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Commedia di Dio (La) - Comédia de Deus (A)


Regia:Monteiro João César

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura: João César Monteiro; fotografia: Mário Barroso; musica: brani di Claudio Monteverdi, Joseph Haydn, Richard Wagner, Johann Strauss Jr., Quim Barreiros; montaggio: Carla Bogalheiro; scenografia: Emmanuel de Chauvigny; interpreti: "Max" Monteiro (João de Deus), Cláudia Teixeira (Joaninha), Manuela de Freitas (Judite), Raquel Ascensão (Rosarinho), Gracinda Nave (Félicia), Patricia Abreu (Alexandra), Saraiva Serrano (sig. Tomé), Maria João Ribeiro (Carmen), Bruno Sousa (Bruno), Ana Reis (Menina de Janela), Rui Luis (sig. Evaristo); produzione: Joaquim Pinto, per Grupo de Estudos e Realizagoes/Piene Grise Prods./Mikado Film/ Zentropa Production/La Sept/Arte; origine: Portogallo - Francia - Italia - Germania, 1995; durata: 143'.

Trama:È il secondo capitolo di una trilogia di film, iniziata con "Recordações da Casa Amarela" (1989) e conclusa con "As Bodas de Deus" (1999), in cui il regista interpreta il personaggio di João De Deus (appunto, il "Deus" del titolo). Le giornate di Joao de Deus trascorrono tranquille tra la gelateria dove lavora - è lui l'inventore della specialità della casa, il famoso gelato paradiso - e l'appartamento in cui vive. Qui, svolte le faccende di casa, egli trascorre i suoi momenti liberi, immancabilmente solitari, a sistemare in un prezioso album, che lui chiama il libro dei pensieri, la propria collezione di peli pubici femminili.

Critica (1):Se per Hitchcock i film erano fette di torta, per Joào César Monteiro, invece, sono gelati: i propri, prodotti artigianalmente, riescono tutti diversi tra di loro, talvolta divinamente buoni e talaltra sgradevoli, però ciascuno di essi è unico ed è comunque una sorpresa, mentre gli ice creams americani, sempre uguali a se stessi, sono prevedibili. Monteiro - un passato da clochard per le strade parigine - al personaggio che interpreta dona di se stesso non solo il corpo ma anche il nome di battesimo e il curriculum di drop-out. Com'è ovvio, quando il gelataio João crea nuovi gusti, li battezza "Aurora", "Così fan tutte", "Biancaneve". Diversamente da quanto si è scritto La commedia di Dio non è affatto un film sulle ragazzine e i vecchi sporcaccioni, perlomeno non più di quanto il primo canto della Commedia, quella "divina" per eccellenza, abbia come argomento boschi, colline e varia fauna; ma se il film di Monteiro ci appare come un'opera assolutamente allegorica non è tanto per l'analogia con il titolo dantesco (un segnale?), quanto per la coerente integrità del discorso e della sua struttura. Tutto il film, infatti, è un denso j'accuse del regista nei confronti di un modello culturale quello anglosassone ("l'impero dell'ice cream è immenso"), che tende a sostituirsi alle culture latine europee: queste sono destinate non a "chiudere" ma a perdere l'identità individuale, come accade alla bottega in cui lavora João, che diventa un anonimo negozio di gelati industriali. I gelati come i film, l'arte come gli alimentari, perché tutto quello che è regolato dall'industria e dal commercio è un bene di consumo e deve rispondere a determinate regole, a quella della prevedibilità innanzitutto: se questa manca, si sa, gli investimenti non arrivano. Fossimo negli anni Settanta, con un altro regista (magari un italiano), da queste premesse sarebbe nato un film terribile, di quelli "impegnati"; ma Monteiro è completamente estraneo alle ideologie, è uno di quei lupi solitari (come Raul Ruiz, il compianto Stavros Tornes, e pochi altri) che hanno sì una loro forte idea, ma del cinema, e la vogliono difendere ad ogni costo: "rigore e fantasia", dice João De Deus, "sono l'ultimo privilegio di un uomo libero". Egli insegue "il magnifico, e forse irraggiungibile, sapore dei sapori", e a chi gli obietta l'insensibilità del pubblico (è come gettare "perle ai porci") replica che il suo piacere è di "servire al meglio la comunità". João parla per il cinema latino: sa di essere "l'anima del negozio", e a chi, vedendolo malconcio, dice "questo non arriva a domani" risponde orgoglioso "lo pensi tu!". L'esito del rigore umanistico di Monteiro è in un'opera che possiamo definire "commedia poetica", continuamente in equilibrio tra humour garbato e lirismo dell'immagine, un genere in cui il regista portoghese è ormai un maestro indiscusso. Date a uno sceneggiatore di Hollywood un attore, un'attrice, una stanza e un materasso: cosa scriverà? Una scena di sesso. O di violenza. O le due insieme. Date le stesse cose a Monteiro, e avete un lungo piano-sequenza di una lezione di nuoto orchestrata sull'aria della morte di Isotta, con una lentezza che esaspererà i critici più assuefatti al cinema mainstream, ma con un respiro ritmico, iconografico e culturale che ne fa. uno dei più straordinari inni alla fantasia mai visti al cinema, una perla nata in un guscio di estrema indigenza. In questa sequenza è racchiuso il cuore del cinema di Monteiro. Egli difende la singularitas e attacca la medietas, madre di quella prevedibilità di cui si è detto; per farlo, lavora sull'analogia: se il cinema medio è quello hollywoodiano, e quello d'autore europeo è un'eccezione marginale, come funziona l'amore? L'amore medio è quello per la donna adulta, l'amore extra-ordinario è quello per la fanciulla adolescente. Il tema non è nuovo, e ci ha visto Morte a Venezia ne ricorderà forse una battuta originale (cioè non manniana): «Cosa c'è in fondo alla strada maestra? La mediocrità!». Ma ne La commedia di Dio non c'è traccia di decadentismo morboso; lo sguardo è sempre ironico, guidato da un equilibrio classico della visione. Ricordiamo di avere domandato a Monteiro, a proposito del suo A flor do mar (1986), della qualità drammatica della fotografia caravaggesca di Acácio de Almeida: in risposta avemmo un'ammissione di dispiaciuta e una dichiarazione d'amore per la luce piatta e rasserenante di Piero della Francesca. Dieci anni dopo quell'ideale è più vicino, non sempre invero nella fotografia di barroso, ma fermamente nello spirito dell'autore. Sì, perché ne La commedia di Dio la passione ha una sua saldezza morale a dispetto delle apparenze, e a questa fa appello João De Deus quando replica alle accuse finali dei proprietari che lo licenziano: «Non siete voi che mi cacciate, sono io che vi condanno a rimanere», da leggersi «non siete voi che non mi fate fare i vostri film, sono io che mi rifiuto di girarli». E sulla moralità dell'industria cinematografica, non solo statunitense, Monteiro ne ha parecchie da dire, sempre tramite allegorie, allusioni e jeux de mots. A partire dai produttori: la proprietaria della gelateria, che aveva "sfamato e spidocchiato" l'"ingrato" João, è un'ex prostituta ora imprenditrice, che non mischia mai "lavoro e piacere", ma che non esita a tornare alle usate arti per favorirsi un socio d'affari francese, di nome... Antoine Doinel! Ovviamente, il gelato speciale che João prepara per Doinel (dietro l'insistenza dell'ignara padrona), e che a questi viene offerto dopo cerimonie e discorsi di circostanza, "c'est de la merde"... Il dissenso di fondo dai registi cinéphiles come Truffaut, che guardavano al cinema hollywoodiano come a un modello, è palese. E Monteiro non è certo quel tipo di cinéphile: così come João De Deus, pedagogo igienista solo per le apparenze, non è di fatto un pedofilo (amore generico) ma un pederasta (amore sensuale e fisico), egli stesso non vuol essere un cinefilo erudito ma un vero - ci si passi il neologismo - cinerasta, che vive il cinema con la stessa sincera naturalezza con cui João De Deus sodomizza la consenziente Rosarinho (sì, avete indovinato: nello schema allegorico le verginelle siamo noi spettatori), perché il cinema in fondo è proprio questo, una perversione - voyeurismo - alla quale tutti sono consenzienti, ma di cui alcuni si vergognano, ed ecco allora la censura... che serve, infatti, a mascherare l'ipocrisia: così Rosarinho, la cui confessione, sommata a quella di Joaninha, inguaia João, scappa in Finlandia con un'industriale già sposato e padre di due figlie, per fare probabilmente le stesse cose che faceva con João, ma protetta dalla rispettabilità del capitale. È chiaro ormai che per Monteiro la volgarità nell'arte equivale all'immoralità: questa per lui è maggiore nelle uniformi succinte che le commesse (attrici) indossano alla vetrina (chermo) per vendere i gelati (film) americani di quanto lo sia nel corpo nudo che la golosa Joaninha (il femminile del nome João...) offre infine senza veli, ma anche senza secondi fini, alla cùpida vista del suo vampiresco ospite. Già, perché Monteiro attore gioca con la sua rassomiglianza a Max Schreck (il Nosferatu di Murnau) e proietta la sua ombra diabolica zompettando dietro finestre e tendoni. E come Mefistofele, o come il fauno di Mallarmé, cerca di ammaliare le ninfe con la meraviglia della visione, quella del caleidoscopio e quella delle biglie di metallo (che rammentano le stesse nella galassia): visioni povere, evocate con oggetti di tempi non tecnologici, ma ricche di fascinazione cinematografica. E comunque in una "commedia di Dio" il diavolo sta bene, come il vampiro nel cinema: il vampiro ruba sangue che non gli appartiene, come João De Deus ruba alle fanciulle una bellezza che non gli appartiene, come Joào Monteiro ruba cinema a un'industria a cui non appartiene, come gli spettatori rubano immagini a un mondo di fantasmi a cui pensano di non appartenere.
Orio Menoni, Segno Cinema, n. 80,1994

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