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Walk Over - Walkower


Regia:Skolimowski Jerzy

Cast e credits:
Sceneggiatura: Jerzy Skolimowski; fotografia: Antoni Nurzynski; musiche: Andrzej Trzaskowski; montaggio: Jerzy Skolimowski, Alina Falik; interpreti: Jerzy Skolimowski (Andrzej Leszczyc), Aleksandra Sazieruszanka (Teresa), Franciszek Pieczka (Attivista), Tadeusz Kondrat (Il Vecchio), Henryk Kluba (Rogala), Joanna Jedlewska (Sostenitrice Proget.), Andrey Herder (Pawlak), Elzbieta Czyzewska (La Suicida), Krzysztof Chamiec (Il Direttore), Stanislaw Zaczyk (Il Prete); produzione: Gruppo Syrena; distribuzione: Movies Inspired; origine: Polonia, 1965; durata: 78’.

Trama:Andrzej Leszczyc ha ormai trent'anni. Si guadagna da vivere disputando incontri di pugilato in provincia. Il treno sul quale sta viaggiando è costretto a fermarsi alla stazione di Plock perché una ragazza si è suicidata buttandosi in mezzo alle rotaie. Sul binario riconosce Teresa, la studendessa che dieci anni prima aveva causato la sua espulsione dall'università. La donna è lì per sottoporre ai responsabili il progetto per la nuova chiesa. Andrzej decide di interrompere il viaggio per salutarla e poi accompagnarla all'appuntamento nel nuovo complesso industriale della cittadina.
Qui Teresa lo presenta al direttore, che affabilmente gli offre un lavoro di sorvegliante tecnico. Ma Andrzej è molto indeciso: dovrebbe riprendere gli studi. Quando però fa la conoscenza di Rogala, l'allenatore di pugilato, acconsente a partecipare al torneo locale. Vince facilmente il primo incontro col camionista Maniek. Poi, siccome i disegni di Teresa non vengono accettati e nel timore che il successivo match possa essere troppo difficile, insieme alla donna lascia Plock in treno. Maniek li rincorre in moto. Lui si convince a tornare, per combattere ancora una volta. Teresa, invece, non scende. Andrzej la guarda allontanarsi.
Quando tutto è pronto per il combattimento, proprio mentre Leszczyc sale sul ring, viene comunicato che egli ha vinto per Walk over: l'avversario Wielgosz non si è presentato. Dopo che il vincitore ha ritirato il premio (un orologio e una radio), Wielgosz, nella sala vuota, pretende la sua parte sostenendo che l'allenatore l'ha corrotto per farlo perdere. Andrzej rifiuta e, in una sfida finale, subisce una dura sconfitta.

Critica (1):Come arrivò a realizzare Walkower?
Andò tutto molto liscio. Come se la dose di energia che io emanavo si fosse trasmessa agli altri. La sceneggiatura di Walkower fu scritta in pochi giorni. Quando la portai alla prima commissione la respinsero, mi pare, ma se ne riunì immediatamente un'altra. Qualcuno aveva protestato e detto che il film si doveva fare.
In pratica, pur essendo ancora uno studente, avevo uno sceneggiatura approvata, da realizzare nel cinema professionale. Forse mi aiutò l'etichetta di nemico del «sistema».

È di quegli anni il famoso discorso in cui Gomulka bollò gli scontenti e le «cassandre» presenti nella cultura polacca. Ce ne fu anche per lei.
Ma non posso lamentarmi. In un certo senso il mio prestigio ne fu accresciuto. Quell'etichetta fece probabilmente sì che tante brave persone, responsabili della produzione, mi dessero una mano. Sono sicuro che personaggi come Wohl o il professor Bossak fecero molto per far accelerare la mia carriera. Persino chi tentava di nuocermi mi usava rispetto, come se impersonassi una categoria da non ignorare.

Perché interpretò di persona i suoi film? Credo sia più difficile fare il regista e nello stesso tempo recitare in un proprio film.
Probabilmente sì. Ma non avevo scelta. A scuola girai lo stesso film per vari anni. Non potevo trovare un attore che fosse sempre a mia disposizione. Gli attori professionisti hanno i propri impegni e inoltre cambiano aspetto, ora si fanno crescere i baffi, ora se li tagliano, cambiano capigliatura ecc. Con loro è facile bisticciare. Semplice studente, non ero in grado di retribuirne le prestazioni. Fu un film realizzato praticamente gratis, col solo rimborso delle spese di viaggio.

Questo in Rysopis. Invece in Walkower?
In Walkower volevo continuare lo stesso personaggio. Questo per prima cosa. Secondo, non mi sentivo in condizione di dirigere un attore per tutto un film. Non avevo esperienza. E poi la boxe. La boxe non si può recitare, si deve sapere come muoversi sul ring. Con la mia concezione delle inquadrature lunghe si sente che non c'è finzione. Il combattimento pugilistico è ripreso per intero senza tagli. Per fortuna anche il mio antagonista, Andrzej Herder, aveva praticato la boxe e prima del film ci allenammo ancora.
Dall'interprete principale pretendevo che sapesse tirare di boxe e non ci fosse bisogno di parlargli molto. Scritturare... me stesso fu la soluzione più semplice. Comunque in tutto questo si può anche cogliere una certa dose di megalomania.

Di solito, quando un regista recita di persona in un film, la sua opera si considera una sorta di confessione. Lei, invece, nega in maniera assoluta questa classificazione: quei film non sono espressione di tutta la sua personalità, non svelano completamente la sua anima.
Lungi da me un'idea simile. Persino nelle mie poesie ho usato un codice sui generis, si è trattato di mimesi estetiche. Non ho mai scritto cose tali da provare pudore, o da svelare me stesso oltre un certo limite. Lo stesso nei film. Quel personaggio non ero certo io. Così come Michael York non è me in Success is the Best Revenge. Ho fatto di tutto per metterlo alla berlina. Volevo fornire il ritratto di un artista polacco all'estero nei suoi caratteri essenziali. Se gli ho attribuito alcuni dei miei tratti è per aumentare la veridicità del personaggio, non perché mi rappresentasse.
È comunque difficile stabilire quanto fosse consapevole da parte mia – e quali conseguenze abbia comportato – l'uso nei miei film di elementi autobiografici. Una cosa è certa, però. Non ho cercato di fare il mio autoritratto. Se avessi voluto farlo, mi sarei spinto oltre, mentre mi pare di essere stato molto contenuto nello svelare l'intimità dei miei protagonisti. È per questo che sono interessanti, enigmatici, si può speculare su di loro.

Ha ricordato di aver avuto paura di dirigere un attore. Aveva fatto qualche esperienza sul set, magari come assistente di altri registi?.
Ho cominciato subito dopo la scuola, quindi non c'era tempo di fare la minima esperienza. Non ho fatto l'assistente. Sul set c'ero stato perché avevo scritto dei reportage per la stampa specializzata (ero andato a Wroclaw, dove Stanislaw Rózewicz stava girando Gios z tamtego Swiata (La voce dall'altro mondo). Poi la partecipazione a Ingenui perversi, dove ho fatto anche l'attore. Sul set di Il coltello nell'acqua non ci andai nemmeno. Ah, sì, ero stato sul set di Eroica di Munk, quando girava delle scene a Zakopane che poi non vennero incluse nel film. Insomma, avevo conosciuto il set professionale, ma si era trattato sempre di poche ore, non di lavoro vero.
Lavorare a Walkower significò brancolare nel buio più completo. E poi quella mia mania delle inquadrature lunghe che nessuno adottava nel cinema polacco... e penso che anche nel cinema mondiale fossero piuttosto inconsuete.

In Ungheria c'era anche Miklos Jancsó...
Sì, ma era tutta un'altra cosa. Lui faceva un balletto. Io facevo lunghe carrellate mozzafiato lungo sentieri impervi, sui padiglioni delle fabbriche. In Walkower la macchina da presa si spostava in modo davvero stupefacente. Riconosco che oggi non metterei altrettanto impegno per fare certe cose. L'esperienza insegna che comunque lo spettatore non si rende conto di dove c'è un taglio e dove no. Solo per la soddisfazione di azionare la macchina da presa per per otto minuti di seguito, ad esempio, non ha senso fare riprese così spericolate. Ma all'epoca mi affascinava farlo. E, naturalmente, ebbi subito contro l'intera troupe della fotografia, venni bollato come eccentrico o dilettante.
Sul set ero solo. Già, i burocrati... Quei rapporti erano tragici. Se il direttore della produzione scriveva: «numero delle scene girate un dato
giorno: una», i burocrati che leggevano dovevano strapparsi i capelli dalla testa. Non sapevo come si facesse un film da professionista. Il fatto che avessi girato un lungometraggio a scuola non voleva dire che conoscessi l'argomento. (...)
"Segni particolari", intervista a Jerzy Skolimowski di Jerzy Uszynski, in Jerzy Skolimowski, a cura di Malgorzata Furdal e Roberto Turigliatto, Lindau, 1996.

Critica (2):Walkower può essere considerato la seconda parte di Rysopis. Vi ricompare lo stesso Skolimowski nella parte del trentenne Andrzej, reduce dal servizio militare. Vi balena anche la presenza della Ragazza di Rysopis. La vediamo alla stazione, poco prima del suo salto suicida sotto le ruote di un locomotore. Nella stessa stazione sosta il treno su cui viaggia Andrzej. Vede da un finestrino la sua collega di corso Teresa e decide di scendere. Conosceva la Ragazza che si è tolta la vita? Sul finire del film, quando nella stessa sala d'attesa della stazione un Giovane sconosciuto ammanettato gli porge la fotografia di lei, Andrzej gliela restituisce senza parole... Restiamo, dunque, nella sfera delle supposizioni.
Skolimowski lascia la questione insoluta. Andrzej di Walkower può essere come può non essere il Leszczyc di Rysopis. Sul suo conto, infatti, apprendiamo parecchie novità. Non ha finito ingegneria, si occupa di pugilato, e gira le città prendendo parte «a incontri di pugili debuttanti», facendo incetta di premi sotto forma di radio a transistor e orologi. In sostanza poco importa. Skolimowski, in piena consapevolezza, dà vita a un personaggio simile a migliaia di suoi coetanei, poco caratterizzato rispetto a loro. Una «normalità» che non distingue solo il criterio del personaggio nella sceneggiatura, ma anche l'interpretazione di Skolimowski come attore, che si avvale di movenze, di gesti, di un frasario molto tipici e comuni. Un po' come accade nel ricostruire la presunta fisionomia di un criminale in base agli elementi dell'identikit (in polacco rysopis, appunto) forniti dai testimoni. Non servirebbe nemmeno parlare, qui, di interpretazione drammatica. Come gli attori dei film di Jean-Luc Godard, sullo schermo Skolimowski rimane sempre se stesso, riuscendo però a dare al suo essere assolutamente naturale e comune, la valenza della tipicità.
Ma se nel passaggio da film a film il protagonista non è mutato nella sostanza, una trasformazione radicale l'ha subita il paesaggio. In Rysopis Andrzej Leszczyc si muoveva sullo sfondo di una vecchia, ordinata, banale città. Walkower, invece, è ambientato nel cantiere di un kombinat, un complesso industriale petrolchimico. Un mutamento di luogo molto importante: non più una città «preconfezionata», organizzata, in cui ci si può ricavare, al massimo, un cantuccio abbastanza confortevole. Qui è l'opposto: Andrzej è testimone dell'agonia dell'antica cittadina, ora percorsa da gigantesche ruspe simili a mostri antidiluviani e al cui orizzonte stanno spuntando colossali strutture in cemento armato. Muore il piccolo, vecchio mondo di provincia, nasce il nuovo ordine della grande industria anche se, al momento, è soltanto un preannuncio, un abbozzo. Il protagonista vede intorno a sé una terra solcata, edifici in costruzione e gente infervorata, trafelata, pilotata da direttive cui è difficile risalire. Ciò che vede dal di fuori è il caos.
Come non cogliere una certa analogia tra la frattura interiore, lo «spezzettamento» del protagonista, poco consapevole della meta cui tendere nella vita, e quel mondo intorno a lui, stravolto alla radice? E se in Rysopis s'era vista la repulsione di Andrzej Leszczyc per la città, un senso crescente di alienazione ed emarginazione al suo interno, in Walkower assistiamo a un processo antitetico. Benché all'inizio stenti ad ammetterlo, la dimensione del grande cantiere affascina il protagonista. Per tutta la durata del film, egli vagabonda da un luogo all'altro pensando sempre di tornare a riprendere il suo bagaglio dal deposito della stazione e salire sul treno, ma ci rendiamo conto che, con il passare del tempo, il suo entusiasmo per il viaggio si affievolisce. Leggendo tra le righe – o, se vogliamo, tra i fotogrammi –, cogliamo l'interrogativo che lo stesso Andrzej si pone: «E se avessi trovato qui il mio posto?»
Naturalmente Jerzy Skolimowski è un regista moderno, che disdegna le soluzioni narrative pure. Se Andrzej rimarrà infine nel kombinat non lo dovremo alla piega opportuna data all'intreccio da sapienti sceneggiatori. Walkower si compone di situazioni liberamente collegate fra loro, il suo impianto è forse ancora più disinvolto rispetto a Rysopis, dove la partenza rappresentava una necessità su cui il protagonista non poteva incidere, mentre qui tutto è in balia del suo capriccio. Può scendere alla stazione come può benissimo continuare il percorso. Può rimanere, come può in qualsiasi momento ripartire: le sue cose lo attendono al deposito bagagli. Può prendere parte al «debutto» pugilistico cui si è iscritto quasi per abitudine, ma nulla cambierebbe se rinunciasse all'incontro.
Per tutto il film, fino alla salita sul ring, Andrzej è un estraneo, vaga per la città e il kombinat, guarda, osserva. Ha deciso di accompagnare la sua collega di corso, Teresa, che dovrà assumere un'importante carica sul posto. Insieme a lei va dal direttore, visita un condominio. Non coinvolto in prima persona, vede tutto disegnato a tinte più nette, più intense. Il mondo intorno a lui si trasforma in una visione fantasmagorica. In Walkower Jerzy Skolimowski ha dato straordinaria intensità al secondo piano. È difficile indicare anche una sola inquadratura in cui, alle spalle del protagonista, non accada qualcosa perlomeno di insolito, oltre l'ordine naturale delle cose. Andrzej è passivo e mediocre, mentre la realtà che lo circonda pare aggredirlo, colpirlo con i contrasti, con l'inopinata composizione degli oggetti, con le strutture metalliche che precipitano oltre la finestra dello studio del direttore, fragorosa annunciazione della fine del mondo; le ballerine che studiano i passi sul terrazzo del caffè; il crocefisso sradicato da terra al bivio della strada; il bizzarro vecchietto che porge al cane la torta di compleanno con le candeline.
Skolimowski è un regista dotato di senso dell'umorismo e molte delle sue inquadrature «strane» hanno trovato posto nel film soltanto perché, tra varie soluzioni, quella gli suggeriva il suo spirito di contraddizione nei confronti dello spettatore e degli stessi critici. Come negare, poi, che a tratti la frenesia, l'eccessiva intensità del secondo piano risultino fastidiose, di maniera? In Walkower, come nei film di Antonioni, vi è l'interferenza, la compenetrazione reciproca della psicologia del protagonista e della realtà, dissolta in singoli sketch miniaturizzati e situazioni improbabili. Una
«compenetrazione» assolutamente staccata dall'intreccio, dalla logica drammatica delle singole scene. Andrzej «sta al fianco», è un «accompagnatore». Eppure, se alla fine del film decide di scendere dal treno, dobbiamo cogliervi un significato. «Restare nel kombinat», proprio perché quella realtà lo ha già battuto, sconfitto. Perciò la conclusione ottimistica di Walkower non risulta inattesa, né artificiosa. E merita particolare attenzione.
In questo film estetizzante, con inquadrature di grande effetto dal punto di vista plastico e compositivo, in questo film accusato di «formalismo» ci imbattiamo in un genere di ottimismo oggi demodé, quell'ottimismo che trova la sua giustificazione nei sentimenti di amicizia, di solidarietà o, semplicemente, nella presenza consapevole dell'altro. Fino alla fine del film, nonostante l'attrazione esercitata dall'ambiente, Andrzej rimane un individuo sospeso nel vuoto, non coinvolto, incapace di prendere una decisione. Ecco, però, qualcuno che lo aiuta a farlo, un giovane operaio, Pawlak. È lui a rincorrere in motocicletta il treno di Andrzej. Stenta a capire come si faccia a rinunciare a un «debutto» pugilistico. (...)
Konrad Eberhardt, “L’uomo con la valigia”, in Jerzy Skolimowski, a cura di Malgorzata Furdal e Roberto Turigliatto, Lindau, 1996.

Critica (3):Walk over è la "continuazione" del film precedente, con un volto di donna, un treno e lo stesso regista che impersona Andrzej sei anni dopo. In questo periodo egli ha fatto il servizio militare, ha perso le illusioni, ha interrotto gli studi, non ha un lavoro né alcuna prospettiva per il futuro. È un personaggio anonimo che non manifesta slanci particolari, ma solo smarrimento e apatia. Va alla deriva, non ha uno scopo perché non vuole averlo, è uno sbandato che tira a sopravvivere peregrinando per il paese e partecipando, quando capita, a qualche incontro di pugilato che rispecchia la lotta come espressione della sua negatività, del suo disincantato sradicamento sociale e soprattutto di una interiore noia generazionale. Sentimento questo che in Skolimowski viene dagli anni di Lodz e dall'esperienza poetica: molto spesso nel film si ripetono i versi «Quando egli avrà ucciso gli anni, o disprezzato la giovinezza e l'amore, la gola serrata, vorrà rifare tutto e non rifarà che il nodo della sua cravatta». E un leitmotiv; un'autocitazione che l'autore considera una specie di talismano, una profezia nella quale è racchiuso il senso della sua vita e dei suoi film.
La noia è anche l'elemento che affranca il personaggio dall'identificazione meccanica col regista. Quella noia è una diffusa condizione di vita, un modo di sentire e di agire che esprime le stesse caratteristiche descritte da Lino Micciché a proposito dell'autobiografismo dell'autore. Che non è da intendersi «come una macroscopia del soggettivo, quanto piuttosto come una volontaria eliminazione dei processi di intermediazione narrativa a vantaggio di una più profonda sincerità problematica e di una più immediata pertinenza linguistica: si tratta cioè di un autobiografismo generazionale e non personale, tramite il quale il regista descrive l'urto con la realtà dei giovani divenuti adulti quando dell'ottobre polacco non restavano che le ceneri ed un'impotente rassegnazione caratterizzava quelli che, almeno a livello intellettuale, ne erano stati protagonisti» (Il nuovo cinema degli anni '60, ERI, Torino, 1972. p. 55).
Il protagonista è dunque in fuga dai grandi ideali che sembravano diamanti e che invece si polverizzeranno nel gesso del vagone di Mani in alto!. Una fuga dalle buone intenzioni naufragate e calpestate da una società non utopica e già pianificata. Ma rimanere ai margini delle cose, limitarsi a fuggire passivamente, non appartiene alla personalità dell'egocentrico Skolimowski, che colma il nulla dell'esistenza di Andrzej con l'idea forte di combattere sul ring in mancanza d'altro: un disperato tentativo di trovare in se stesso le ragioni di una libertà che sembra non esistere, di uno scontro fisico diretto e non ideologico. Il solo mezzo che possa fargli ritrovare un filo conduttore, la forza di dimostrare il talento, la vitalità in opposizione al vuoto. Come se «questo dinamismo fosse l'ultima trincea della vita, la sola manifestazione ancora umana che gli permetta di sfuggire alla catastrofe del silenzio. Allora, certamente, tutto precipita, si confonde: anni, visi e percorsi si accavallano così confusamente che non si sa più bene dove cominciare la storia e come raccontarla» (André Téchiné, Traces à venir, «Cahiers du Cinéma», 178, maggio 1966). (...)
«Se tutti fuggono - ha detto Skolimowski - il più coraggioso è quello che fugge per ultimo. O quello che ritorna». (Intervista, «Jeune Cinéma», 8, giugnoluglio 1965). Così la seconda avventura di Leszczyc è centrata proprio sulla sequenza che lo vede scendere dal treno in corsa per tornare a combattere in un incontro che sa problematico (l'avversario è forte) e che forse perderà, ma al quale non può sottrarsi, pena la resa incondizionata, l'ammissione definitiva che in lui non è rimasto altro che una tasca piena di orologi a segnare un simbolico tempo morto.
La fine della gioventù e una morte "vera" aprono Walk over. Vediamo la figura della ragazza (Elzbieta Czyzewska, l'ex prima moglie del regista) che con un suicidio non spiegato fa da scena di raccordo con il personaggio di Barbara (la stessa attrice), l'ultima a salutare Andrzej nel finale di Segni particolari. È un richiamo al passato che introduce il protagonista nel presente del film - la zoomata su di lui nel finestrino - e che si prolunga con il controcampo dell'incon
tro con Teresa ancora confuso nella memoria («Cristina... Barbara», sono le sue prime parole).
Il legame è rotto dal suicidio (ma l'immagine della ragazza tornerà alla mente di Andrzej alla fine). È un legame che però si ricrea perché Teresa anni addietro – la cronologia rispetto al film precedente è significativamente incoerente, dunque irrilevante – era stata una delle cause della sua cacciata dall'università come «nemico del popolo». Fin da ora, decidendo di accompagnarla – o meglio, trascinandosi per tutta la giornata dietro a lei – sa che dovrà fare i conti con tutto ciò che è stato e che sente di conoscere (un sottile odio nei suoi confronti), mentre è demotivato per il nuovo (il complesso industriale). Non accetta di lavorare. Il militare che dice di essere stato ferito durante l'insurrezione, in realtà lo era da molto prima: il prete che è tale solo perché voleva vivere in salvo fino alla fine della guerra e che, tuttavia, sembra ancora viverci dentro; l'operaio che porta a pascolare la capra nei luoghi della fabbrica, «ma non nell'orario di lavoro»: Andrzej vive tutto questo con distacco, come in un copione già visto. Vive come in uno dei tanti ring senza importanza sui quali sale di quando in quando per vincere senza sforzo in mezzo a un pubblico che non conta e che gli può far credere di essere un eroe. Come quando abbandona il campo dopo la prima vittoria di routine, per paura di perdere. Ma Skolimowski non si identifica con Andrzej. Anzi, in un certo senso, è il pugile antagonista che l'aspetta all'altro angolo, è colui che non gli dà requie, che «si leva contro tutti e contro tutto, si tratti di lottare per la vita o per qualcos'altro, unicamente per lottare e, anche se non si ha alcuna speranza, per vincere» («Jeune Cinéma», cit.).
Fabrizio Borin, Jerzy Skolimowski, Il Castoro cinema, 1-2/1987

Critica (4):
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