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My Joy - Schastye Moye


Regia:Loznitsa Sergeï

Cast e credits:
Sceneggiatura: Sergeï Loznitsa; fotografia: Oleg Mutu; montaggio: Danielius Kokanauskis; scenografia: Kirill Shuvalov; interpreti: Victor Nemets (Georgi), Vlad Ivanov (sindaco di Mosca), Maria Varsami (gitana), Vladimir Golovin (anziano), Olga Shuvalova (prostituta), Alexeï Vertkov (giovane tenente), Yuriy Sviridenko (uomo armato); produzione: Ma.Ja.De Fiction-Sota Cinema Group-Lemming Film-Zdf/Arte; distribuzione: Cineteca di Bologna; origine: Ucraina-Olanda-Germania, 2010; durata: 127'.

Trama:La scelta di una direzione sbagliata durante il tragitto, costringe il camionista Georgy a inoltrarsi nella desolata campagna russa dove inizia per lui un incubo senza fine. Mentre cerca di ritrovare la strada giusta, l'uomo finisce per addentrarsi sempre più in un "cuore di tenebra" - dove si avvicendano gli incontri con gli abitanti di un luogo in cui vengono commessi i più insulsi reati - diventando suo malgrado testimone di un crescendo di violenza e abusi di potere che ricalcano la situazione della Russia di oggi.

Critica (1):“Dove porta questa strada?”.
“Non è una strada, è una direzione”.”Direzione verso cosa?”.”Verso il nulla”.
Se a presiedere la giuria di Cannes 63. ci fosse stato David Lynch la Palma d’Oro si sarebbe assegnata già stasera. Perché My Joy, l’opera prima di Sergei Loznitsa – documentarista bielorusso, cresciuto in Ucraina, già autore del notevole Landscape – è davvero un film “senza uscita”, diretto verso il nowhere dell’umanità: lungo una strada della provincia russa, il camionista Georgy (Viktor Nemets) viene fermato da un agente per un controllo, poi è “costretto” a dare un passaggio ad un veterano della seconda guerra mondiale che, in cambio, gli racconta la storia del suo rientro dal fronte tedesco. Scomparso l’uomo, Georgy si ritrova bloccato in un ingorgo (di godardiana memoria): qui incontra una baby prostituta, che lo conduce verso un villaggio. Abbandonato anche da lei, si rimette in marcia, ma finisce per perdersi nelle stradine della notte. E il camion si rompe. Un paio di loschi viandanti lo invitano a cenare attorno al fuoco, ma il pasto si conclude male. E qui inizia il film. Che in qualche modo “riparte”, tornando indietro nel tempo (mostrando il brutale omicidio di un insegnante, vedovo e padre di un bambino, da parte di due soldati di ritorno dalla seconda guerra mondiale), per presentarci la casa dove ritroveremo, quasi irriconoscibile, sperduto e muto, il protagonista. E’ nel saper condurre con estrema cautela e altrettanto stile il successivo “ricircolo” il merito maggiore di Loznitsa, che inquadra nella ciclicità degli eventi e nella definizione burocratica dell’uomo (tutto, alla fine, prende il via e si riduce alla richiesta di esibire un documento…) la gabbia da cui è impossibile fuggire. La chiave si nasconde dietro un nichilismo disperato, come suggerisce l’agghiacciante finale: ma arrivati a tanto, quello che rimane davanti è solamente una strada – pardon, una direzione – inghiottita dalle tenebre. (...)
Valerio Sammarco, cinematografo.it, 19/5/2010

Critica (2):Le linee che si dispiegano di fronte a una storia possono essere infinite. Possono partire da un punto qualsiasi e srotolarsi all'infinito oppure piegarsi su loro stesse e tornare indietro. Il cinema americano, che servendosi della geografia del Paese ha costruito il discorso ideale di una Nazione, ha sempre considerato la strada come una traccia narrativa: quella che Lynch disperdeva percorrendo a duecento all'ora le sue lost highways e che in Una storia vera ritrovava procedendo a passo di trattore e ricostruendo così la realtà perduta. Parte da qui, dalle strade di Lynch e dalla materia concreta di ogni storia, Schastye moe, primo film di finzione del documentarista Sergei Loznitsa: un viaggio a spirale nel cuore profondo della Russia che vive di una tensione magica tra la narrazione liberissima e la sua paradossale costrizione in una forma conclusa. E duplice l'anima del film: nella prima parte si apre in modo sorprendente alle molteplici forme del possibile e nella seconda rimette insieme le briciole sparse lungo il percorso, racchiudendo personaggi e spazi in una narrazione metaforica.
Il viaggio oltreconfine di un camionista conduce lungo una strada che è come il filo di una trama: si dirama in più direzioni per raccontare una storia ai tempi della Seconda guerra mondiale, per seguire una prostituta bambina, per cogliere la possibilità di un'altra storia o addirittura di un altro film nel mercato di un paesino (grazie a uno strepitoso piano sequenza) e poi ancora si ferma, perde letteralmente la strada e trova in una casa il centro ideale dove unire passato e presente, forse pure vita e morte. E qui, più che Strade perdute, ricorda Mulholland Drive, perché, giunto a metà, è come se il film si rimescolasse, ricominciando con gli stessi personaggi e gli stessi luoghi ma in ordine casuale. L'amnesia è il filo conduttore, ancora come in Lynch, un paradossale appiglio che disperde il film, lo porta ad aggrovigliarsi, ad allentare la straordinaria tensione della prima parte, ma a mantenere salda la metafora di un paese vittima del potere che lo ha schiacciato e cieco di fronte alla violenza perpetrata sul suo corpo. Il suo destino, unito a quello tragico dei personaggi di una storia che ha nella sua letterarietà un punto di forza e al tempo stesso un difetto, non può che essere l'oblio, il nero che inghiotte l'unico sopravvissuto a un massacro collettivo.
Vengono allora in mente le parole che Martin Amis ha usato in «La casa degli incontri» per descrivere l'anima della Russia: «Se entri nello specifico, nello specifico del caso russo, senti i sommovimenti di una forza immane, una forza non solo cieca ma del tutto insensibile, come un terremoto o un maremoto». Sono due forze contrapposte, l'una centripeta e l'altra centrifuga, a minare dall'interno un film come Schastye moe, è una forza immane che lo attira verso il centro del proprio racconto e lo chiude nel segno del nulla, del buio, lì dove la strada non è più un racconto del passato o la liberazione dalla Storia, ma una realtà impossibile da distinguere nell'infinita notte di una Nazione. Così, quella che per Lynch è una deriva metafisica, una dissoluzione del corpo nell'immaterialità del cinema, per Loznitsa è una tragedia con profonde basi storiche. Schastye moe è il racconto della Russia dopo il disastro, ma soprattutto il tentativo di capire, attraverso una narrazione che cade in pezzi, perché quello stesso disastro, nel mondo di ieri e in quello di oggi, continua a perpetrarsi senza fine.
Roberto Manassero, Cineforum n. 495, 6/2010

Critica (3):

Critica (4):
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