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Fitzcarraldo - Fitzcarraldo


Regia:Herzog Werner

Cast e credits:
Soggetto: Werner Herzog; sceneggiatura: Werner Herzog; fotografia: Thomas Mauch; musiche: Popol Vuh; montaggio: Beate Mainka-Jellinghaus; scenografia: Ulrich Bergfelder, Henning Von Gierke; costumi: Gisela Storch; effetti: Miguel Vazquez; interpreti: Klaus Kinski (Brian Sweene Fitzger), Jose' Lewgoy (Molly), Miguel Angel Fuentes (Carlo), Paul Hittscher (Capitano), Claudia Cardinale (Molly), David Perez Espinosa (Capo degli Indios), Ruy Polanah (Rubber Baron); produzione: Werner Herzog Film Produktion-Filmverlag Der Autoren-Pro-Ject Filmproduktion-Wildlife Films Peru-Zweites Deutsches Fernsehen; distribuzione: Cineteca Griffith; origine: Germania-Peru', 1982; durata: 158’.

Trama:Brian Sweene Fitzgerald, meglio conosciuto come Fitzcarraldo nella foresta amazzonica dove vive, vuole costruire a Iquitos, proprio al centro dell'Amazzonia, il più grande teatro d'opera mai esistito e ad inaugurarlo vuole Caruso, che ha avuto modo di ascoltare, una volta, a Manaus. Per poter riuscire nel suo intento accetta di guidare una spedizione a bordo di un battello verso una zona ricchissima di alberi della gomma che intende sfruttare e con il ricavato dare vita a questo suo grande sogno. Con il suo battello, infatti, risalirà un fiume impetuoso, verrà scambiato per una divinità dagli indios di una tribù bellicosa che lo aiuterà a far scavalcare una montagna al suo battello e, alla fine, se non proprio il teatro dell'opera, riuscirà a portare l'opera agli abitanti della sua città.

Critica (1):Fitzcarraldo - lo si intuisce già dal clamore, sovente scandalistico, che ne ha accompagnato la lavorazione – è un film «unico», senza confronti almeno nel quadro della produzione commerciale di oggi. Lo è soprattutto in quanto esasperazione di un concetto da sempre profondamentale radicato nella poetica di Herzog: ogni film, per toccare davvero i sensi dello spettatore, deve essere l'espressione di un'esperienza personale intensamente vissuta, al limite del rischio fisico, che si realizza nel lavoro delle riprese e di cui deve restare traccia sensibile nel film finito.
Ora in Fitzcarraldo l'avventura delle riprese, forse mai tanto tormentata per Herzog, diventa a tutti gli effetti il vero soggetto del film, il centro reale su cui ruota incessantemente il nucleo iniziale della finzione: l'impresa «contro le leggi della natura» realizzata forse storicamente da Brian Sweeney Fitzgerald.
Si è appreso – quasi sempre come detto attraverso echi deformanti – cosa abbia reso «terribili» queste imprese: tre anni di lavorazione in una zona di foresta vergine completamente isolata ai confini tra Perù e Ecuador, con incidenti d'ogni sorta; l'ostilità di alcuni indios sobillati da rappresentanti politici locali per questioni interne e l'incendio dell'accampamento della troupe; la malattia o la defezione degli attori scelti in un primo tempo per i ruoli principali e l'arrivo provvidenziale del fedele Kinski; la costruzione di due autentici battelli in uno dei quali, alle rapide, rimane ferito l'operatore Mauch, mentre l'altro viene effettivamente issato in cima a una collina con l'aiuto determinante degli indios e pochi mezzi moderni. Ebbene, durante la visione del film non è possibile ignorare tutto questo; anche chi non ha seguito le cronache giornalistiche sulla vicenda è costretto ad accorgersi che per Fitzcarraldo non è mai stato ammissibile pensare ad alcun tipo di trucco o ricostruzione. E nel corso della scena centrale ci si rende conto che il senso di tutta l'impresa è proprio nell'autentica ripetizione per la macchina da presa di un gesto estremo compiuto «contro natura»: una nave che sale una montagna grazie alla determinazione di un uomo e alla fatica di centinaia di persone (il seducente anacronismo di Herzog rispetto al cinema dominante è qui particolarmente flagrante).
E fin troppo agevole allora leggere Fitzcarraldo come film autobiografico, come metafora di un modello di cinema irripetibile. Ma questa vistosa identificazione di Herzog con Fitzcarraldo (e Kinski) ci fa capire anche come si tratti dell'autobiografia di un cineasta che ha compreso, forse dolorosamente ma con sollievo, dopo anni di ricerca di una «verità» bruciante attraverso immagini «mai viste» catturate in ogni angolo del mondo, la relatività o meglio l'incompleta «comunicabilità» della propria missione di vedere. Un uomo saggio anche, che alla fine riesce a trasformare in trionfo (magari effimero) la sconfitta più cocente. Ciò che si è visto e sofferto non si può descrivere fino in fondo ma il film è lì ugualmente per dirci che ogni difficoltà si può superare e così il «Molly Aida» ha valicato invano la montagna, ma la grande musica può arrivare lo stesso per un attimo fino a uno sperduto villaggio dell'Amazzonia.
Questo spiega perchè in Fitzcarraldo sono presenti i temi cardinali dell'universo herzoghiano (l'eroe folle che sacrifica tutto per un'impresa titanica, il conflitto tra una visione «civilizzata» e una «naturale» delle cose, la sfida a un paesaggio debordante che comporta il disastro per chi la provoca ecc.), ma tutti filtrati da uno sguardo disteso, quasi sereno. Il racconto non procede più come nei film precedenti – almeno fino a Nosferatu – per bagliori improvvisi, con l'apparizione di «inserti» visionari frutto di una febbrile allucinazione e segno di una volontà di comunicazione «ulteriore» (anche se i momenti di risoluzione delle tensioni accumulate sono poi caratterizzati da uno sfrenato splendore figurativo: si pensi alla sequenza «aerea» dei due fiumi visti finalmente insieme dall'alto della collina, che dà all'improvviso il senso della grandezza delirante di Fitzcarraldo; o ai momenti in cui si compie la risalita del «Molly Aida» quando la scena è di nuovo immersa in una dimensione di sogno; o ancora al trionfante finale con le decine di barche che formano quasi un gigantesco, surreale «puzzle» della finzione musicale).
Qui il percorso si fa lineare, logico, senza sussulti. C'è ad esempio una lenta preparazione dell'evento principale che serve classicamente a introdurre e «contestualizzare» il protagonista dell'azione. L'eroe che così ci viene presentato è, al pari di altri della «famiglia herzoghiana», votato a materializzare un'immagine fantastica, colossale, che lo ossessiona, ma senza che questo comporti una disperata distanza dai suoi simili. Fitzcarraldo è innamorato di un assoluto che non è certo il potere, come per Aguirre, ma la musica (presa anzi quasi come simbolo di una totale «dépense» anticapitalistica). È un essere più tenero e patetico che tragico (e Kinski è davvero straordinario nel rovesciare così la propria abituale immagine istrionesca), capace alla fine di sorridere e (forse) di amare, ma capitato inevitabilmente in un territorio «maledetto» che rende epico e insensato qualsiasi scontro con le sue leggi.
Poi, nel momento centrale del film, quando inizia il viaggio sul fiume, il discorso si precisa definitivamente e Herzog svela senza più reticenze il senso del proprio rapporto col cinema e insieme i dubbi e i timori che questo approccio gli provoca. Ciò che spinge Fitzcarraldo (e il cineasta con lui) a sfidare i limiti della natura è, a un primo livello, la convinzione stessa che solo col portare il sacrificio di sè, anche fisicamente, ai limiti estremi, sia possibile poi conquistare il successo, cioè l'emozione estetica. E soprattuto c'è in fondo la sensazione che all'orgine di tutto sia l'oscura esigenza di dar vita a una serie di accostamenti totalmente incongrui tra due mondi contrapposti: un grammofono e la voce di Caruso tra i tamburi nella giungla, un battello in cima a una montagna, una ferrovia che si perde nella foresta... Ma questa volontà di aggiungere «follia» a un territorio già di per sè «delirante» e impenetrabile, si paga e questo Herzog lo sa bene. L'esaltazione di Fitzcarraldo incontra presto l'universo sconosciuto degli indios (rispetto al quale l'autore significativamente non compie alcun sforzo di decifrazione pur restando evidente il suo rispetto per la dignità interiore di quel popolo). La presa di contatto, la comunicazione non può che essere illusoria e le conclusioni «naturalmente» catastrofiche: gli indios permettono a Fitzcarraldo di realizzare la prima parte del suo progetto trascinando il «Molly Aida» da un fiume all'altro, ma solo per portare la barca verso le rapide e placare così l'ira degli dei (c'è in questa «vittoria» degli indios l'omaggio a una dimensione di vita costruita sul sogno, sull'immaginazione, e che contempla l'assoluta esclusione di ogni costrizione materiale, dimensione peraltro temibile e inquietante per chi vi si confronta. Una delle ossessioni centrali del film è comunque proprio l'insistenza sui vincoli economici che si frappongono al protagonista e che letteralmente gli impediscono di volare; e anche in questo c'è un rimando alla storia del cinema di Herzog). Ancora una volta però l'esito non è definitivamente drammatico; diventa piuttosto fonte di nuova consapevolezza, di conoscenza, di umiltà, anche. Non si può costruire da soli un grande teatro nella foresta, ma portarvi per un istante un'autentica opera e farla ascoltare a chi si ama, questo sì. E così un film non può forse farci varcare la soglia dell'inconoscibile, ma può senz'altro farci sentire alla fine – come vuole Herzog – «più leggeri» insieme ai personaggi. Perciò nel finale questo Kinski inedito sorride appagato e noi ci sentiamo davvero più sollevati con lui.
È la lezione attuale di un Herzog «maturo», disincantato, forse deluso. Dieci anni dopo Aguirre qualcosa – soprattutto la continua, vulcanica esplosione di uno sguardo intensissimo, senza precedenti forse nella storia del cinema – si è perso.
Resta la coscienza pienamente acquisita della grande, umana avventura che si è compiuta davanti ai nostri occhi, riflesso nitido e non indegno di quella vissuta da un sognatore europeo in un paese incredibile immerso in un sogno perenne.
Fabrizio Grosoli, Cineforum n. 220, 12/1982

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