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Uomo che amava le donne (L') - Homme qui aimait les femmes (L’)


Regia:Truffaut François

Cast e credits:
Soggetto: Michel Fermaud, Suzanne Schiffman, François Truffaut; sceneggiatura: Michel Fermaud, Suzanne Schiffman, François Truffaut; fotografia: Nestor Almendros; musiche: Maurice Jaubert; montaggio: Martine Barraque Curie; scenografia: Jean-Pierre Kohut-Svelko; interpreti: Nella Barbier (Liliane), Nathalie Baye (Martine Desdoits), Valérie Bonnier (Fabienne), Nelly Borgeaud (Delphine Grezel), Leslie Caron (Véra), Martine Chassaing (Denise), Jean Dasté (Dottor Bicard), Charles Denner (Bertrand Morane), Monique Dury (Mme Duteil), Brigitte Fossey (Genevieve Bigey); produzione: Films Du Carrosse Prod. Art. Ass.; distribuzione: Medusa Distribuzione; origine: Francia, 1977; durata: 118’.

Trama:Bertrand Morane, impeccabile ingegnere di Montpellier, quando stacca alla sera diviene irreperibile per tutti coloro che lo conoscono professionalmente o che, in un certo senso, gli sono amici. Infatti, le sue sere sono dedicate alle donne per le quali ha una insopprimibile attrattiva. Se lo colpiscono, egli le segue; inventa scuse per avvicinarle e per stare con loro. La sua collezione è interminabile: Delphine, Hèlène, Martine, Bernadette, Fabienne, Denise, Nicole, Uta, Liliane, Juliette, Vera... Eppure non è né un play-boy, né un casanova o un dongiovanni. Un giorno, quasi per parlare con se stesso, fissa le sue memorie in uno scritto che qualcuno gli consiglia di far pubblicare. Un editore, grazie alle intuizioni della acuta Geneviève, accetta l’impresa. Bertrand non conosce ancora il volto di Aurora, la telefonista che lo chiama ogni mattina e che più di ogni altra è penetrata nei suoi segreti, quando una sera, alla vigilia del Natale ’76, distratto da una donna, attraversa maldestramente la strada e viene investito. La serie delle "sue donne" sfila accanto alla tomba ancora aperta.

Critica (1):Ci sono film dove uno parte da zero, non con una storia, ma con un concetto, un personaggio. L’uomo che amava le donne in un primo tempo si intitolava Le Cavaleur (Lo stallone) e in segreto, nella mia mente, lo mettevo nella categoria dei film sui criminali, sugli uomini che uccidono le donne. Mi dicevo, "Sarà lo stesso, solo che non le uccide". Il mio quadro di riferimenti era una serie di film da L’ombra del dubbio a Monsieur Verdoux, da Infedelmente tua a Estasi di un delitto. Per me questi sono film che si influenzano tra di loro. Ho cercato di non essere poetico. Ho voluto che il protagonista facesse l’ingegnere e che parlasse di donne da un punto di vista scientifico. Avevo in mente Howard Hughes, che ha scritto un famoso promemoria sul modo in cui doveva essere costruito il busto di Jane Russel in Il mio corpo ti scalderà: parla di questo busto con una precisione incredibile, come se si trattasse del motore di un aeroplano.
Anche se a volte si comporta in modo odioso, Bertrand conserva un grande fascino. Mi ero sbagliato in La calda amante ad affidare un personaggio ingrato a un attore bravo ma privo di fascino (Michel Bouquet sarebbe stato l’ideale per quella parte). Invece di sostenere il personaggio l’avevo soffocato. In questo film, al contrario, l’aria scontrosa e un po’ selvatica di Denner funziona benissimo.
Il tema del dongiovannismo non bastava. Mi sono finalmente deciso a fare il film quando ho pensato che Bertrand avrebbe potuto scrivere un libro e che allora avrei inserito un secondo tema parallelo. Probabilmente, siccome Charles Denner non si confida con nessuno, sapevo che avrei usato la sua voce fuori campo (adoro la voce di Denner), e, dovendo esserci un commento, questo sarebbe stato meno arbitrario se fosse apparso come il testo del romanzo di Bertrand.
Mi interessava presentare un uomo veramente solo. Amo molto Pickpocket di Bresson e L’inquilino del terzo piano di Polanski, ma in questi film il mio piacere diminuiva ogni volta che il protagonista si confidava con un amico. Ho pensato che avrei dovuto essere io, spettatore, l’unico amico del personaggio principale. Ci sono molte cose improvvisate. Per esempio qualcuno a Montpellier mi aveva indicato un bambino molto somigliante a Charles Denner, di conseguenza ho aggiunto dei dettagli sull’infanzia di Bertrand Morane che non erano previsti inizialmente nella storia.
Dopo Adèle H. un altro monomaniaco e un’altra scommessa estetica: raccontare la carriera di un libertino senza volgarità o sensi di colpa.
Come il Perdicca di Leo Pestelli, che pedinava le donne solo per paragonarle ai suoi modelli letterari, anche questo Morane è un petrarchiano moderno, un anacoreta dell’erotismo: sembra che per lui il sesso sia soltanto un supplemento tattile della contemplazione. Non c’è monotonia nei suoi successi galanti, infatti Morane ha uno stile. Infaticabile ma selettivo, non inganna sulle intenzioni, si congeda tempestivamente, subisce le sconfitte senza scomporsi, rivela con umorismo il suo lato infantile,... in lui colpisce soprattutto l’aria sempre tesa, febbrile, quasi mistica, come di chi è segretamente guidato da una vocazione.
Il fatto poi che le conquiste vengano rievocate al suo funerale e diventino argomento di un romanzo autobiografico, dà un’impronta quasi sacrale al catalogo amoroso.
Se le immagini sono caste, l’oscenità è nel ritmo, nel moltiplicarsi frenetico delle seduzioni (di alcune si vede solo l’inizio, di altre la fine, altre ancora vengono ritoccate prima di passare sulla pagina). E dal ritmo nasce il senso: la vertiginosa varietà delle donne come sintomo di curiosità, una dote che il letterato e il libertino hanno in comune. Nemmeno il ricorso abusivo alla psicanalisi (il seduttore sembra vendicarsi di una madre distratta) riesce a turbare questo clima di ascesi laica.
Oreste De Fornari, François Truffaut, Gremese Editore, 1986

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
François Truffaut
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