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Messaggero d'amore - Go-Between (The)


Regia:Losey Joseph

Cast e credits:
Soggetto: dal romanzo di L.P. Hartley; sceneggiatura: Harold Pinter; fotografia: Gerry Fisher; musiche: Richard Rodney Bennett, Michel Legrand; montaggio: Reginald Beck; scenografia: Carmen Dillon; costumi: John Furniss; interpreti: Julie Christie (Marian), Alan Bates (Ted Burgess), Margaret Leighton (Mrs. Maudslev), Michael Redgrave (Leo Colston), Dominic Guard (Leo Colston), Michael Gough (Mr. Maudsley), Edward Fox (Hugh Trimingham), Richard Gibson (Marcus), Roger Lloyd Pack (Charles), Simon Hume Kendall (Denys), Amaryllis Garnett, Keith Buckley; produzione: Robert Velaise, John Heyman per Mgm; origine: Gran Bretagna, 1970; durata: 118’.

Trama:Agli inizi del secolo, il tredicenne Leo, orfano di padre e di modesta condizione sociale, viene ospitato in una sontuosa villa del Norfolk dalla ricca famiglia del suo amico Marcus. Rimasto affascinato dalla bella Marian, sorella maggiore del ragazzo -che è la sola a trattarlo con affettuosa gentilezza- e forse inconsciamente innamorato di lei, Leo accetta di portare, segretamente, le missive che la giovane si scambia con l'uomo -di ben diversa classe sociale- del quale è innamorata: il fattore Ted Burgess. Il ragazzino, che un giorno capisce, con dolore, cosa significhino quei messaggi, non ne fa parola con nessuno, tanto più che Marian è ufficialmente fidanzata con Lord Trimingham; la relazione viene però ugualmente scoperta, con tragiche conseguenze: Ted, infatti, si uccide. Molti anni dopo, la vedova Lady Marian Trimingham chiederà al poco meno anziano di lei Leo – -cui l'esperienza avuta da adolescente ha inaridito affetti ed emozioni – di farle ancora una volta da intermediario per convincere il nipote, discendente dalla sua relazione con Ted Burgess, a non sacrificare come lei gli istinti del cuore a vantaggio delle convenienze sociali.

Critica (1):Ancora una volta, come è uso fare, Losey isola un gruppo di persone in un determinato ambiente e ne osserva le reazioni: è l'ambiente che funge da catalizzatore dei sentimenti di questa gente, che è portata a « confessarsi », a rivelare quella sua vera natura che nelle circostanze solite è celata sotto la crosta delle abitudini codificate (gente composita, nel cui seno si scontrano due concezioni di vita).
Si tratta, anche stavolta, di aristocratici e di maggiorenti dell'Inghilterra « domina », sicura dei suoi privilegi. Un nucleo familiare che trascorre le vacanze nella sua magione di campagna, con ospiti di riguardo, tra letture, gite, cavalcate, merende, tutte cerimonie officiate con il senso preciso di un diritto inamovibile, anzi benedetto dall'Alto (vedi le preghiere in comune, cui presiede il capo della famiglia a cui partecipano tutti, fino all'ultima persona di servizio – e non sarebbero concepibili defezioni).
Non è soltanto l'amore di Marian (pur destinata ad un giovane del suo rango) per un fattore del luogo, per un servo, ad incrinare la compattezza di questa struttura, giungendo sino al dramma. Vi sono altri elementi di disturbo, che mettono in discussione i principi inserendosi più sottilmente nella compagine, costringendola a manifestarsi nei suoi aspetti più scoperti, senza il paludamento e la sussiegosa solennità degli atteggiamenti «pubblici», che ottundono il giudizio col fasto e la magniloquenza.
Nell'ambiente, cioè, si insinua un elemento «diverso», il piccolo Leo, un ragazzo di estrazione modesta, figlio di un bancario con la passione dei libri vecchi. Più che «messaggero d'amore», Leo è un intermediario – «go-between» significa appunto «intermediario» – tra le classi povere e le classi ricche, tra chi deve esercitare le sue capacità per guadagnarsi da vivere giorno per giorno e chi deve esercitare le sue soltanto per conservare i benefici del censo. Il motivo della «diversità» è tipico di Losey: c'è spesso, nei suoi film, un elemento estraneo, solitamente messo da parte, quando non perseguitato, dagli «altri», da quelli che si sentono la norma. È Leo che fa da tramite fra Marian e il suo fattore, Ted, che partecipa dell'uno e dell'altro ambiente, quello della casa padronale e quello della fattoria, ed è Leo che, unico, riconosce in un angolo buio della ricca magione la presenza di un'erba velenosa. Gli altri non la sanno vedere, sono tranquilli e sicuri: Leo presagisce con la sua presenza qualcosa di inquietante, un motivo di guasto e di cambiamento, ed è lui che guiderà la signora Maudsley, la sera del suo compleanno, sul luogo dove si compie il «mescolamento di sangue» fra Miriam e l'uomo appartenente alla casta inferiore.
Sarà lui, cioè, il testimone della rottura che si compie in seno all'equilibrio familiare e sociale dei Maudsley. Questi elementi diventano racconto cinematografico attraverso un uso molto trasparente dei simboli. Più scoperti ancora, ma anche più banali, sono alcuni accenni del dialogo a quello che possiamo chiamare lo «scontro delle classi» (ricordiamo le propensioni di Pinter). A Leo che è solito accomodare i vestiti spogliati per andare a letto, il coetaneo Marcus impone: «I vestiti li raccolgono i servi»; e quando Leo viene felicitato, per aver vinto al «crickett», sia dai suoi compagni di gioco, gli aristocratici, che dagli avversari, i dipendenti, Marcus lo compiange: «Hai dovuto sorbirti i complimenti di tutti quei bifolchi». Questa partita di «crickett» – realizzata con uno straordinario potere di osservazione – simboleggia appunto il conflitto delle classi, la lotta del contado contro il «padrone», condiscendente e paternalistico nelle sue degnazioni (ed è vinta dal ragazzo che, pur vivendo nell'area degli aristocratici, non può ignorare i diritti dei dipendenti, non può impedirsi di considerarli esseri umani a tutti gli effetti. Ecco perché non può capacitarsi che Marian non sposi Ted, se lo ama). Che ci sia del marcio, sotto il lustro, appare manifesto. Il pretendente di Marian, il visconte di Trimingham, può essere uno squisito uomo di mondo («Non esiste colpa che sia della donna», sentenzia; e durante la partita di «crickett» suscita l'ammirazione di Marcus: «Che stile, vero? Impeccabile ed elegante». Non fa nulla se poi perde); ma l'amore obbedisce ad altre leggi. Il tradimento del suo «clan» perpetrato da Marian, complice Leo, è la vergogna nascosta della famiglia. I sospetti ci sono da un pezzo, poiché fin dall'inizio la madre di Marian sa qualcosa, quando non vede di buon occhio la gita della figlia in città. Ma nessuno deve parlarne, tutto deve continuare come sempre. Tanto più clamoroso appare lo scatto della signora Maudsley quando rompe l'atmosfera festosa della cerimonia – si festeggia il compleanno di Leo, tutti hanno in testa buffi berrettucci di carta, tutti hanno atteggiamenti benignamente beneauguranti – per trascinare questo ultimo, e farsene trascinare, sul luogo dove la verità finalmente esplode. Salvo essere riassorbita subito dopo dalle convenzioni, costi quello che costi (Ted si suicida, e Marian diventerà la Viscontessa di Trimingham).
Questo della occultazione dei sentimenti e dell'iato tra la facciata sociale della rispettabilità esteriore, imposta dal conformismo, e i desideri repressi, e comunque il diverso e meno limpido comportamento di chi professa questo impocrita atteggiamento, è uno dei motivi tipici di Losey. «Una cosa mi spaventa: è vedere come gli uomini si distruggono fra di loro con l'ipocrisia» – è una dichiarazione del regista di diversi anni fa. Anche in Messaggero d'amore, come in Il servo e in L'incidente, dietro la facciata dei luoghi austeri e pieni di decoro si cela la corruzione o si soffocano i sentimenti: anche qui, come nei due film citati, perni visivi dell'azione (aprono e chiudono le vicende) sono le inquadrature delle facciate delle dignitose abitazioni in cui si svolgono i fatti narrati.
Un altro motivo di Losey, ben presente anche nel film in esame, è quello che discende dalla condanna della ipocrisia, cioè la condanna dei cuori «insensibili e freddi», la condanna di chi si lascia sottomettere dalle regole di un gioco tanto pomposo quanto sterile, e di chi si rassegna, si umilia, rinuncia. «La corruzione deriva dal fatto – ha detto ancora Losey – che la gente accetta di vivere con delle idee che non sono le sue. Delle idee imposte, questo è il problema della maggior parte della gente. Vivere come individui, o vivere nella standardizzazione delle personalità, facendo proprie le regole imposte dall'esterno. E la corruzione più pericolosa è quella di coloro che hanno smesso di protestare, di quelli che accettano e subiscono. In definitiva la rassegnazione è una suprema corruzione». In Messaggero d'amore, questa posizione appare dalla singolare strutturazione del film, cioè dalla giusta posizione fra «passato» e «presente». Siamo, con questo, alla questione del tempo, della memoria, dei «flashback» (o dei «flash-future»). Il romanzo da cui il film è tratto era tutto raccontato in un unico «ritorno all'indietro», ma Losey ha complicato le cose. Qui quello che possiamo chiamare il presente domina tutta la vicenda in una maniera particolare, non soltanto perché, contrapponendosi ai colori solari della giovinezza, i suoi colori smorzati e i suoi grigi appaiono fin dai titoli di testa (la finestra rigata di pioggia) e sfociano nell'epilogo (nel quale, si noti, è il passato ad incunearsi con «inserti»), ma anche perché tale presente si inserisce a tratti lungo tutta la vicenda in lampi che superficialmente possono apparire elementi di «suspense», ma che sono invece richiami precisi ad una realtà che è lo sviluppo logico di tutti i fatti accaduti in quella decisiva estate, nel Norfolk. lo non vedo proprio che il film sia un tuffo nostalgico nel passato, e tanto meno una rinuncia al presente.
Non trovo che esista una «epoca attuale» di contro ad una «epoca lontana»: ambedue appaiono «momenti» dello stesso discorso (e ciò supererebbe ogni discussione circa il fatto che il film sia il racconto di un ieri incorniciato nell'oggi – che presagisce l'oggi, se vogliamo – o il racconto di un oggi che «ricorda» l'ieri). Comunque sia, il passato non è considerato né con compiacenza né oggettivamente: si potrebbe sostenere che i fatti sono visti da Leo invecchiato, ricordati alla luce di quanto è accaduto dopo, forse trasfigurati dalla « diversità » del perduto continente della giovinezza.
Indubbiamente Leo è anche il «messaggero» tra passato e presente. A questa luce l'epilogo non appare forzato, rispetto agli altri fatti, ma necessario ai fini che si prefigge Losey, quello cioè di mostrare come la repressione e la rinuncia provocano l'aridità, l'insensibilità, il fallimento di tutta un'esistenza.
A questo riguardo Losey non manca di ambiguità (anche l'ambiguità è una delle componenti del suo mondo espressivo). Marian oscilla tra la sensibilità di chi è ricco di sentimenti autentici (il bel momento in cui si lascia consolare, piangente, dal piccolo Leo, che in quell'ora è «promosso» veramente al rango di adulto) e la convenzionalità miope della sua classe (quando tratta Leo come un servo, e non è soltanto per provocarne la reazione che fa comodo); Leo, diventato vecchio, è un mistero. Che si sa della sua vita? Perché non si è sposato? Qualcuno ha avanzato l'ipotesi che, come i protagonisti di Il servo e di L'incidente, subisca attrazioni eterodosse. Vedi anche l'atmosfera da sortilegio di quella estate eccezionalmente calda (il «leitmotiv» del termometro), le inquietudini di certi accenni come la luna nel cielo, la reiterazione delle inquadrature dei cervi nel bosco, e tutta la faccenda della magia di Leo.
Questa è la parte meno convincente del discorso di Losey, che mentre riesce a rendere benissimo la complessità dei rapporti umani attraverso lo scontro dei personaggi, e toni ed atmosfere attraverso l'uso di mezzi espressivi semplicissimi (i «campi lunghissimi» sul paesaggio agreste attraversato da Leo mentre corre a consegnare le lettere, per esempio), non si stacca dai sedimenti letterari del suo stile, che appesantiscono (e danneggiano) l'esposizione. Il film, che pure forma una triade piuttosto compatta con le due pellicole ripetutamente citate (anche quelle sceneggiate da Pinter), e non mi sembra possa essere messo da parte come «inutile» anche se «bello», rischia di essere frainteso per colpa anche di una musica pur bella in sé ma eccessivamente «romantica», che sottolinea l'aspetto meno importante della vicenda. In certo senso contraddice la posizione di Losey. Il fatto è, forse, che lo stesso Losey subisce il fascino di quel che va criticando, che forse lui stesso è immischiato in quelle contraddizioni che pure definisce con lucidità. Tra queste due dimensioni il «messaggero» è lui.
Ermanno Comuzio, Cineforum n. 107, 9/1971

Critica (2):Rispetto al Servo e all'Incidente, Messaggero d'amore presenta un punto di vista e una situazione-tipo rovesciati: l'intruso questa volta diventa la vittima. I toni sono meno aspri, più teneri e partecipi rispetto ai due film precedenti: il protagonista, per la sua età, si trova in un situazione che nel testo di Girard viene definita come mediazione esterna, ed è caratterizzata da una distanza tra il soggetto desiderante e il modello tale da impedire il crearsi di una vera rivalità. Questo è anche il caso dei bambini rispetto ai loro genitori o ad adulti comunque fonte per loro fondamentalmente di ammirazione.
Si tratta di un racconto di formazione, anche se fallimentare, in negativo, in quanto la figura di Leo da anziano suggerisce una sua incapacità di superare emotivamente quanto avvenuto durante quell'estate lontana (qui è soprattutto la dimensione temporale a richiamare quel senso di chiusura, di impossibilità a sottrarsi alla negatività, che altrove è maggiormente collegata allo spazio). «Il passato è un paese straniero» recita una voce fuori campo nel prologo, e l'estraneità sembra essere sostanzialmente il tempo dell'illusione di felicità prima della scoperta traumatica: il verde brillante della natura illuminata dal sole fino al grigio della pioggia del giorno fatale, che ritroviamo nel presente della vita di Leo, e che si rispecchia nel vuoto del suo sguardo. La vicenda si svolge ai primi del Novecento nella campagna inglese: l'aristocrazia presso cui il ragazzo di modesta estrazione viene invitato a fare una vacanza è una classe sociale che di nobile non ha più molto che non siano antichi rituali, ormai in crisi da tempo rispetto all'idea della propria superiorità. A parte Trimingham, che nella vicenda è l'unico personaggio a dimostrarsi realmente nobile perché lo è d'animo, i Maudsley non mancano di sottolineare le differenze sociali in modo più o meno scoperto, ogni qualvolta se ne presenti l'occasione. È il segno di una vol garità tutta borghese nel concepire il peso "economico" dei propri comportamenti e delle regole che li codificano: Leo è accolto con una benevolenza condiscendente, che però gli verrà rinfacciata ogni volta che farà resistenza nel farsi usare. È e resta un intruso, che questa volta subisce, venendone sconvolto, la violenza manipolatoria degli abitanti della casa. Affascinato dalla coppia di amanti Marian e Ted, che approfittano della sua esclusione-estraneità all'ambiente della giovane per servirsene come tramite, Leo si trova imprigionato in una ragnatela di menzogne a cui tenta inutilmente di sottrarsi, e che produrrà naturalmente degli esiti drammatici. La menzogna, però, non sta solo nella relazione tenuta segreta tra la nobildonna e il fattore, sta soprattutto nella strumentalizzazione affettiva del ragazzo, illuso e poi deluso traumaticamente dalla coppia di genitori idealizzati, e soprattutto dall'ambiguità morale della bella Marian: è lei che, sospesa tra le dimensioni dell'obbligo sociale e del vero amore, semina il male per l'incapacità di scegliere, e che da anziana rivendicherà il diritto di aver goduto dei privilegi di entrambe le esperienze, senza manifestare alcun rimorso o senso di responsabilità per la morte di Ted o l'evidente aridità emotiva di Leo. È lei la ciliegia della pazzia, la "belladonna" velenosa che a un certo punto Leo vorrebbe distruggere con le sue arti magiche: il suo è il veleno dell'ipocrisia profonda.
Elisabetta Mustillo, “Il mondo secondo Losey e Pinter”, in Cinemasessanta n. 296, aprile/giugno 2008

Critica (3):

Critica (4):
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