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Tesnota


Regia:Balagov Kantemir

Cast e credits:
Sceneggiatura: Anton Yarush, Kantemir Balagov; fotografia: Artem Emelianov; montaggio: Kantemir Balagov; scenografia: Alexey Paderin; costumi: Lydia Kryukova; interpreti: Darya Zhovner (Ilana), Olga Dragunova (Adina), Artem Tsypin (Avi), Nazir Zhukov (Zalim), Veniamin Kats (David); produzione: Example Of Intonation (Alexander Sokurov's Fund), Lenfilm Studios; distribuzione: Movies Inspired; origine: Ruussia, 2017: durata: 118’.

Trama:Nalchik, Caucaso del Nord in Russia, 1998. La 24enne Ilana lavora nel garage di suo padre per aiutarlo. Una sera, la sua famiglia e gli amici si riuniscono per celebrare il fidanzamento del fratello minore David. Più tardi, quella notte, la giovane coppia viene rapita. Giunge quindi una richiesta di riscatto, ma nella ristretta e chiusa enclave ebraica coinvolgere la polizia è fuori discussione. Come farà quindi la famiglia a raccogliere i soldi necessari a salvare David? Ilana e i suoi genitori, ognuno a proprio modo, proverà il tutto per tutto e a qualsiasi rischio...

Critica (1):Tesnota è lo straordinario e sorprendente film di Kantemir Balagov, ventisei anni da Nal'čik, Caucaso settentrionale, allievo di Sokurov e già destinato a far parlare di sé. Un film che si stenta a credere sia l’opera prima di un ragazzo così giovane tanto è risolto, calibrato, pieno di cose che funzionano e perfettamente orchestrato sia in termini di scrittura che di esecuzione. E si stenta ancora di più se si considera che Balagov ha firmato anche sceneggiatura e montaggio, oltre alla regia.
Girato nei luoghi in cui il regista è nato e cresciuto – la repubblica autonoma di Kabardino-Balkaria, alle pendici del Caucaso, nella Russia sudoccidentale – una regione incastonata fra il Mar Nero e il Mar Caspio, abitata da gruppi etnici diversi e poco distante dalla Cecenia, Tesnota racconta la storia di Ilana, una ragazza ventiquattrenne, figlia maggiore di una famiglia di ebrei russi che abita nella regione da lungo tempo. Ilana aiuta il padre nell’officina dove lavora, sta con un ragazzo kabardo e passa le sue serate a bere, a ballare o a guardare la tv con gli amici, come tutti i ragazzi della sua età in qualsiasi parte del mondo. Poi all’improvviso suo fratello viene rapito, e per pagare il riscatto i genitori le chiedono di sacrificarsi in un matrimonio di interesse con il figlio di una ricca famiglia del posto. La vita di Ilana cambia da un momento all’altro: deve compiere delle scelte, diventare grande, cercare un compromesso impossibile fra la sua indole ribelle e la ragione cui il precipitare degli eventi la richiama. Tutt’intorno una comunità chiusa, una terra di confine dove germogliano l’intolleranza e l’odio razziale che è anticamera della guerra – siamo sul finire degli anni Novanta: quando la Prima guerra Cecena si è appena conclusa e la seconda sta per cominciare.
Tante, tantissime cose che si intrecciano e che Balagov riesce a calibrare in un racconto cadenzato, costruito da grandi sequenze o da piccoli tocchi di regia dove tutto sta al posto giusto. A cominciare dal formato 4:3 che imprigiona i personaggi e da un digitale buio o spesso in controluce che diventa quasi un limite alla visione. E poi piani sequenza di grande spessore che ricordano il cinema di Mungiu più che quello di Sokurov (basti pensare a come è raccontata la perdita della verginità della ragazza) e i colori di un paesaggio inospitale, a metà fra montagna e deserto che sembra sempre freddo e inabitabile (tutta la scena finale, girata in mezzo ai canyon delle valli caucasiche è a dir poco straordinaria). Non da ultimi gli spazi: con la sensibilità che è dei grandi autori il regista segue la ragazza dentro il villaggio in cui (quasi) tutto il film è ambientato, riuscendo a descriverne tanto l’anonima trascuratezza quanto il senso di imprigionamento.
Gli anni Novanta di Balagov – che sembrano negli arredi, negli abiti e nel décor gli Ottanta dell’ultima Russia Sovietica – sono un territorio arido, desolato dove covano conflitti che trasformano ogni cosa in uno scontro e in cui la dissoluzione, la perdita delle radici e dei valori (qui simboleggiata da una famiglia che si divide) sembra una conseguenza scontata. Quasi la necessità – che è anche quella di un popolo e di una nazione – di sacrificare qualcosa per poter ricominciare. Per credere in nuovo inizio sperando che non sia invece una dolorosa fine.
Lorenzo Rossi, cineforum.it, 25/5/2017

Critica (2):Siamo a Nalchik, nel Caucaso settentrionale, l’anno è il 1998. Ilana (Darya Zhovner, interpretazione potente), 24 anni, aiuta il padre (Artem Tsypin) nella sua officina. La sera, dopo che in casa viene festeggiato il fidanzamento del secondogenito David (Veniamin Kats), il ragazzo viene rapito insieme alla sua amata.
La comunità ebraica di cui entrambe le famiglie fanno parte si riunisce per provare a racimolare i soldi necessari per pagare il riscatto. Ma non bastano. Che cosa è disposta a fare la famiglia di David per salvare suo figlio?
Ambientato negli stessi luoghi dove il regista è nato e cresciuto, basato sull’insieme di alcuni fatti reali avvenuti in quegli anni, Closeness (il titolo è abbastanza esplicativo) mantiene sempre alta la tensione opprimente e claustrofobica, data anche dalla situazione “ordinaria”: capitale della Repubblica Autonoma di Kabardino-Balkaria, Nalchik – seppur non direttamente – osservava con molta attenzione l’intensificarsi del secondo conflitto ceceno (nel film vengono mostrati alcuni videotape a dir poco estremi di alcune uccisioni) e, seppur da sempre integrati nel tessuto sociale del posto, gli ebrei preferivano – diciamo così – non dare troppo nell’occhio.
Anche per questo, si intuisce, le famiglie dei rapiti preferiscono non rivolgersi alle autorità locali ma provare a raccogliere il denaro necessario per rivedere i propri cari.
E Balagov imposta tutto il suo discorso filmico proprio su questo aspetto, sul paradosso secondo cui per salvare qualcuno che amiamo siamo disposti a perdere qualsiasi altra cosa. Estremizzando: per salvare un figlio siamo disposti a sacrificare la felicità dell’altro?
Il cuore pulsante dell’intera vicenda, per questo, è proprio Ilana. È lei il vero motore del film di Balagov, l’incarnazione di una ribellione che già solo nelle apparenze, in superficie, tende a denotare l’impronta del racconto.
Lo si percepisce dall’incapacità di adeguarsi agli standard di una madre (Olga Dragunova) che, è palese, tende a preferirle il fratello, dalla tenacia con cui, fieramente, indossa praticamente sempre la stessa salopette jeans con maglione sdrucito sopra, dalla testardaggine con cui porta avanti il rapporto con il cabardo Zalim (Nazir Zhukov).
E alla fine, sarà proprio a lei che verrà chiesto il sacrificio maggiore per poter riabbracciare David. Ma, anche stavolta, Ilana farà di testa sua. Sacrificandosi, certo, ma scegliendo lei in che modo.
Non c’è più la possibilità di tornare indietro, ormai. E Balagov lo suggerisce benissimo con la scelta di un finale amaro, ma inevitabile, impostato su un andirivieni. Nalchik resta alle spalle, lì ormai ci sono solo un figlio (fratello) e il ricordo di una vita che non è più possibile portare avanti.
Valerio Sammarco, cinematografo.it

Critica (3):

Critica (4):
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