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Vita e niente altro (La) - Vie et rien d'autre (La)


Regia:Tavernier Bertrand

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura: Jean Cosmos, Bertrand Tavernier; fotografia: Bruno De Keyzer; musica: Oswald D Andrea; montaggio: Armand Psenny; scenografia: GuyClaude François; costumi: Jacqueline Moreau; suono: Michel Desrois; interpreti: Philippe Noiret (Dellaplane), Sabine Azema (Irene), Pascal Vignal (Alice), Maurice Barrier (Mercadot), François Perrot (Perrin), Jean-Pol Dubois (André), Daniel Russo (ten. Trévise), Michel Duchaussov (gen. Villerieux), Arlette Gilbert (Valentine), Louis Lyonnet (Valentin), Charlotte Maury (Gora Mabel), François Caron (Julien), Frederique Meminger (Madame Lebègue), JeanRoger Milo (Monzieur Lebègue); produzione: Rene Cleitman, per Hachette Première/Cie Groupe Europe 1 Communication/AB Films/Little Bear/Films A2; distribuzione: TITANUS; durata: 136'; origine: Francia, 1989.

Trama:
1920. Nella Francia che cerca di rimarginare le ferite del conflitto, i campi di battaglia sono deserti, ma non è finita l'odissea dei dispersi e quella dei loro congiunti che sfilano ogni giorno ad identificare fedi, medaglioni, segnali, tracce minime di vita (o di morte) dei loro cari. Fra questi, due donne: la ricca borghese Irène e la giovane maestra Alice, che cercano l'una il marito l'altra il fidanzato. Sulla loro strada il capitano Dellaplane: antieroe scorbutico, solitario, con addosso il malumore di chi vede la guerra perdurare negli scoppi delle mine inesplose e nella ricerca, minuziosa ed inutile, di quelle lunghe file di persone che setacciano la polvere di un passato recente, ma già dilaniato. Proprio mentre lo Stato francese prepara, a sigillo di tutto, la tomba del Mite Ignoto. Eppure, la vita torna a ribollirli nel sangue, prepotente, quasi con suo dispetto, nell'attrazione crescente che prova per Irène.

Critica (1):Alcuni temi potremmo individuarli, per non vedere La vita e niente altro solo come un magnifico esercizio di stile, nella minuziosa ricercatezza della ricostruzione, con la miriade di oggetti e oggettini che mette in campo, o in una qualità del resto ormai rara anche al cinema, che è la vastità fisica dello sguardo, il respiro delle inquadrature, il senso - fordiano - del viaggio in uno spazio ed un tempo meno angusti dei nostri, per quelle picchiate e contropicchiate su campi, cieli, orizzonti lontani. Per non essersi accontentato, Tavernier, dei primi piani, ed avere osato dare ancora importanza allo scenario, allo sfondo, ad una prospettiva che si estende anche per chilometri.
Alcuni temi potremmo individuarli, per non a prezzare il film solamente come una grane prova di recitazione di una coppia di grandi attori: un Noiret che non aveva mai fatto scaturire, dalla propria possente figura, tanta sensualità, tanta forza anarchica e brutale: una Sabine Azema che abbandona quella rapidità un po' forzata un po' sovreccitata, delle commedie che abbandona il proprio cóté jeune femme, come lo chiama Tavernier, il proprio fare di grillo per trasformarsi in donna, donna - per giunta - orgogliosa e viziata, trovando il coraggio di mostrarsi meno accattivante, ma perfettamente in sintonia con un personaggio che non deve essere simpatico.
In breve, potremmo indicare questi altri temi, queste linee di innervatura del film, al di là della squisitezza formale, come lo sviluppo di un unico grande tema offerto alla letteratura e al cinema: l'equilibrio fra la vita e la morte. Che diviene scontro fra esigenza di amore e rinuncia adesso; scontro fra passato e futuro, un passato lastricato di morte ed un futuro da reinventare, dentro i personaggi, che cominciano a ricostruíre la vita a partire dalla scomparsa dei vivi, dalla loro disparition, nel pellegrinaggio dei familiari da un ospedale all'altro, nella loro fila davanti al banco degli oggetti trovati fra le macerie di un treno della Croce rossa saltato in una galleria, terribile marché des puces di oggetti senza valore, se non per chi può vedervi un segno di una creatura amata ma il senso è quello di un generale, irrimediabile, perdere le tracce. (Proprio alla disparition Pascal Bonitizer aveva dedicato un bel saggio, a proposito del cinema di Antonioni; ma in altro contesto, si potrebbe applicare il concetto agli ultimi film di Tavernier). La vita ricomincia su di una tabula rasa, nel rovesciamento e nel confondimento dei ruoli sociali, capovolgendo, ristrutturando persino l'uso degli edifici: gli uffici sono in un teatro, l'albergo in una fabbrica abbandonata, la chiesa viene trasformata in night club, un campo di battaglia in luogo di picnic. Tutto si trasforma, tutto viene riutilizzato: a partire dal cadavere scelto per il ridicolo rito del Milite Ignoto, morto ri-morto, dissotterrato e risosterranno - sosto l'Arco di Trionfo - ad esclusiva gloria della Patria, che può così archiviare gli altri 350.000 soldati dispersi, cercati con inutile zelo da genitori, mogli, amanti. E contati, con ossessiva tenacia, dal capitano Dellaplane. Contare i morti, farsi risuonare nella testa quei numeri, in migliaia e centinaia di migliaia,, è il suo modo di distanziarsi inequivocabilmente dalla guerra, la sua forma più estrema e dolorosa di moralismo. La matematica dev'essere disciplina molto amata dai moralisti, come tentativo radicale, e disperato, di mettere ordine nel caos dell'esistente. Attraverso i numeri, Dellaplane cerca di abbracciare la vastità e l'orrore della guerra; il suo punto di vista non è personale, affettivo, ma totale, panoramico: sta nel ripetersi mentalmente il numero, enorme, di morti e di dispersi; non come gli altri personaggi, nella ricerca di una persona cara, ma nel pensiero rivolto a tutti quegli esseri - a lui sconosciuti, certo cari a qualcuno - che, se potessero rimettere in piedi le loro ossa sparse sul suolo d'Europa, ci metterebbero unidici giorni e undici notti a sfilare lungo gli Champs Elysées, con una delle immagini più terrificanti, seppure solo suggerite, di tutto il film. Parallela, corre la ricerca delle due donne. Nella frammentarietà dei risultati, nell'incertezza di ogni notizia, di ogni danno, di ogni oggetto - il dubbio che Alice e Irène cerchino in realtà lo stesso uomo, marito dell'una e fidanzato dell'altra, non si fuga né si conferma del tutto - si ha una misura di quanto sia volatile, friabile, di essenza polverescente la permanenza in terra di ciascuno, se neppure i congiunti sanno ritrovarne le tracce, seguirne gli ultimi passi, come in un lungo Chi l' ha visto? destinato al fallimento. Quando l'uomo scompare nel fuori campo dell'esistenza, il suo permanere nelle coscienze è fragilissimo, sembra dire Tavernier. non resta allora che la vita, la vita e nient'altro. "La mort n'est pas une solution" dice Fritz Lang nel Disprezzo di Godard. E allo stesso modo - "Death is no solution" - si concludeva un articolo scritto da Wim Wenders in occasione della morte di Lang. Nonostante i morti - o anche per loro - occorre vivere.
E dunque si ricomincia a vivere, si riappezzano i corpi all'interno le anime, si comincia a ricostruire, all'interno delle persone, la sottile membrana sensibile agli affetti. Non c'è che la vita, la vita e nient'altro: ovvero, l'amour et rien d'autre, come il verso di Eluard a cui il titolo del film si ispira. Ed è per questo che la scena più straziante del film è quella in cui Noiret, dopo tutto il suo nervosismo e timore nello svelare il proprio desiderio pur in una situazione tanto instabile e "aperta", dopo essersi vergognato di avere strappato il sipario dell'improvvisato alloggio di Sabine Azema, come un Clark Gable di Accadde una notte, ma senza più l'età, la voglia, lo spirito, non sa reagire alla dichiarazione d'amore, pur bramata e attesa, da parte della donna: e ne resta impietrito, atterrito, paralizzato. Dopo aver veduto tanta morte intorno, la sua incapacità di tornare a vivere, a trovare la vibrante, o anche stupida naturalezza del vivere, è la peggiore condanna. E', questa, la scena in cui maggiormente si coagulano il senso di perdita, di orrore, di distruzione - effetti non speciali e non acuti, effetti permanenti e duraturi della guerra - presenti fino dalla prima scena del film.

Giovanni Bogani, Segno Cinema, n. 43 maggio 1990

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