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Tentato suicidio (ep.)


Regia:Antonioni Michelangelo

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura: Michelangelo Antonioni; fotografia: Gianni Di Venanzo; scenografia: Gianni Polidori; musica: Mario Nascimbene; montaggio: Eraldo Da Roma; interpreti: Rita Josa, Rosanna Carta, Enrica Pelliccia, Donatella Marrosu, Paolo Pacetti, Nella Bertuccioni, Lilia Nardi, Lena Rossi , Maria Nobili (attori non professionistiinterpretano i protagonisti dei fatti raccontati); produzione: Faro Film; origine: Italia, 1953; durata: 20'.

Trama:Inchiesta su protagonisti di tentati suicidi.
Episodio de "L'amore in città". Gli altri episodi sono: "Agenzia matrimoniale" di Fellini; "Gli italiani si voltano" di Lattuada; "L'amore che si paga" di Lizzani; "Storia di Caterina" di Maselli e Zavattini; "Paradiso per 3 ore" di Risi.

Critica (1):[...] Nel 1953 Antonioni partecipa - con il capitolo Tentato suicidio - al film a episodi Amore in città, una specie di film-manifesto che voleva essere l'applicazione rigorosa della teoria del "pedinamento", del fatto colto di sorpresa, su cui s'imperniava l'idea zavattiniana. In effetti l'episodio antonioniano radicalizza queste esigenze: interpreti sono gli stessi protagonisti dei tentati suicidi, ricostruiti nei luoghi e secondo le loro indicazioni; l'indagine diretta (le domande rivolte ai protagonisti, posti di fronte a un telone bianco) si prolunga senza soluzione di continuità nella riscoperta «guidata» di ambienti rivisitati; il gesto (una suggestione cara al regista) cerca delle motivazioni, il tempo ricostruito cerca di raggiungere quello reale: il massimo dell'adesione (di verità, si direbbe secondo una definizione che avrà fortuna in seguito) coincide con la ricostruzione Ma questa, proprio perché viene dopo, altera il tempo e riscopre lo spazio, consente di "caricare" le cose e di portarle a segno, ampliando o restringendo i momenti reali. L'inchiesta, con la sua neutralità, lascia una traccia nei luoghi indagati e nelle persone che li popolano. Antonioni gioca insomma su due piani, adesione e costruzione, e sugli effetti di rifrazione e immedesimazione derivanti dal fatto che i protagonisti sono i medesimi (e in un certo senso la macchina da presa è guidata da loro). Ciò permette anche una esplorazione dietro la facciata (il racconto della ballerina e i movimenti della danza), la creazione di contrappunti (i bambini, tipico motivo del regista). Tuttavia, appunto perché é (assieme - a quello diretto, con Zavattini, dall'ex aiuto di Antonioni, Francesco Maselli) l'applicazione più radicale delle teorie cui il film si ispira, l'episodio ne riflette meglio l'equivoco di base: i due piani - realtà,
ricostruzione della realtà - finiscono per essere distinti, facendo avvertire la prevalenza della ricostruzione, e perciò di una spettacolarità che si voleva evitare. I gesti rifatti dai mancati suicidi sanno in fondo di falso, e la carica che gli deriva dalla testimonianza diretta sembra applicata dall'esterno. Paradossalmente (ed è una sintomatica contraddizione) la freddezza dello sguardo fa notare la forzatura. Meglio, allora, riconsiderare l'episodio per le indicazioni di stile, che sono piuttosto deboli: la scoperta di ambienti "comuni" investiti di significati, la suggestione della scia dei comportamenti "prolungati", la capacità, insita nell'immagine apparentemente neutra, di rivelare la propria poliedricità e ambiguità. [...]
Giorgio Tinazzi, Michelangelo Antonioni, Il Castoro cinema, 1995

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
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