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Charley Thompson - Lean on Pete


Regia:Haigh Andrew

Cast e credits:
Soggetto: dal romanzo "La ballata di Charley Thompson" di Willy Vlautin; sceneggiatura: Andrew Haigh; fotografia: Magnus Nordenhof Jønck; musiche: James Edward Barker; montaggio: Jonathan Alberts; scenografia: Ryan Smith; arredamento: Jenelle Giordano; costumi: Julie Carnahan; interpreti: Charlie Plummer (Charley Thompson), Steve Buscemi (Del Montgomery), Chloë Sevigny (Bonnie), Travis Fimmel (Ray), Steve Zahn (Silver), Thomas Mann (Lonnie), Justin Rain (Mike), Rachael Perrell Fosket (Martha), Lewis Pullman (Dallas), Frank Gallegos (Santiago), Julia Prud'homme (Ruby), Bob Olin (Sig. Kendall9, Jason Rouse (Mitch); produzione: THE BUREAU, in associazione con BFI, FILM4; distribuzione: Teodra Film; origine: Francia-Gran Bretagna, 2017; durata: 121’.

Trama:Il 15enne Charley Thompson sogna di avere una vita più stabile: una casa, qualcuno che gli prepari da mangiare, non dover cambiare scuola in continuazione e avere la possibilità di farsi degli amici. Insomma, una vita normale. Ma vivendo con un padre single, Ray, operaio specializzato non solo nel suo lavoro ma anche nel cacciarsi nei guai, la normalità sembra una vera e propria chimera. E tutto sembra andare ancora peggio quando padre e figlio, sperando in un nuovo inizio, si trasferiscono a Portland, in Oregon. Sentendosi più solo che mai, un giorno Charley decide che è arrivato il momento di prendere in mano la sua vita e cercarsi da sé un futuro migliore. Così, con il suo unico amico, un vecchio cavallo da corsa di nome Lean on Pete, si mette in viaggio attraverso l'America profonda...

Critica (1):Charlie Thompson è un adolescente di Portland, Washington. Corre, si allena, passa le giornate e anche buona parte delle notti in piena solitudine. Vive con il padre, un ragazzone affettuoso ma incapace di badare a sé stesso, e non ricorda nulla della madre, da tempo fuggita di casa. Ricorda però la zia, la sorella del padre che non incontra da anni ma della quale conserva preziosamente una foto. Dietro quella foto, c’è l’impronta sbiadita di una mano: il ricordo di una presenza, il segno di un’assenza. Come in ogni film di Andrew Haigh.
Il cavallo a cui Charlie si affeziona dopo aver cominciato a lavorare nel mondo delle corse equestri, uno splendido esemplare chiamato Lean on Pete (qualcosa come “conta su Pete”), è la materializzazione di quell’assenza, la forma concreta assunta da tutti i fantasmi della vita del ragazzo. Non un amante perduto in un futuro incerto, dopo aver conosciuto l’amore; e nemmeno una donna riscoperta nel passato, dopo aver vissuto l’illusione dell’amore (Weekend e 45 anni, in fondo, sono lo stesso film ribaltato specularmente…). Piuttosto, una presenza vera e pesante, un animale impassibile e indifferente che accoglie però la solitudine del protagonista.
Charlie parla a Pete, lo assiste, lo guida, lo protegge, ma il rapporto tra i due non ha nulla di reciproco o sentimentale. Charlie nemmeno sa montare Pete, semplicemente lo tiene per la briglia e gli cammina a fianco. La sua storia drammatica da orfano sperduto e il suo viaggio tra stato di Washington, Oregon e Wyoming (adattati dal romanzo La ballata di Charlie Thompson di Willy Vlautin) non appartengono all’immaginario del western o del road movie, nonostante la fuga e la vastità degli spazi attraversati. Charlie cerca una mano che corrisponda all’impronta, un approdo che completi il suo tragitto.
L’immersione nell’ambiente delle corse di cavalli (che riporta alla mente un grande film di Nicholas Ray, Il temerario), nella desolazione del deserto, nella povertà estrema degli homeless rappresentano per il protagoniste le tappe di una discesa nell’abisso che potrebbe sfociare nel martirio. La parabola di Charlie è sempre a un passo dal patetico, a cominciare dalla relazione con Pete. Haigh, però, non dimentica mai la centralità della figura nell’inquadratura, non perde l’attenzione per i corpi in quanto tramite dell’emozione e mai semplice presenza da osservare e compatire. Al contrario, grazie a piani spesso più lunghe del necessario, sono i personaggi stessi a guardarsi, cercarsi e avvicinarsi. Il fantasma sta oltre le immagini, mentre in scena ci sono uomini e donne che costruiscono semplice relazioni di vicinanza e affetto, che nell’incontro reciproco – in un diner, nell’abitacolo di una macchina, nella cucina di una casa nel deserto – sviluppano un’idea di familiarità.
I personaggi interpretati da Steve Buscemi e Chloe Sevigny, l’anziano allenatore di cavalli che prende Charlie sotto la sua ala e la fantina che gli si affeziona, per quanto a un certo punto abbandonati, lasciano anch’essi l’impronta del loro passaggio, regalano a Charlie un’affettuosità spiccia eppure comprensiva.
Non esistono padri, madri o amanti in Lean on Pete: l’umanità sembra rinunciare alle proprie categorie e alle proprie funzioni per offrire semplicemente vicinanza. Come un cavallo da corsa che non regala nient’altro che la propria velocità. Senza aprirsi a un modello di sentimentalità nuovo (come invece accade nel romanzo di Hanya Yanagihara Una vita come tante, modellato esplicitamente sulla parabola vicino al martirio di un orfano vessato dal destino e rappresentato come un San Sebastiano indeciso fra dolore e godimento, oltre l’umano e il genere sessuale), Andrew Haigh sfugge alla compassione per il suo personaggio e si arresta alla semplice presenza fisica. Non espone Charlie a uno sguardo voyeuristico, ma lo inquadra in formato 1:85 dentro lo spazio (mentre corre, mentre insegue le corse di cavalli, mentre accompagna Pete nel deserto), come se solo attraverso un figurativismo malinconico e sommesso fosse ancora possibile parlare di sentimento al cinema
Roberto Manassero, cineforum.it, 2/9/2017

Critica (2):La letteratura (il film è tratto dal romanzo di Willy Vlautin La ballata di Charley Thompson, Mondadori, 2004) e il cinema americano sono da sempre abitati da giovani dalle radici incerte, generati da coppie fragili in perenne movimento (da un territorio all'altro, da un lavoro all'altro, da un innamoramento all'altro), con padri e madri di cui spesso vergognarsi ma dai quali non si riesce mai pienamente a distaccarsi. Anche quando ci si sente costretti ad andarsene, percorrendo con monotonia chilometri di strada, attraversando Stati, cittadine, villaggi, fattorie isolate con negli occhi un orizzonte che si confonde con l'infinito, inanellando tanti incontri casuali con tipi stravaganti e spesso infidi con i quali potersi identificare solo per poco. Il desiderio di trovare un affetto, uno scopo, una meta non riesce mai ad assumere il respiro necessario per guardare ad un futuro segnato da sufficienti certezze. Spostarsi senza radici in una fuga senza fine è l'unica ultima declinazione dei tanti variegati sogni della Frontiera, coltivati nella conquista collettiva e nel desiderio di libertà individuale, il mito è morto, ma non nei cuori e nella mente di molti americani (come testimonia anche il trumpismo e con i suoi vivaci sostenitori che intendono nuovamente "fare grande l'America").
Arricchisce l'antologia delle ballate di formazione on the road Lean on Pete (Affidarsi a Pete) il bravo sceneggiatore e regista britannico Andrew Haigh (autore dello straordinario "45 anni") con il suo quarto lungometraggio. Il protagonista Charley (lo straordinario Charlie Plummer, a cui è stato attribuito il Premio Mastroianni come miglior attore emergente) è un adolescente che ama correre solitario in libertà come un maratoneta e sogna un'esistenza stanziale per frequentare a lungo la stessa scuola e divenire un componente della sua squadra di calcio. La madre se n'è andata anni prima e non ha più dato segni della propria esistenza. Vive con il padre operaio, donnaiolo e rissoso, che si trasferisce spesso per lavoro o per qualche guaio che lo costringe a fughe precipitose (così il ragazzo non ha mai vissuto più di un anno nella stessa città) che lo tratta con affetto scanzonato ma al contempo si interessa marginalmente a lui.
Casualmente a Portland, in Oregon, viene assunto come aiutante da un anziano (un disincantato e cinico Steve Buscemi) allevatore di scalcinati cavalli da corsa e si affeziona a Pete (qualcuno da amare e che possa amarlo), un cavallo vecchio, zoppo, destinato al macello. Per salvarlo (nel frattempo il padre si è fatto ammazzare dal marito di una delle sue amanti) attraversa fortunosamente una parte degli States facendo incontri tutti tematicamente significativi con persone infelici, ciniche, senza sogni di futuro (se non di denaro a breve) e disorientate come lui. Nel West vivono solo persone come lui, con il mito della Frontiera sono scomparsi anche i suoi eroi, le figure in cui identificarsi e prefigurarsi il futuro. Pete viene investito accidentalmente e muore. Charley resta solo e disperato. Con fatica, riesce a rintracciare la zia tanto amata nell'infanzia e forse con lei (infelice e sola come lui) potrà vincere le proprie paure e la propria solitudine.
Una narrazione dura, severa, incisiva, convincente sull'America periferica delle grandi pianure, delle solitudini e della mancanza di aspirazioni possibili. Un'America che non sembra poter essere più un Paese per i giovani e per le loro aspirazioni di futuro e di libertà dopo la morte della Frontiera e dei suoi miti. Nonostante Trump. Ma non solo, l'esperienza di Charley è anche simile a quella di tanti giovani che vivono nei territori metropolitani contemporanei in varie parti del mondo: anche lì numerose sono le Frontiere che si sono eclissate e gli orizzonti sembrano popolati soprattutto da fantasmi.
Gianluigi Bozza, Cineforum n. 568, 10/2017.

Critica (3):

Critica (4):
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