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Madadayo - il compleanno - Madadayo


Regia:Kurosawa Akira

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura
: Kurosawa Akira (basati sulle opere letterarie di Uchida Hyakken); fotografia: Saito Takao, Ueda Masaharu; montaggio: Kurosawa Akira; musica: Ikebe Shinichiro (e Vivaldi); scenografia: Muraki Yoshiro; costumi: Kurosawa Kazuko; luci: Snao Takeji; suono: Nishizaki Hideo; consulente alla regia: Honda Ishiro; interpreti: Matsumura Tatsuo (il professore), Kagawa Kyoko (sua moglie), Igawa Hisashi (Takayama, il primo allievo), Tokoro George (Amaki, il secondo allievo), Yui Masayuki (il terzo allievo), Terao Akira (il quarto allievo), Kobayashi Asei, Kusaka Takeshi, Hirata Mitsuru, Zushi Takao, Okamoto Nobuto, Watanabe Tetsu (altri allievi); produzione: Daiei Co., Dentsu Inc., Kurosawa Production; distribuzione: Warner Bros; origine: Giappone, 1993; durata: 134'.

Trama:Nel 1943, dopo trent’anni di insegnamento della lingua tedesca, il professore Uchida annuncia ai suoi allievi che abbandona l’Università per consacrarsi alla carriera di scrittore. Uchida si sistema in una casa, in cui si difende dai ladri in maniera burlesca ma ingegnosa, come possono constatare Takayama e Amaki, i suoi allievi più fedeli. Al compimento del sessantesimo anno d’età, Uchida riceve in casa i suoi allievi più fidati, offendo loro cibi e bevande: la esta risulta molto vivace. La casa è distrutta da un bombardamento alleato. Tutto viene bruciato: le uniche cose che rimangono a lui e alla moglie sono un uccellino bianco nella sua gabbietta e il libro preferito, Hojoki di Kamono-Chomei. I due coniugi si trasferiscono in una capanna ceduta dal proprietario di un palazzo, distrutto dal fuoco. Nel 1945, con gli americani sul suolo giapponese, gli allievi si tassano per costruire al professore una casa più confortevole. Uchida ottiene che la casa sia circondata da un laghetto fatto a ciambella. Le stagioni si succedono. Al compimento del 61° compleanno Uchida si reca, vestito di tutto punto, in un ristorante, invitato dai suoi allievi.Si celebra il primo “Madadayo”. Egli stesso ne spiega il significato: nei giochi dei bambini colui che si nascondeva rispondeva “Madadayo” (Non ancora) agli altri che lo cercavano domandandogli “Mo-ii-kai?” (Sei pronto). Questo “Non ancora” assume ora il valore di fiera negazione alla domanda “Sei pronto a morire?”. Al fianco, Uchida ha il suo medico e un allievo diventato prete buddista. A turno, tutti fanno un discorso; si cantano canzoni e si beve. Un giorno il gatto randagio adottato dal professore scompare. Affranto, il professore non mangia e non dorme, piange e si dispera. Dopo falsi ritrovamenti, Uchida deve rassegnarsi: ma poi la moglie accoglie un altro gatto randagio e questi sostituisce a poco a poco il felino tanto rimpianto. Come riconosce lo stesso professore, l’affetto dei suoi allievi l’ha salvato dalla disperazione. Nel 1966 si celebra la festa del “17° Wadadayo” per il compimento dei settantasette anni di vita di Uchida. Nel ristorante sono convenuti, oltre gli allievi, anche i loro figli e nipoti. La festa si svolge con la solita allegria seguendo le tradizioni (che impongono per es. al professore di trangugiare d’un fiato un grosso boccale di birra), ma il protagonista dell’incontro si sente male, accusa un attacco di aritmia: rassicura però tutti quanti ed è accompagnato a casa. Qui si addormenta e sogna il gioco dei bambini: “Mo-ii-kai”. “Madadayo”!

Critica (1):Trentesimo film, cinquantesimo anniversario della sua carriera di regista, 83 anni. Kurosawa non si mette in pensione, ha stupito tutti per l’energia con cui ha diretto Madadayo, tornando a lavorare per l’occasione con la Daiei, quella di Rashomon. Lungi dall’essere un film-testamento, l’ultima fatica del Nostro prelude ad altri progetti, ad altre imprese prodotte finalmente con iniziative giapponesi, dopo il ricorso a méntori illuminati di altre latitudini. (...) Madadayo ha avuto accoglienze contrastanti: c’è chi è convinto che sia il vertice di questo regista e c’è chi afferma a chiare note che Kurosawa si è bevuto il cervello. È un fatto che questo gran creatore di immagini di straordinario valore figurativo e di contenuti “forti” qui ha spiazzato tutti con un racconto fragile, nei modi dell’elegia, addirittura flebile. Nello stesso tempo l’autore sembra prendersi gioco dello spettatore, non fornendogli per esempio notizie sul suo personaggio, realmente esistito (l’eccezionalità del Maestro è data per scontata, il nostro bisogno di razionalità è disatteso) e dedicando la parte centrale del film, ben 45 minuti, alla sparizione di un gatto. Kurosawa nega di aver voluto fare dell’autobiografia indiretta, nel portare sullo schermo la figura di Uchida, uomo saggio, spregiudicato ed originale, anticonformista nella tradizione per così dire; così come nega di aver voluto fare un film a messaggio. Ma è indubbio che dietro l’intellettuale non ancora pronto a morire lo spettatore intravvede il regista; magari per contrasto, visto che la riconoscenza non ha certo gratificato la sua esistenza, nella maturità.
Forma negletta? Diciamo narrazione piana, a inquadrature “lunghe”, a scansione asimmetrica (pochi episodi, lunghe ellissi, rilievo “spropositato”, secondo un punto di vista occidentale, a episodi “minori”). Mentre altri ottuagenari del cinema (come De Oliveira) arricchiscono il loro linguaggio di stratificazioni colte, Kurosawa ha semplificato al massimo il suo linguaggio, scegliendo la semplicità, proclamando intenzione – in certo senso – di tornar bambino. Lo stesso protagonista ha comportamenti fanciuleschi: ha paura del buio e del tuono («Chi non ha paura del buio manca di immaginazione – dice – l’oscurità è il mondo dell’ignoto, lì si nascond la paura»), e la moglie lo scusa con gli allievi: «Non cresce mai, è sempre un bambino». La presenza dell’infanzia fa da filo rosso in tutto il film: giustifica i rapporto fra i maestri e gli allievi, tra chi trasmette la sua esperienza e chi si deve ancora formare. All festa del 17° Madadayo, Uchida offre la torta ai bambini e quando si ritira a casa si inchina profondamente davanti a loro. Ai quali lascia un monito: «Pensate a qualcosa che vi piace veramente e cercatela Quando l’avrete trovata tenetevela stretta. Sarà il vostro tesoro, qualcosa che non dovrete mai farvi sfuggire, perché sarà per la vita». L’insegnamento, allora, la trasmissione dei saperi, ma soprattutto 1a trasmissione dell’arte di vivere. Uchida suscita ammirazione nei suoi allievi perché li ha aiutati a ragionare, non ha solo insegnato il tedesco. Kurosawa cita Paul Valéry «Una cosa essenziale è stata dimenticata nell’educazione del giorno d’oggi, e cioè che è più importate per gi allievi imparare attraverso il maestro che attraverso le diverse materie scolastiche». E aggiunge «Io penso che il modo migliore d’in segnare i valori della vita era quella praticata dai veri Maestri di una volta, basata sulla loro personal esperienza. Attualmente la tendenza è piuttosto quella di modellare ragazzi con lo stesso stampo. Ho l’impressione che così neghiamo quella forma di educazione che deve permettere agli allievi di sviluppare la propria personalità e di coltivare i rispettivi talenti».
I buoni maestri, quindi. Quelli di una volta. Kurosawa è spudoratamente nostalgico, canta rapporti umani (usa tranquillamente il termine “valori della vita”) basati sulla riconoscenza e sulla dedizione. Questo rapporto maestro-allievi, che porta alla conoscenza interiore, va ben oltre la scuola, questa forma di affetto e venerazione è addirittura incredibile, per noi. Vedi la dedizione degli allievi più cari, ma vedi anche l’affetto dei vicini e il comportamento del proprietario confinante, che rinuncia a vendere un terreno all’affarista per evitare che accanto alla casa del professore si innalzi un grande edificio che gli tolga il sole. O gran bontà dei cavalieri antiqui, vien da dire: ed il confronto con la contemporaneità è tutto a sfavore dell’oggi. Anche qui i giudizi non sono cattedratici, si esprimono senza parere attraverso le chiacchiere e le canzoni: anche se si parla di tangenti e di corruzione, di scandali e di compromessi («C’è tanta stupidaggine, oggi, in Giappone; d’altronde non c’è medicina che possa curare gli sciocchi»). Sentenzioso ma leggero, questo film pare invitare a non prenderci troppo sul serio. Anche se poi le cose in cui affonda le radici sono serissime. La continuità degli insegnamenti e degli esempi, per dire. «Ho avuto dei buoni maestri – ha detto Kurosawa in un’intervista – ciò che sono diventato lo devo agli incontri fatti nel collegio, al liceo e nell’ambiente del cinema. Ho avuto la fortuna di affiancarmi a grandi realizzatori come Yamamoto, Ozu, Mizoguchi e Naruse, ai quali devo molto. Erano profondamente umani e dai contatti avuti con loro ho imparato enormemente». C’è una catena ininterrotta, tra i maestri e allievi. Uchida, che ha scritto un racconto sul suo gatto perduto, riconosceva come maestro Natsume Soseki, scrittore antinaturalista e pieno di humour, il quale aveva esordito con un libro (Io sono un gatto) nel quale un gatto filosofo prende la parola per satireggiare la società del tempo. Un altro maestro, ideale stavolta, è stato per Uchida il poeta KamonoChomei (1154-1216), e non a caso l’unico libro che si salva dall’incendio della casa bombardata è Hojoki (Ricordi della mia capanna di eremita), che è appunto di Kamono Chomei.
È di questo libro la famosa definizione: «La corrente di un fiume scorre senza interruzione, ma l’acqua non è mai la stessa», e il suo autore, trovatosi a vivere in uno dei periodi più tristi e travagliati del Giappone, vi racconta la sua vita da eremita in una capanna costruitasi da solo.
Alcuni passi del libro si concatenano senza sforzo alla figura di Uchida e alla filosofia del film. «...E ora, giunto al momento in cui la rugiada dei miei sessanta anni sta per svanire, mi sono ancora costruito un’ultima foglia di abituro, simile al rifugio notturno di un cacciatore o al bozzolo di un vecchio filugello. Esso non è che la centesima parte di quello che avevo prima; e così, mentre la mia età va declinando, la mia dimora si restringe... E chissà quante mai case saranno andate distrutte negl’incendi, così frequenti! Solo il mio abituro è restato tranquillo e indisturbato anche se angusto, esso ha un giaciglio dove la notte posso distendermi e una stuoia dove il giorno posso sedere: non è dunque insufficiente ad ospitarmi... Questo mondo è tutt’uno col cuore. Se il cuore non è tranquillo, a nulla valgono i cavalli, i buoi e tutti i tesori dell’universo. I palazzi, le torri non rappresentano tutti i nostri desideri. Ed io l’amo, ora, questa mia dimora solitaria. Quando vado alla capitale ho vergogna di esser ridotto come un mendicante ma, tornato qui, mi vien pietà per gli altri, attaccati, come sono, a null’altro che a volgare polvere... Il Buddha, insegnando agli uomini, ha raccomandato di non nutrire attaccamento per nessuna cosa di questo mondo». (Le citazioni sono prese da La letteratura giapponese La letteratura coreana di Marcello Muccioli, Sansoni/Accademia, 1969).
Siamo arrivati così, andando sempre più indietro nel tempo, al maestro dei maestri, a Buddha. La cultura orientale pervade Madadayo da cima a fondo, per capirlo meglio dovremmo probabilmente rispolverare Zen e buddismo. Non è la cultura Zen che stabilisce come tutto sia importante alla stessa stregua, uomo e natura, piccoli sentimenti e grandi drammi, una foglia che tremula e l’universo? La chiave dell’accettazione del lungo episodio dal gatto perduto è qui: ecco perché la perdita del felino è una tragedia, mentre non abbiamo emozione né giudizi per la tragedia ben più vasta della guerra. Le macerie, anzi, sono viste in modo oleografico, antinaturalistico (tutto il film è all’insegna dell’antinaturalismo), in un procedimento che minimizza. Uno dei modi per “abbassare il tiro” è l’umorismo: ecco l’episodio della casa con le indicazioni per i ladri, ecco il racconto del cavallo che lancia uno sguardo di rimprovero al professore che sta acquistando carne equina, ecco il modo sbarazzino in cui il protagonista consiglia di non orinare sul muro della casa, ecco il vero e proprio sketch dell’allievo che, alla prima festa di Madadayo, non avendo dimestichezza con i discorsi recita di seguito i nomi di tutte le stazioni della metropolitana di Tokyo.
Ma è poi vero che Madadayo è un Kurosawa nuovo rispetto ai film precedenti? «Nel suo cinema – scriveva Olla nel citato servizio su «Cineforum» 209 – la solidarietà umana, l’elevazione morale e spirituale ha un significato qui e ora; il confronto non è con modelli assoluti di perfezione ma con gesti quotidiani di dedizione al prossimo». Coerenza sostanziale col passato, quindi, sia nei temi (la decadenza delle tradizioni, la trasformazione del Paese vista come un’ossessione) che nell’esposizione. Kurosawa ha sempre accolto fonti culturali eterogenee, e qui, in un film su un personaggio che più giapponese non si può, il regista mette accanto alle canzoni folkloristiche il Vivaldi dell’Estro Armonico (Concerto n. 9). Apriti cielo: Vivaldi in un racconi impastato di giapponesità? A parte il fatto che il ricorso a musica “occidentale” (originale o attraverso citazioni di classici) si è sempre avuto nei film del Nostro, si mostra con questi appunti sconsiderati di non conoscere quanto i musicisti europei siano noti in Giappone e quanto e loro composizioni si integrino quella cultura.
Vivaldi ha un senso. È il trionfi dell’equilibrio, il punto alto dell’Armonia, prima che altri ne continuino l’operato, sviluppandolo (ancora il Maestro), ed è utilizzato tre volte: per il trascorrere delle stagioni, per l’arrivo in casa del gatto che dovrà sostituire quello perduto, per il sogno finale. Tre momenti legati all situazione specifica del vecchio professore ma anche ad una situazione di serenità, di accettazione, di sogno. Una storia che coniuga l’Armonia con l’Estro, un poemetto sulla vecchiaia vista paradossalmente come stagione privilegiata; se proprio si vogliono emettere giudizi perentori si presenta come un’opera “minore” rispetto a quanto Kurosawa ha già fatto, ma non si può fare a meno di essere suggestionati dal cuore (parola che ricorre spesso in Madadayo), dalla ricerca della semplicità, che è il segreto della vita, da vivere intensamente, senza nascondere i propri sentimenti. Messaggio che ha ragione di tutti i controlli della scienza e di tutti i suggerimenti della religione (nelle celebrazioni dei compleanni Uchida sta fra il medico e il prete, e li disattende ambedue). Insisterei sul concetto di semplicità. C’è una bella battuta messa in bocca a Uchida, rivolto ai suoi allievi ingordi di significati nascosti: «Non cercate in ogni cosa del simbolismo».
Ermanno Comuzio, Cineforum n. 324, 5/1993

Critica (2):Nella terza opera realizzata al compimento dell'ottantesimo anno, il venerabile maestro cerca di esorcizzare la morte. Non solo attraverso l'atmosfera ironica e sdrammatizzante che ossigena il film, ma mediante la negazione della criticità dell'ultimo istante: la festa del Madadayo è una ripetizione infinitamente identica dell'evocazione della morte, e si edifica contemporaneamente sul suo allontanamento, sulla messa in scena che ne falsifica la paura. " Un essere umano normale, non potendo vedere niente al buio, con l'immaginazione concepisce in esso l'esistenza di qualcosa", dice l'anziano protagonista durante la cena del suo sessantesimo compleanno, e dichiara così la sottrazione della morte dalle tenebre e la sua entrata nel regno del gioco, della festa, dello spettacolo. L'esorcismo ha una formula: Maadha Kay...? è la domanda che gli ex-allievi rivolgono al maestro in occasione di ogni anniversario: Sei pronto...?, alla quale egli deve rispondere ...Madadayo (..Non ancora). Maadha è una composizione di sillabe che invocano divinità buddiste: dha è Budda, A è Arrida figura della devozione e della longevità infinita. Il rito del primo Madadayo, ovvero il festeggiamento del sessantunesimo anno, se guardato con gli occhi dell'Occidente, sfiora lo humour nero. Gli invitati mettono in scena un corteo funebre, in cui si scatena un simbolico scontro vitamorte: il falso defunto azzarda un balletto, le truppe d'occupazione irrompono nel locale, la caméra accenna a qualche virtuosismo: sembra di essere in un musical (e le immagini di Takao Saito, direttore della fotografia di quasi tutti i film a colori del regista, sembrano confermarlo evocando i toni rossastri delle pellicole americane degli anni Cinquanta). Sebbene il protagonista del film sia un professore, e si ispiri allo scrittore giapponese Hyakken Uchida che fu un insegnante, Madadayo non possiede il sapore didascalico un po' ostentato di Rapsodia in agosto. II protagonista è qui istituzionalmente già simbolico e citativo, e non deve chiarirlo. Sembra un discendente dei personaggi interpretati da Takashi Shimura nei capolavori del regista: il commissario Sato di Cane randagio, il medico Sanada de L'angelo ubriaco, il capo-samurai nei Sette Samurai, ma emendato dalle esigenze e dalle fatiche del comando. In questa piccola comunità i conflitti generazionali sono stati risolti, gli studenti sono giovani borghesi che hanno completamente assorbito gli insegnamenti del padre, quello che gli viene mostrato ne è il residuo e il ringraziamento. Ogni sequenza è composta da una riunificazione di passato e presente; le due parti non sono mai lasciate isolate, ma consegnate alla dimensione minore del quotidiano, tipica del cinema classico giapponese. Assistiamo così agli sconforti di un'anima pura che cessa di nutrirsi per la perdita del gatto, alle gioie di una convivialità riunita attorno a scodelle fumanti di cacciagione e carne equina, al grande occhio della botte che ritaglia l'oscurità siderale, allo scroscio della pioggia carico della memoria kurosawana degli anni Quaranta e Cinquanta. E ancora ai continui traslochi da un'abitazione all'altra: la casa distrutta dai bombardamenti, la capanna-eremo, così angusta e simbolica da far sembrare interne le inquadrature esterne, e infine la dimora offerta in dono dai discepoli. Tutto è circondata dalle rovine dell'immediato dopoguerra, ma la città non è quella di Cane randagio, dove il sudore di Toshiro Mifune raggiungeva la carne dello spettatore, bensì le macerie assumono forme spiccatamente estetizzate, molto vicine alla pop-art dei materiali di recupero o ai murales dei sobborghi e della metropolitana di Manhattan: la dimensione poetica dell'ex pittore Kurosawa ha preso il sopravvento sul realismo, anche la polvere che si alza sulle rovine è solo un soffio di colore bianco. A tutto ciò fa da contrappunto l'esecuzione amatoriale delle canzonette giapponesi, che la distribuzione ha avuto la pudicizia di lasciare inalterate: inni alla luna, richiami alle esperienze del corpo e a storie di corruzioni e tangenti del Giappone del dopoguerra (e di oggi). II vecchio professore le esegue con una grana ruvida, affaticata e commossa, accompagnato dal fragoroso coro dei suoi proseliti, la musica si riappropria del tempo vissuto, che Bazin dichiarava proprio del tempo filmico, fornendo la traccia più intima del suo essere stato. Quadretti familiari scandiscono il ritmo stagionale e Le stagioni di Vivaldi lo commentano: dopo Rapsodia in agosto ritorna la musica del compositore veneziano che accompagna gli ideogrammi di coda del film sopra un cielo di immagini frattali dai colori cangianti. Il cielo è quello di un sogno, il sogno del professore che rivive un ricordo della propria infanzia, quando la nonna gli rimproverava di nascondersi sotto i covoni di fieno. L'inquadratura si apre in un campo lungo, uno dei rarissimi del film; il professore è un bambino che si allontana dai suoi compagni, "Non sono ancora pronto" continua a rispondere agli altri, mentre il coro gli fa sempre la stessa domanda: Maadha Kay ...Madadayo! Tutte le generazioni sono diventate una sola, i disagi del tempo sono scomparsi, la macchina da presa non può che allontanarsi dalla terra.
Paolo Marocco, Segnocinema n. 62, lugl./ago. 1993

Critica (3):

Critica (4):
Akira Kurosawa
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