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Lavagne - Takhté Siah


Regia:Makhmalbaf Samira

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura:
Mohsen Makhmalbaf, Samira Makhmalbaf; fotografia: Ebrahimi Ghafori; musica: Mohamed Reza Daryishi; montaggio: Mohsen Makhmalbaf, Babak Karimi; suono: Behroz Shahamat; interpreti: Bahman Ghobadi (Reeboir, secondo maestro), Behnaz Jafari (Halaleh), Said Mohamadi (Said, primo maestro), Mohamad Karim Rahmati (Il Padre), Rafat Moradi (Ribvar), Mayas Rostami (il Giovane Narratore) Saman Akbari (il Leader Del Gruppo), Karim Moradi (il Vecchio), Hassan Mohamadi (il Bambino), Somaye Veisee (la Ragazza), Ahmad Bahrami, Mohamad Moradi, Rasool Mohamadi; produzione: Mohsen Makhmalbaf e Marco Müller per Makhmalbaf Film House/Fabrica Cinema; distribuzione: Istituto Luce; origine: Iran/Italia, 2000; durata: 90'.

Trama:Durante la guerra fra Iran e Iraq alcuni maestri ambulanti, con le lavagne in spalla, cercano fra le montagne del Kurdistan improbabili allievi. Un maestro si unisce ad alcuni piccoli contrabbandieri: morirà insieme a loro sotto i colpi del nemico Un altro maestro si aggrega a una folla di profughi li accompagna al confine con l’Iraq, sposa e poi divorzia da una vedova, madre di un bambino, lasciandole come ricompensa la lavagna, suo unico bene.

Critica (1):“Persino il dolore, il lamento puro si risolve in figura” (R.M. Rilke, Elegie Duinesi. IX, v. 60) Lavagne è cinema “di lamento”. Così definiva il padre di Samira, Mohsen Makhmalbaf – in un’intervista pubblicata in L’Iran e i suoi schermi (Marsilio 1990) – i film che riflettono la tragedia della guerra. Il lamento, necessario per non dimenticare, è profondamente radicato nella storia e nella ritualità sciita e trova una delle sue più significative espressioni nel ta ‘zie. Il termine, che significa lutto, condoglianza, designa la rappresentazione teatrale iranica che da secoli, rievocando il martirio del nipote di Maometto, l’imam Huseyn, mette in scena la ferocia perpetrata dal tiranno ai danni del giusto e il dolore che ogni guerra arreca. Se nel ta’zie la tragedia è espressa dal canto, dalle parole, dalla danza stilizzata, nonché dalla macabra crudezza di alcune scene, in Lavagne sono le immagini scarne, essenziali, prive di ogni retorica concessione al pathos, a farsi lutto e lamento. Il colore del lutto domina l’incipit del film: è il nero delle lavagne portate in spalla come croci dai maestri laceri e curvi. La m.d.p. a mano li segue mentre “tremanti” si arrampicano sulle montagne aspre e pietrose in cerca di qualcuno che possa permettere loro di segnare con il bianco del gessetto le scure lastre di ardesia, così da diffondere il “sapere” necessario a combattere l’ignoranza, la povertà, le logiche della guerra. I maestri cercano allievi in cambio di un pezzo di pane, di poche noci, ma c’è in loro una pervicacia che sembra andare oltre i bisogni materiali. È il desiderio di in-segnare, di “incidere segni” sulla lavagna – e non è anche il cinema un rettangolo nero sul quale “incidere segni”? – per mettere l’altro a parte di conoscenze credute importanti e pertanto degne di essere trasmesse. Ma chi può voler imparare quando anche i bisogni primari sono negati? I piccoli contrabbandieri piegano le spalle sotto il peso delle merci, non hanno il tempo di fermarsi ad ascoltare, devono camminare per ore con la paura di essere scoperti e uccisi. Mentre si arrampicano sui monti, la m.d.p. li segue da vicino o da un punto di vista tanto distante da farli apparire nella vastità del paesaggio - come formiche operose che si muovono in fila - ancora più piccoli e fragili. Il maestro si ostina a rimanere con loro e, anche durante il percorso, continua a insegnare all’unico allievo le lettere che formano il suo nome; il bimbo le vede sulla lavagna e le ripete nell’aria fino a imparare a scriverle. Ma il nemico - che nel film non ha un volto, è solo un sibilo stridulo di armi da fuoco - sta in agguato: i bambini cercano di ingannarlo nascondendosi fra le capre ma, meno fortunati di Ulisse e dei suoi compagni, non riescono a sfuggire al loro Polifemo. Il montaggio alterna il cammino dei piccoli contrabbandieri verso la morte all’esodo dei profughi, una folla di uomini persi che arranca su quelle aride montagne rese dalla guerra ancora più desolate: in un villaggio la paura tiene serrate le persone dentro le case sparute, i profughi, appena giunti nella loro terra natale, non la riconoscono, perché bombe e fili spinati l’hanno stravolta. Ancor più violata è la vita delle persone. Il maestro cerca invano di avvicinarsi alla sua sposa insegnandole a scrivere “ti voglio bene”. La donna (interpretata dall’unica attrice professionista) ha ancora vivo il ricordo dell’orrore delle armi chimiche, ha perduto il marito e paragona il suo cuore a un vagone dove a chi sale non resta che scendere; solo il figlio può restarvi per sempre. Il suo volto è assente, sperduto; lo sguardo, come guidato da un istinto animale, si volge solo verso il piccolo e verso il vecchio padre che da giorni non riesce a orinare. Gli uomini in cammino si stringono attorno al vecchio: lo sostengono sulle spalle, lo fanno bagnare in uno stagno di acqua gelata per facilitargli la minzione: è la solidarietà l’unica ricchezza del gruppo. Anche il bimbo è oggetto di cure e il desiderio di divertirlo diventa un’occasione per improvvisare un gioco con le noci, il solo alimento loro rimasto. La lavagna, pur non assolvendo le sue funzioni specifiche, ne acquista altre a seconda delle necessità, quasi a sottintendere le possibilità infinite della “cultura” di trasformarsi e di incidere efficacemente nei più svariati contesti. La tavola nera diventa uno scudo sotto il quale proteggersi dai colpi del nemico, una lettiga per trasportare il vecchio malato, uno stenditoio dove mettere i panni ad asciugare, un pegno di matrimonio e una ricompensa di divorzio, una porta per chiudere lo spazio dentro il quale lo sposo cerca un’intimità con la sposa, un pezzo rigido utile alla fasciatura di una gamba rotta, un piano da ricoprire di fango sotto il quale mimetizzarsi, una pietra tombale che cade sul maestro ucciso dagli spari. Il valore metaforico attribuito alla lavagna è ascrivibile a una peculiarità propria del cinema iraniano che, per sfuggire ai rigori della censura, ha fatto del simbolismo una sua cifra stilistica. Nel primo lungometraggio di Samira Makhmalbaf, La mela, le sorelle recluse in casa dal padre non sono che l’immagine di un popolo privato della democrazia e la libertà negata è simboleggiata dal frutto colorato che le bimbe imparano a desiderare, a conquistare e ad assaporare. Le lavagne non scritte sono l’ovvia denuncia di una cultura ancora preclusa a chi è oppresso dalla guerra e costretto a un’arretratezza che la stessa lavagna, strumento rudimentale lontano dalle moderne tecnologie, emblematizza. Miseria, analfabetismo, ricerca di allievi sono temi presenti anche in Non uno di meno; ma se nel finale dell’accomodante film di Yimou la lavagna si riempie di festosi ideogrammi variopinti, nell’epilogo di Lavagne permane invece il colore del lutto e la scelta di far portare la nera lastra al personaggio femminile – inquadrato di spalle mentre si allontana nella nebbia – più che dettata dal desiderio di affidare a una donna la speranza di un futuro diverso, sembra acuire quel senso di tragica impotenza - così presente anche ne Il cerchio, dove però è soltanto l’universo femminile a esserne investito - nei confronti di una realtà accerchiata dal dolore, abitata da offese e iniquità. Eliana Elia, Segnocinema n. 106, novembre-dicembre 2000. Tra le rocce e la polvere di montagne sterili, emergendo dai marroni d’una terra di nessuno, avanzano strani esseri. Si direbbero uomini, se non fosse per le ali nere che tengono spiegate. Tuttavia il loro cammino non ha la leggerezza d’un volo. Appesantiti da una paura che, man mano, ci si scopre sui loro volti, fuggono verso luoghi sperati, incerti. Sono insieme emozionanti e sorprendenti, le prime immagini di Lavagne (Takhte siah.). Sapremo poi che gli uomini di cui Samira Makhmalbaf sta per narrarci la fuga verso l’ignoto sono maestri elementari, e che le ali sono le scure, povere lavagne di legno che ognuno s’è caricato sulle spalle. Ora però c’è solo quel che vede la macchina da presa, ferma di fronte a loro che s’avvicinano in campo totale, emozionanti e sorprendenti. Il cinema – così ci vien da pensare – può ben essere solo immagine. In particolare, il cinema che viene dall’Iran ha questa intensità espressiva, questa “rapidità” comunicativa: non gli occorre contesto narrativo, ancor meno gli occorre dialogo, per arrivare ai nostri occhi come senso. Non è una metafora, quella che la giovanissima Makhmalbaf ci sta mostrando. Non c’è alcun “trasferimento di significato”, più o meno faticoso, dalle sue immagini a una qualche verità o idea. L’emozione che in platea ci capita di vivere è molto più immediata: nelle immagini, dentro la loro piena autonomia espressiva, c’è appunto una sorprendente capacità di senso. Ancora non sappiamo che cosa li abbia impauriti, questi esseri strani. Nemmeno sappiamo che la loro è una fuga. Eppure già ne percepiamo l’angoscia. Quando poi, nascosto e alto nel cielo, un rombo d’aerei riempie il vuoto delle montagne, ci par d’essere tra loro che corrono nell’inutile, affannata ricerca d’un riparo. Come uccelli che un rapace minacci di morte, si perdono in ogni direzione e poi si ritrovano e tornano a perdersi. Alla fine, ancora come uno stormo d’uccelli sconvolto dal panico, si chiudono l’uno accanto all’altro, ognuno scudo inconsapevole dell’altro, tutti insieme nascosti al rapace solo dal nero delle loro povere ali. Adesso gli aerei se ne vanno, e in alto, sopra le montagne, restano a volteggiare rumorosi dei corvi. Certo, non tutto Lavagne si mantiene a questo livello. Qua e là si sospetta una troppo dichiarata ricerca della bella immagine, e anche di simboli eccessivi. D’altra parte Samira ha vent’anni. Per quanto sia già alla seconda opera – dopo l’esordio di La mela (1998) – molto ancora le si può e le si deve perdonare, compresa la probabile guida del padre Mohsen (che cura il montaggio e, con lei, firma la sceneggiatura). Quel che conta è che sappia mostrare con immediatezza il senso che sta nelle immagini, quasi in attesa di qualcuno che lo sveli. Dopo la splendida sequenza d’apertura, la sceneggiatura e la regia abbandonano gran parte degli uomini in fuga, e ne seguono solo due: Reboir (Bahman Ghoadi) e Said (Said Mohamadi ). La vicenda del primo ben presto s’incontra con quella d’un gruppo di ragazzini che la fame spinge al contrabbando, mentre il cammino del secondo s’intreccia con quello d’un altro gruppo, questa volta quasi tutto di vecchi. Gli uni e gli altri sono sradicati, costretti a stare in una sorta di terra di nessuno: i ragazzini tentando di trovarci uno spazio di sopravvivenza, i vecchi alla ricerca d’un confine perduto. Su tutti – anche su Reboir e Said, che pure vorrebbero e forse potrebbero esser per loro maestri –, continua a gravitare una minaccia di morte, implicita e incombente come un gracchiar di corvi. E non si tratta solo della guerra che s’intuisce in corso nel Kurdistan iraniano. I soldati e la loro violenza non vengono mai in primo piano; piuttosto, se ne avverte il frastuono, l’avvicinarsi angosciante, al massimo se ne intravede qualche divisa, qualche fucile. Sono dappertutto e non sono in nessun luogo specifico, pronti in ogni momento a piombare sui due “stormi “ in fuga con la spietata prepotenza d’un rapace. Come già all’inizio di Lavagne, anche ora non c’è via di fuga. Esposti e indifesi, tenuti gli uni accanto agli altri dalla paura, sono vittime in senso pieno: non c’è spazio che possano chiamare loro, non c’è confine che li difenda. Per quanto tentino di volar via con le ali della disperazione, riescono solo a essere l’uno per l’altro scudi inconsapevoli con i propri corpi. Chinati a terra, tra le rocce e la polvere, prima ai ragazzini e poi anche ai vecchi capita di procedere imitando gli animali, sulle ginocchia e sulle mani, nel tentativo inutile di nascondersi, di sfuggire alla minaccia di morte che riempie di sé il cielo sopra la terra di nessuno.
Roberto Escobar, Il Sole 24 Ore, 17/9/2000

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