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Splendor


Regia:Scola Ettore

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura
: Ettore Scola; fotografia: Luciano Tovoli; musica: Armando Trovajoli; montaggio: Franco Malvestito; scenografia: Luciano Ricceri; costumi: Gabriella Pescucci; interpreti: Marcello Mastroianni (Jordan), Massimo Troisi (Luigi), Marina Vlady (Chantal), Paolo Panelli (Sor Paolo), Pamela Villoresi (Eugenia); produzione: Mario e Vittorio Cocchi Gori, per Cocchi Gori Group Tiger Cinematografica/Studio E.L./Gaumont/Rai; distribuzione: Warner Bross; origine: Italia/Francia,1989; durata: 115'.

Trama:Nella platea vuota dello Splendor, gloriosa sala cinematografica di una città di provincia, tre personaggi - il proprietario, il proiezionista e la maschera - guardano sconsolati verso lo schermo bianco e brindano alla memoria del locale. Lo Splendor sta per chiudere. Colpa dei tempi, della crisi del cinema, della fuga del pubblico. In flashback, secondo un voluto disordine cronologico, il proprietario Jordan rievoca i momenti salienti della vita della sala, legati ognuno ad una particolare stagione della storia del cinema. Frammenti della vita dei personaggi si mescolano a sequenze di celebri film, mentre il sentimento prevalente è la malinconia. Poi, quando già gli operai stanno schiodando le poltroncine della platea, avviene il miracolo: la gente torna al cinema decisa a salvarlo, mentre sullo schermo passano le immagini de "La vita è meravigliosa" di Frank Capra.

Critica (1):Nel finale di Splendor, il personaggio interpretato da Marcello Mastroianni assomiglia singolarmente a Scola. È il suo alter ego, anche dal punto di vista fisico. Dettaglio non da poco! Una volta tanto, la dichiarata proiezione infradiegetica del punto di vista "autoriale", il trasformarsi dell'autore in personaggio, hanno il valore di indizi preziosi: ci aiutano, quanto meno, a capire cosa non funziona nel film. Cosa lo rende freddo e manierato. Cosa ha di diverso - in più e in meno - rispetto al cinema di Scola che tutti abbiamo amato, da Una giornata particolare a La famiglia.
Splendor non è !a commossa e nostalgica rievocazione di cinquant'anni di storia del cinema dal punto di vista del gestore di una sala, bensì dal punto di vista di come i gestori avrebbero dovuto essere secondo un Autore. Nel suo ultimo film Scola indossa infatti una di quelle maschere autoriali che tanto piacciono ai francesi. Lo fa per mettersi a pontificare senza ritegno intorno a quella che gli pare ormai irrimediabilmente un'invenzione senza futuro. E per concedersi l'ebbrezza di fare un film che è poco più che una "carte bianche a ...", o un Monumento al cinema che Scola (assieme alla sua generazione) ha da sempre amato.
Ma proprio questo è il punto: sullo schermo dello Splendor, in una voluta confusione fra Storia e Memoria, scorrono soltanto i frammenti di un certo cinema: il neorealismo e la commedia all'italiana, Tati e Bergman, i russi e i francesi, ma non gli americani, non i B-movies, non i generi "bassi" (all'horror, tanto per fare un esempio, é dedicata una battuta che é poco meno che un vade retro). Nella sua "faziosità", l'operazione poteva anche essere legittima e suggestiva: solo che la faziosità andava, appunto, riconosciuta e dichiarata, esposta, assunta come esplicito grimaldello per penetrare tra i "fantasmi" del film. Invece no.
Scola punta dritto alla Storia, ambisce alla esemplarità, pretende, di trasformare il suo locale di provincia in uno specimen di tutte le sale cinematografiche italiane. E allora sbaglia. Per troppo amore, probabilmente, sbaglia. Assunti i panni della vestale dei cine-riti, si mette ad officiare la più prevedibile delle cerimonie funebri. Con tanto di lamentosa omelia. Il cinema é morto, o sta morendo. Che peccato. Com'erano belli i tempi in cui la magia del grande schermo incantava grandi e piccoli, mescolando le ruote dentate di Metropolis di Fritz Lang con le note della "Marcia trionfale" dell'Aida. Ora le cose non vanno più così, le sale si vuotano e del cinema non importa più nulla a nessuno.
Di fronte a questa "cronaca di una morte annunciata", sembra dire Scola, non ci resta davvero che piangere. O rimpiangere i tempi in cui il cinema era grande e noi eravamo tutti più giovani. Dove sta l'errore? Nel fatto che la crisi del cinema si
combatte - come lo stesso Scola, tra gli altri, ci ha insegnato - facendo buoni film, non piangendosi addosso con l'alibi del rimpianto del buon tempo antico. Con La famiglia Scola aveva cercato, appunto, di reagire. Con Splendor, invece, cessa di interrogarsi sui motivi che inducono il pubblico a disertare le sale, accontentandosi di intingere il fazzoletto nelle lacrime calde e rassicuranti della nostalgia. Splendor vorrebbe evocare la magia della sala e invece trasforma il Cinema in Museo, la Sala in Tempio, la Visione in Liturgia, la Memoria in Malinconia. Più che un "amarcord" in versione cinéphile, è un album di figurine passato in rassegna con lo sguardo frigido di chi ha cessato di credere al loro incanto. Se invece di affidare la parte del protagonista a Mastroianni - qui più che mai davvero solo distratta guest star - Scola avesse avuto il coraggio e l'impudenza di mettersi in scena di persona (un po' come, poniamo, il Pasolini della “trilogia della vita”), Splendor sarebbe stato probabilmente un brutto film importante, una spudorata presa di posizione, una dichiarazione d'amore. Così è soltanto un canto funebre lamentoso ed autocommiserante, che celebra le esequie (del cinema) prima ancora che sia certificato il decesso. A nulla vale il surrettizio e natalizio miracolino finale.
Gianni Canova, Segno cinema n. 37, marzo 1989

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
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