Francia dove chiesa e stato siano tutt'uno e possano i protestanti essere cancellati, tutti, dalla terra».
Coerente con l'ultima frase, l'inquadratura seguente mostra uno scheletro incatenato ad una ruota issata su un palo. La strada che porta a Loudun è delimitata da questi tristi segni di morte e di violenza alla libertà di pensiero. Come questi segni di morte all'inizio del film seguono allo spettacolo di corte, così essi, alla fine, seguono allo spettacolo di popolo, nella piazza del mercato, dove è stato consumato il rogo di Urbano Grandier posto dinanzi a un palcoscenico su cui mimi mascherati da suore, da preti e da scheletri, ondeggiano oscenamente, esibendo lunghi falli di legno. Il palco dei mimi fronteggia il palco dell'uomo condannato per stregoneria e che si è rifiutato sino alla fine di confessare ciò che contrasta con la ragione, con la dignità, per le quali soprattutto egli ha reso testimonianza. Intorno alla piazza la folla urlante, ritmicamente ondeggiante, mentre dai balconi (come dai palchi di un teatro) i notabili della città si eccitano alla vista della morte, questa sì, esorcizzata.
Le due parti estreme del film, formate da una scena di spettacolo - ( sia essa la danza di un travestito di lusso, Luigi XIII, sia lo spettacolo del proprio corpo dato da Urbano Grandier tra le fiamme) seguite da una medesima scena simbolica (la strada segnata da alti pali terminanti in una ruota da cui pendono incatenati scheletri inverminati, la medesima strada che all'inizio del film porta a Loudun, che alla fine parte da Loudun, anno 1634, e giunge fino a noi e purtroppo non si ferma, va oltre, e non ne vediamo la fine) delimitano dall'esterno le due grandi sequenze centrali, quasi due volti di una stessa malattia curata apparentemente in modo diverso ma con un identico risultato: la morte. Sono le sequenze della peste e dell'esorcismo pubblico.
La sequenza della peste, il primo grosso brano narrativo del film, permette al regista sia di giocare su toni cupi, violenti, sia soprattutto di rapportare la macchina da presa a brandelli di corpi informi, gonfi, protesi. La narrazione della peste è elaborazione del tema tanto caro a Russell, che è il corpo come volume, e il suo rabbioso rapporto con lo spazio. Le parti del corpo riprese in dettaglio diventano espressivamente autonome, riempiono lo spazio dell'inquadratura, si tendono in essa fino a romperne l'equilibrio compositivo sempre cercato e raggiunto dal regista. I corpi degli appestati gettati alla rinfusa scivolano dai carri dei monatti e si rapportano, nella fossa comune, in suggestive e studiate composizioni, corpi bianchi, quasi mascherati nella calce della loro ultima rappresentazione. (...) L'esorcismo sfiora l'orgia, quello che Tessier chiama «il più folle party della storia». Suore nude accanto a chierici vocianti, inservienti sconciamente seduli, medici con maniche rimboccate e lorde di sangue. Il tutto nella cappella delle Orsoline, sotto la regia d'un verboso e grottesco esorcista, padre Barré, e la collaborazione del sempre presente barone, inviato dal cardinale. Il rituale è orgiastico, ma non c'è compiacenza da parte della macchina da presa: i nudi appaiono e dispaiono velocemente. La violenza dello Stato, con la complicità della Chiesa, realizzata da un cardinale-ministro è certamente disturbante ed è resa dal regista molto bene. Solo che i censori hanno confuso la sensazione rivoltante causata dalla violenza, perpetrata da un'irraggiungibile istituzione, con le immagini fuggenti di sconosciute attrici. Certo le scene rendono lo stato d'invasamento di un cattolicesimo senza Dio. (...) La cappella del convento delle Orsoline è ricostruita in modo freddo, anonimo, con maioliche bianche. Il regista ha voluto realizzare una cappella molto simile al lavatoio di cui parla Huxley: «La purificazione di Suor Giovanna era l'equivalente di uno stupro in un lavatoio pubblico». In questo ambiente ambulatoriale il nero ed il bianco prevalgono. Nel film i colori bianco e nero caratterizzano molte scene: tra le altre, si veda, all'inizio, la processione funebre del governatore bilanciata alla fine dalla processione che accompagna al rogo Grandier spezzato nelle ossa e trascinantesi bocconi mentre padre Barré lo colpisce ripetutamente gridando contro il diavolo «autore dell'incesto», o anche le scene del tentativo di abbattere le mura (per farle apparire bianche il regista dovette far dipingere di grigio quelle mura che, disegnate da D. Jarman, volevano essere una citazione di Metropolis ed un omaggio a Lang, il primo autore amato da Russell), o ancora le scene dell'esorcismo nella cappella, o quelle in chiesa durante il processo. (...) Russell difende criticamente il suo discusso film: «Feci un paio di terribili errori ne I diavoli. In retrospettiva penso che all'inizio avrei dovuto girare la prima scena, con Oliver Reed che cammina sull'acqua, in bianco e nero piuttosto che a colori» (questa visione di Suor Giovanna precede l'altra già più volte citata). «Non posso pensare perché la feci a colori quando la seconda è in bianco e in nero» (l'alternanza della sequenza, in cui è filmata questa seconda visione, è resa più marcata non solo dal taglio dei piani ma anche dall'uso del colore nella prima serie dell'alternanza – Suor Giovanna che prega – e del bianco e nero nell'altra – la visione. Solo questa è nel film girata in bianco e nero). Nella successiva sequenza, anch'essa alternata, le due serie che si alternano sono entrambe a colori ma nella prima predominano il bianco, il nero e le tonalità intermedie (Grandier che parla ai cittadini difendendo la pace religiosa), nella seconda colori con toni caldi (il re che si diverte a sparare contro gli ugonotti mascherati). (...)
Infine, cos'è I diavoli? È lo stesso regista a dircelo: «A black comedy». (...) Ma Russell non parla solo di black comedy, altra volta ha rievocato i misteri medioevali: «Penso che sia giunto il tempo in cui affrontare soggetti storici voglia dire attenersi più allo spirito che alla ricostruzione minuta. Ciò che interessa è vedere la relazione tra gli avvenimenti passati e i presenti: ecco perché ho stilizzato al massimo le scenografie e il modo di recitare degli attori per evitare i modelli tradizionali. Vedo perciò il mio film come un equivalente moderno di un Mistero medievale in cui la pietà, la farsa, il comico e il melodramma sono mescolati per dare un'idea di quello che poteva e può ancora accadere in una cittadina come Loudun » (« Cinema 71 », 161).
Rino Mele, Ken Russell, Il Castoro cinema, 6/1975

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Critica (4):
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