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Balene d'agosto (Le) - Whales of August (The )


Regia:Anderson Lindsay

Cast e credits:
Soggetto: dal romanzo di David Berry; sceneggiatura: David Berry; fotografia: Mike Fash; musiche: Alan Price; montaggio: Nicolas Gaster; scenografia: Jocelyn Herbert; costumi: Rudy Dillon; interpreti: Bette Davis (Libby), Lillian Gish (Sarah), Vincent Price (Maranov), Ann Sothern (Tisha Doughty), Harry Carey Jr. (Joshua Brackett), Margareth Ladd (Libby da giovane), Frank Grimes (Sig. Beckwith), Mary Steenburgen (Sarah da giovane), Tisha Sterling (Tisha da giovane); produzione: Alive Films - Circle Associates; distribuzione: Cineteca Griffith; origine: Usa, 1987; durata: 94’.

Trama:Libby e Sarah, due anziane sorelle, trascorrono le giornate nella bella casa su uno scoglio dell'isola di Maine, dove hanno vissuto felici i loro anni verdi. Sarah, vedova di guerra, è ancora attiva e serena, e fra le modeste occupazioni di casalinga, pittrice, inventrice di pupazzi di stoffa e soprattutto infermiera della sorella cieca, sogna la novità di una grande vetrata nel soggiorno, che le consenta di vedere comodamente il passaggio, al largo, delle mitiche "balene d'agosto" curiosità comune dei loro giovani anni. Libby, invece, nostalgica della propria bellezza di una volta, appare sempre amareggiata, annoiata e scontrosa. La loro solitudine viene interrotta di quando in quando: da un idraulico rumoroso, da Maranov, un attempato gentiluomo russo, vedovo e desideroso di compagnia, e da un'amica invadente, che un bel giorno si presenta con un agente immobiliare, interessato all'acquisto della casa. La sola ipotesi di veder invasa da estranei quella loro casa piena di ricordi, scuote Libby dalla sua scontrosa indifferenza e la ravvicina alla sorella.

Critica (1):(...) Prudente e guardingo per questo suo primo lavoro oltreoceano, Anderson ha preferito tenersi sulla difensiva e giocare sul terreno più conosciuto. Così Le balene d'agosto è più una dichiarazione di riconoscenza verso il cinema americano che non un iniziale approccio all'America. Girato nel Maine, sotto l'ala protettiva proprio di John Ford che è nato da quelle parti, il film non si cura per nulla, salvo in qualche marginale battuta, di ciò che sta alle sue spalle. L'America resta lontana: Anderson ha superato l'oceano solo per fermarsi su di un'isoletta che guarda verso l'Atlantico.
Non c'è l'America nel film ma c'è, con l'evidenza dei suoi attori, tanto cinema americano, di quello di una volta. Lillian Gish, Bette Davis, Vincent Price, Ann Sothern, Harry Carey jr, sono lì a rappresentare, in carne ed ossa, parecchi decenni di storia cinematografica, da Griffith in giù. Con una simile compagnia di interpreti, Le balene d'agosto avrebbe potuto assumere un tono caramelloso e nostalgico. La Gish è sul set dal 1912 (An Unseen Enemy, di Griffith) e con questo ha girato centocinque film; Bette Davis, che ha iniziato negli anni '30, di film ne ha fatti cento giusti. Delicata, romantica, innocente e fragile, la Gish; perfida, fredda, perversa, la Davis: le silhouettes attoriali delle protagoniste riassumono alla perfezione i due poli, romantico e malefico, dalla presenza femminile nel cinema americano. Se a loro aggiungiamo Ann Sothern, attrice brillante, anche lei al cinema dagli anni '30, soprattutto in commedie e musical, il quadro femminile può considerarsi ben coperto. Sul versante maschile, Vincent Price è stato tra i massimi specialisti del cinema dell'orrore mentre Harry Carey jr. ha fatto parte a pieno titolo del clan fordiano.
Ma, dicevamo, non c'è nessun effetto nostalgia. Anderson non abbellisce la vecchiaia. Siamo davanti all'oceano e non sui laghi dorati. I corpi delle vecchie attrici e dei vecchi attori scricchiolano e si muovono a fatica. Il tempo ha lavorato a lungo su di essi, tanto a lungo che la tentazione cinefilica non trova spazio per attecchirvi. II film nostra la vecchiaia senza concedersi – ed è un punto a favore di Anderson – strizzatine d'occhio verso lo spettatore che sa di cinema e senza cadere in nessuno di quei fastidiosissimi luoghi comuni della narrazione cinematografica statunitense che trasformano sempre più spesso un film in una copia stucchevole di cento altri film e in un ricettacolo di citazioni.
Anderson sa assumersi, inaspettatamente, un ruolo semplice e limitato. Il punto di partenza è un testo teatrale dall'impianto lineare e rispettoso delle regole classiche della messa in scena. Pochi personaggi, unità di luogo e di tempo, rarefazione dell'azione a favore della riflessione, condotta in sordina, senza eccessi, sul come si debba e si possa vivere la vecchiaia. La differente caratterizzazione dei due personaggi centrali, le sorelle Sarah e Libby, trova nelle interpreti, nella loro conosciuta figura cinematografica, una precisa rispondenza. La Sarah di Lillian Gish è, ancora, operosa, positiva, vitale. Bette Davis è una Libby acida e brusca, costretta dalla cecità ad un rapporto di dipendenza che la incattivisce ancor più. Nella solitudine della casa isolata si misurano giorno dopo giorno con il passato e con quel tanto di futuro che ancora gli resta. Sarah sa muoversi con accortezza tra i ricordi e le minime speranze. Libby, su entrambi, esercita costantemente una ironica maldicenza, anche se, dietro ad essa, si intravvede una non cancellata tenerezza che alla fine troverà il modo di affermarsi. Il motivo conduttore del film è presentato in una delle prime scene. Sarah lavora a degli animaletti di pezza per la fiera e, stuzzicata dalla sorella, deve giustificarsi dicendo di farlo per una nobile causa. Libby non perde l'occasione per ribattere rigidamente: «Cosa sarebbe il mondo senza una nobile causa...». Subito dopo, quando Sarah guarda delle vecchie foto nello stereoscopio che intende mettere all'asta, Libby insiste dapprima nella propria sbrigativa filosofia («Se ha valore solo perché è vecchio, potremmo metterci in vendita anche noi»), salvo ricredersi parzialmente chiedendo a Sarah di non dar via anche le foto. Quel che resta del passato, le foto, i ricordi dell'arrivo delle balene (cui è dedicato un breve, chiaro prologo in bianco e nero), una canzone, un anniversario di nozze festeggiato da Sarah nella notte, è vissuto dalle sorelle in modo diverso, in superficie, ma ugualmente sentito, in profondità. Solo che Libby, sullo sfondo nero della cecità, vede tutto scolorire e quando si aggrappa ai ricordi («Le foto sbiadiscono, i ricordi restano») è il signor Maranov, il loro ospite, nobile russo espatriato e decaduto, ad avvertirla che anch'essi col tempo perdono forza.
Dunque il passato, da solo, non basta. È il rapporto con il presente che manca a Libby e che non le permette di osare spingersi oltre nel desiderare ancora una qualche piccola cosa. Sarah e Maranov hanno in proposito dei suggerimenti da avanzare, sempre con molta consapevolezza e prudenza. Sarah, in uno dei momenti più limpidi del film, ripete a se stessa che «passione e verità è tutto quello che ci serve». Maranov, un Vincent Price che conserva l'impeccabile portamento cormaniano, aveva già avuto modo di illustrare la sua convinzione che per, resistere ci vogliono «volontà e savoir faire». E la giusta misura della recitazione e della regia, entrambe su livelli di vicendevole servizio e contenuta cautela, a sostenere il gioco azzardato della frase gnomica e definitiva, di provenienza teatrale, permettendo al film di evitare ogni stonatura dentro un quadro smorzato in cui predominano le mezzetinte, i silenzi, le sfumature. La superficie narrativa viene appena increspata da qualche scaramuccia e accenno di litigio, tra le sorelle, tra Libby e Maranov. Rispetto alla normalità del consumato percorso quotidiano, le uniche oscillazioni, limitate scommesse sul futuro, sono la proposta di Sarah di far costruire una veranda a vetri sul mare e la richiesta di Maranov, avanzata con titubanza, di trasferirsi ad abitare con le sorelle. Libby, che si sente troppo vecchia per pensare a delle novità, acconsente alla costruzione della veranda e, chissà, forse potrebbe anche tornare sulla sua opposizione ad accogliere Maranov.
Si ristabilisce così, con la forte stretta di due vecchie mani, un patto di reciproca accettazione sotto il segno della cortesia e della gentilezza. Cortesia e gentilezza che, lungo tutto il film, abbiamo visto codificate socialmente nell'osservanza delle regole di un galateo minimo il cui compito è quello di velare la degradazione fisica e di esorcizzare l'avvicinarsi della fine. Maranov e Sarah hanno ben compreso come il rituale dei saluti, della conversazione, delle piccole cerimonie rappresenti una forma, l'unica loro rimasta, di resistenza alla morte. La consapevolezza, per Maranov, è dichiarata: «Ho imparato una cosa dalla vita: a non aspettarmi niente» e i suoi anni li ha passati «a visitare amici». L'operosità di Sarah («Fare, fare, fare, sempre da fare», la rimprovera Libby) e il savoir faire di Maranov nascondono e al tempo stesso rivelano la loro conoscenza del fondo scuro del vivere.
Può apparire singolare che un tale elogio della cortesia sia firmato da un regista come Anderson, passato dalla violenta piazzata di Britannia Hospital a questa misurata riflessione sulla consapevole accettazione del reciproco rispetto nei modi della gentilezza e persino della galanteria. Ma proprio dal sostanziale insuccesso del film precedente deriva il rovesciamento di prospettiva ora messo in atto. In quell'ospedale che doveva allegoricamente rappresentare tutti i vizi del suo paese, Anderson aveva tentato, senza riuscirci, di dar fondo alla propria carica corrosiva, accomunando insieme, in una isterica condanna, i rappresentanti rinsecchiti delle classi alte e i vocianti, sguaiati portavoce di quelle subalterne. Ma i colpi erano, quasi tutti, portati alla cieca e proprio l'incontrollata smania distruttiva rendeva il film debole e superficiale. La protesta non aveva più forza e chi la incarnava era affetto dagli stessi mali dei suoi avversari. In Britannia Hospital si esauriva nell'inutile esasperazione la caotica rivolta dell'arrabbiato, giunto all'aristocratico e molto britannico rifiuto e disgusto di tutto e di tutti. Altrettanto britannicamente, con elegante e conseguente voltafaccia, Anderson passa ora ad elogiare la gentilezza come forma di resistenza al tempo e di avvicinamento alla morte. Più che di una svolta si tratta di una presa d'atto. E va riconosciuta ad Anderson la insolita capacità di dichiarare chiusa una partita e di cominciarne un'altra diversa e rischiosa. Forse, l’angry man resiste ancora, sia pure non più giovane. L'apprezzamento della gentilezza e della cortesia è forse oggi una virtù degli arrabbiati.
Bruno Fornara, Cineforum n. 269, 11/1987

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