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Frank Costello, faccia d’angelo - Samouraï (Le )


Regia:Melville Jean-Pierre

Cast e credits:
Soggetto: tratto da romanzo di Joan McLeod "The Ronin"; sceneggiatura: Georges Pellegrin Jean-Pierre Melville; fotografia: Henri Decaë; musiche: François de Roubaix; montaggio: Monique Bonnot, Yolande Marette; scenografia: François de Lamothe; arredamento: François de Lamothe; interpreti: Alain Delon (Jef Costello, Frank nell’edizione italiana), François Périer (l'ispettore), Nathalie Delon (Jane Lagrange), Jacques Leroy (il killer), Cathy Rosier (Valérie), Michel Boisrond (Wiener), Georges Casati (Da molini), Jacques Deshamps (funzionario di polizia), Carl Lechner (sosia Jef ), Jean-Pierre Posier (Olivier Rey), Roger Fradet (poliziotto), André Thorent (poliziotto/autista), Carlo Nell, Robert Rondo (poliziotti), André Salgues (uomo del garage), Gaston Meunier (direttore dell'Hotel), Robert Favart (il barman), Catherine Jourdan (la guardarobiera); produzione: Raymond Borderie ed Eugène Lépicier per C.I.C.C.-Filmel-Fida Cinematografica-Tc Productions; distribuzione: Cineteca Griffith; origine: Francia-Italia, 1967; durata: 105’.

Trama:Frank Costello, giovane malvivente parigino, uccide dietro commissione il proprietario di un night-club. Caduto in una retata della polizia, riesce a produrre un alibi inoppugnabile grazie alla connivenza della sua amante. Rimesso in libertà, egli è costretto a difendersi su due fronti: da una parte, la polizia, non del tutto convinta della sua estraneità al delitto, dall'altra i suoi mandanti, decisi ad eliminare il compromettente indiziato. Estenuato dalla spietata caccia all'uomo e ferito in seguito ad uno scontro con uno dei suoi ex-complici, Costello penetra nella casa dell'uomo che gli aveva commissionato il delitto e lo uccide, esponendosi subito dopo volontariamente al fuoco della polizia.

Critica (1):Per la scelta del titolo italiano di Le samouraï fu lo stesso Jean-Pierre Melville ad infuriarsi a causa dello stolido, evidente, tradimento perpetrato ai danni del senso, anche se quel “Salauds!” (“Farabutti!”), pronunciato ai danni della distribuzione nostrana, suonava sardonicamente più come un “incompetenti/cialtroni”.
Dopo l’enorme successo di critica e di pubblico, almeno in Francia, ottenuto con lo straordinario Tutte le ore feriscono, l’ultima uccide! Melville decide di concentrarsi con maggior insistenza, se mai fosse stato possibile, sul discorso della solitudine dell’eroe. Le samouraï in effetti, sotto questo profilo, appare come eminente esempio di rappresentazione in chiave esistenzialistica, perlopiù camusiana, della solitudine dell’uomo contemporaneo. Ancora una volta Melville non rinuncia alla sua peculiare cifra stilistica nel presentare una descrizione di ambienti e personaggi basata sul tratteggio e sulla stilizzazione, anzi in questo caso il grado di astrazione raggiunto risulta direttamente proporzionale alla cerebralità dell’enunciato. Con Le samouraï il regista fa essenzialmente due cose: ordisce la complessa trama di un universo simbolico attraversato da una fitta rete di rimandi non solamente (meta)cinematografici e decostruisce contemporaneamente i codici del polar elaborando un tipo di linguaggio che fa leva sulle situazioni piuttosto che sull’azione pura; ci accorgiamo dei momenti topici quali possono essere quelli dei delitti fondamentalmente perché vengono esemplarizzati da sequenze che sospendono l’azione in quadri di assoluta e anti-dinamica fissità emotiva. L’accadimento significante, il kairòs, il quale poi segue il filo prestabilito del dramma, risulta tragico senza che vi sia una drammatizzazione poiché viene congelato nel breve attimo eterno dell’immagine caricata di significato simbolico in cui il gesto diviene metonimicamente l’ellisse dell’azione drammatica (l’oscurità diffusa, i silenzi, l’immobilità, fatta salva la sequenza del pedinamento nel metró, tutto concorre a determinare una fenomenologia dell’assenza). È decisamente il film in cui Melville analizzando la psicopatologia di un assassino su commissione e scoprendo che essa è il derivato di un’esistenza patologica in quanto costellata di rituali (dal gioco con l’uccellino in gabbia alla preparazione dell’omicidio) si consegna totalmente ad una sorta di ritualità cinematografica per mezzo della quale il regista non può fare a meno di ritornare sui suoi luoghi (cinematograficamente) più cari (allo stesso identico modo in cui Jack (Jeff nell’originale) Costello torna nel fatidico night club), ovvero il milieu (malavitoso) parigino (fotografato dalla più livida delle atmosfere che Henri Decaë poteva donarci), affidandosi per di più alla referenzialità quasi obbligata delle assonanze hustoniane (Giungla d’asfalto) e penniane (Furia selvaggia, con lo splendido finale del suicidio). Le samouraï si annuncia dunque come percorso cinematograficamente simbolico nella messa in rappresentazione di un carattere, o meglio di un tipo psicologico (e di alcune correlate pretese di universalità), nella figura del ronin braccato come tigre tra i lupi, che nella sua autarchia di matrice nevrotica evidenzia la presa di posizione esistenziale di schisi nei confronti di un mondo che lo vuole colpevole perché interpreta ovviamente come minaccioso quel contratto di morte che lui è costretto a stipulare per vivere, principalmente con se stesso ( gli innumerevoli specchi presenti nel film, come in numerose altre pellicole di Melville, rappresentano l’ulteriore simbolo di una frantumazione tra io e mondo che diviene via via sempre più interiore). Un percorso obbligato e metodico (la fuga, motivo classico del noir melvilliano, sarà soprattutto un fuggire dal sé) dal quale verrà in qualche modo svincolato grazie all’amore per una ragazza (la morte che assume iconograficamente le sembianze di una giovane pianista pied-noir, raffigurazione melanconicamente tragica e allo stesso tempo beffarda della morte nera, che chiama a morire proprio un angelo della morte come Frank) fino alla fine del gioco ritualizzato della sua esistenza con un’uscita di scena memorabile, necessariamente attraverso l’ennesima forma rituale: un seppuku in guanti bianchi.
Mauro F. Giorgio, spietati.it

Critica (2):Le samouraï è un film del 1967. Quarant'anni dopo il nostro senso del tempo – non solo del tempo della visione, del tempo esistenziale, in assoluto – si è profondamente modificato. Siamo tutti maledettamente più veloci. Procediamo per sommatorie di frames. La lentezza ci appare sempre più un segno arcaico. Un valore, per qualcuno, ma comunque sempre e pur sempre arcaico. Perciò, stiamo per sprofondare in una visione d'altri tempi. Una visione lenta. Non diremmo lo stesso dei russi, da Pudovkin a Ejzenstejn, né di certi montaggi furibondi di Orson Welles: autori che si trascinano una diversa distorsione percettiva. Lo possiamo dire di Melville come dell'intero strumentario del polar francese di quegli anni: una visione lenta. (…)
Da noi Le samouraï si chiamò Frank Costello faccia d'angelo. II nome del protagonista venne cambiato: da Jef a Frank. L'epigrafe in testa al film – «nessuno è più solo di un samurai senza padrone, forse soltanto una tigre nel deserto» – venne soppressa. Questa epigrafe è una truffa. Non viene da nessun codice dei samurai, da nessun testo sacro impregnato di antica sapienza giapponese. È un'invenzione di Melville. (…) E Melville, a differenza dei corifei del '68, era un conservatore. Meglio, un gollista. Partigiano combattente, capace di coinvolgere Paul Vercors in Le silence de la mer, forse uno dei più bei racconti sulla Resistenza in ogni Paese, ma non comunista, non "de sinistra". E allora: se per Leone citare Mao (in Giù la testa, ndr)significava aprirsi una corsia preferenziale nell'autostrada nel gauchismo in celluloide, per Melville richiamarsi all'inesistente codice del samurai aveva il sapore di uno sberleffo anarchico. Questo è un film "polar". Vi mancano i quarti di nobiltà? Eccoveli, sotto forma di citazione. Ora Le samuraï è diventato un film polar d'autore. Ma sempre "samurai" resta. O, per meglio dire, "ronin". Ma questa è un'altra storia (un altro film). E, d'altronde, Melville stesso non è che uno pseudonimo. (…)
Per dieci minuti Jef Costello si prepara alla cerimonia dell'omicidio rituale, e lo fa in perfetto silenzio. La meticolosità dei gesti è il primo segno di quella lentezza che marca, inesorabile, la distanza temporale che ci separa dalla metafisica melvilliana. L'azione, nel prosieguo, è così distillata che finisce per comunicare l'impressione di una successione di quadri viventi. È davvero impossibile recuperare, oggi, lo spirito di quella che poteva essere la visione al momento in cui il film fu realizzato. Un'operazione-nostalgia rischia di apparire semplicemente priva di senso: non è un caso se il Corneau in costume (Le deuxième souffle, 2007; NdR), coi suoi vecchi gangster ancorati a un senso laido dell'onore che oggi non ha più, per noi, nessun fascino, stenta a trovare distribuzione. Nonostante Daniel Auteuil e la Bellucci. Si deve necessariamente storicizzare. Le Samouraï non è un film migliore di un altro (metti: L.A. Confidential [Id., 1997] di Curtis Hanson, La 25a ora [25t1 Hour, 2002] di Spike Lee, American Gangster [Id., 2007] di Ridley Scott, Quei bravi ragazzi [Goodfellas, 1990] di Martin Scorsese, Gomorra [2008] di Matteo Garrone). I confronti sono ingenerosi, oltreché sconsigliati dal buon senso. È un film del suo tempo, ed era (una volta di più) un tempo non solo così diverso, ma irrecuperabile. Pure, nel suo tempo, il film resta una lezione esemplare: è polar, metafisico, perfettamente calato nel rispetto persino maniacale delle regole. L'eroe è solo. Intorno a lui, un Male ancora più aggressivo e contagioso di quello del quale il sicario è portatore (ne sono contagiati persino gli osceni sbirri). La città è nera, e non offre né scampo né redenzione. Gli elementi della tradizione, insomma, ci sono tutti. Ma c'è anche qualcosa di diverso. Qualcosa di sottilmente eversivo.
Ecco. Eversiva è la decisione della pianista Valérie di non confermare agli sbirri il riconoscimento del killer Costello. Nel mondo della maschera-Costello (resa con grande effetto dalla maschera-Delon), l'omertà fa parte delle regole del gioco. Ma solo per i giocatori. Quelli del "milieu". I duri, insomma. "Ci sta" che il testimone neutro ti accusi. Puoi tentare di neutralizzarlo (fa anche questo parte delle regole del gioco), ma la protezione non richiesta è un'anomalia. E quando nell'ingranaggio s'inserisce un cuneo perturbante, l'ingranaggio salta. Dal momento in cui questa "svolta" viene messa in scena, il destino del samurai è segnato. Le regole del gioco sono state alterate. Viene in mente un illustre precedente: Una pistola in vendita, di Graham Greene. Anche in quella storia il killer Raven ha un ripensamento dovuto all'incontro con una ragazza "per bene". Innocente e, ciò che più conta, comprensiva. Nel mondo dei duri (e nel codice artefatto che Melville ha imposto al suo eroe) non possono esistere comprensione, condivisione, né tanto meno violazioni delle regole. Ma se Greene ha dalla sua la Fede, a Melville non fa difetto la sensualità delle vite disperate. Il rifiuto di Valérie di incastrarlo aggiunge alla metafisica del noir il pathos del melodramma. Ma Costello è troppo esperto samurai (e Melville troppo scanzonato demiurgo) per intravedere una chance di salvezza. Perciò, il finale è obbligato. E tutto ciò che resta da fare a Costello è prepararsi adeguatamente al momento del trapasso. Ed è ciò che Costello farà, coscienziosamente, obbedendo, in morte come in vita, al codice-bluff che lo ha sempre guidato. (…)
Giancarlo De Cataldo, “Il tempo della visione (Le samuraï)”, in Jean-Pierre Melville, a cura di Mauro Gervasini, Emanuela Martini, Il Castoro-Torino Film Festival, 2008

Critica (3):(…) Solo un anno separa Le deuxième souffle dal decimo lungometraggio, ma è come se fosse trascorso un secolo. Dopo un film con un cast impor­tante e una trama avvincente, Melville si misura con un soggetto del tut­to diverso: fa agire nello schema narrativo del noir addirittura la figura di uno schizofrenico. «Le samourai è l'analisi di uno schizofrenico fatta da un paranoico, poiché tutti i creatori sono dei paranoici». E ancora: «Pri­ma di scrivere la sceneggiatura, ho letto tutto ciò che ho potuto sulla schi­zofrenia, sulla solitudine, il comportamento muto, il ripiegamento in se stessi...». Ecco un soggetto palesemente ostico e gelido, che propone un per­sonaggio fuori dell'ordinario. Ma attraverso questa sommessa riflessione sul­la solitudine umana, e sui risvolti allucinatori prodotti nella psiche di un killer, Melville esprime la forza e la coerenza del proprio stile con una lucidità impressionante. Jeff Costello (proditoriamente Frank nell'edizione italiana, con l'aggiunta di un attributo – «faccia d'angelo» – di evidente richiamo religioso-divistico) si presenta per quello che è. Senza commenti. Schegge di comportamento quotidiano disegnano la fisionomia di un perso­naggio che il cinema ha sfruttato in casi sporadici (cfr. Rapsodia di un killer di James Toback o Ore contate di Dennis Hopper). Tutto è già visibile nelle prime immagini. L'interno dell'appartamento del killer. Un ambiente spoglio, un arredamento appena sufficiente per viverci ma funzionale al
ruolo di rifugio del lupo solitario. La sua unica compagnia è simbolicamen­te rappresentata da un uccellino rinchiuso in gabbia (…). Vestitosi per usci­re, Costello indossa davanti allo specchio un cappello a falde larghe e ne accarezza il bordo col pollice e l'indice della mano destra: un gesto come tanti altri, ripetuto chissà quante volte, probabilmente un tic, ma indicativo di un comportamento che ha qualcosa di rituale e di misterioso.
(…) Costello è un professionnel del crimine su commissione, un esecutore glaciale e silenzioso. Ma è anche un uomo non privo di una sua sfera d'affetti, e saranno proprio gli affetti a provocarne la morte. La Morte non è incarnata da Jeanne (classica figura di donna del gangster: disposta a tutto pur di non tradire il suo uomo, taciturna, dallo sguardo fiero; è la versione femminile di Costello) ma da Valérie. Vestita di bianco, pelle nera, fa innamorare di sé il killer dagli occhi di ghiaccio. Il dittico Amore-Morte è spinto sino agli estremi. Melvil­le non si lascia sedurre dallo spettacolo. Propone una visione atemporale, quasi pietrificata, del rapporto tra i sessi.
Domina il concetto di solitudine senza tempo, senza origine e senza ragioni di fondo. Anche il rapporto di Costello con Jeanne e Valérie è, per così dire, privo di referenti socio-ambientali. Melville ricerca maniacal­mente una dimensione astratta, antirealistica, in cui far muovere i personag­gi. Prosciuga il suo stile di regia sino a renderlo freddo, «aristocratico», perverso nella fitta geometria di rimandi, di citazioni, di omaggi e di spo­stamenti progressivi della tensione narrativa. Le samouraï può sembrare il meno attraente dei film melvilliani, il meno robusto sul piano spettacolare, ma il più elaborato come analisi di un singolo personaggio. (…) Stilisticamente, il film sembra diretto con la tecnica dello story-board. Inquadrature ben definite, scenografia essenziale, personaggi che assumono una posizione precisa sulla scena. Mai come stavolta Melville evita il virtuo­sismo di ripresa. Preferisce l'inquadratura fissa. E un che di rigido, questo è vero, appesantisce l'evolversi del racconto. Ma proprio per l'assenza di riferimenti spazio-temporali, ridotti all'osso, l'azione si sviluppa secondo un ritmo autonomo, estraneo alla tradizione del film poliziesco. Il plot è calato in una dimensione onirica, ha un andamento da sogno a occhi aper­ti. Le samouraï viaggia sui binari dell'astrattezza figurativa e, come nei so­gni, offre un'interazione degli accadimenti. Costello ruba due auto, le fa ritargare e si serve in entrambi i casi di un mazzo di chiavi identico a quello che i poliziotti adoperano per entrare nel suo appartamento. Costel­lo incontra due volte l'uomo della passerella, per due volte sfugge a un pedinamento. Due donne – una bionda, l'altra nera: l'angelo e il demonio – hanno accesso al suo mondo interiore. Per due volte lo vediamo uccide­re, sempre con la meccanica impassibilità di esecutore giunto da chissà dove e motivato da un raziocinante senso del dovere. Come un antico samurai. Ma la sua vera natura è ignota a tutti, tranne che a pochi, pochissimi inter­locutori: Jeanne, e forse Valérie.
Anche oggi, dopo i radicali mutamenti intervenuti nel gusto, Le samou­raï maschera bene la sua «carenza» spettacolare. Il discorso simbolico è prioritario, ma resta ancora in piedi un senso di oggettiva asciuttezza dello stile. Cerebralità non inquinata da intellettualismi: questo sembra il segreto del film. Benché non avvinca come esigerebbe l'appartenenza al genere po­liziesco (il soggetto è tratto da The Ronin di Joan McLeod), non è povero di scene d'azione. Il pedinamento nel labirinto del metro, per esempio, è interessante perché la narrazione è dirottata su fatti non clamorosi, che ne accrescono la forza drammatica. Anche la scena del furto dell'auto, da banale e priva d'energia diventa corposa grazie all'alternanza di inquadratu­re del viso immobile del killer e di dettagli della mano destra che prova le varie chiavi per l'accensione del motore.
Non è azzardato sostenere che Melville ha desiderato collaudare con questo film una nuova forma di racconto, più raffinata e intellettualizzata di quella – tradizionale – finora adottata e che buona parte dei suoi estimatori-detrattori gli attribuivano. Quando il film esce nelle sale francesi, sulla stampa fioccarono espressioni quali «ricerca plastica», «bellezza pura», «una tela di Picasso: tre tratti di folgorante semplicità, cinquant'anni di lavoro, cento schizzi... e il talento del maestro». Ma non mancò neppure chi reiterò le proprie riserve, né chi definì Delon «faccia da ebete», né chi accusò il regista di «imbrogliare le carte» e di «ingannare il pubblico». (Postilla. Forse non è noto a tutti che per Le samouraï era pronto un secondo finale: Costello, colpito a morte, scoppiava a ridere, pistola in pu­gno e braccia al petto. Se fosse finito così, come avrebbero reagito gli «an­ti» e i «pro»? Difficile immaginarlo).
Pino Gaeta, Jean-Pierre Melville, il Castoro cinema, 3-4/1990

Critica (4):
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