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Fratelli - Funeral (The)


Regia:Ferrara Abel

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura
: Nicholas St. John; fotografia: Ken Kelsch; musica: Joe Dalia; montaggio: Mayin Lo; scenografia: Charles Lagola; costumi: Mindy Eshelman, interpreti: Christopher Walken (Ray), Chris Penn (Chez), Vincent Gallo (Johnny), Benicio Del Toro (Gaspare), Annabella Sciorra (Jeanette), Isabella Rossellini (Clara), Gretchen Mol (Helen), John Ventimiglia (Sali), Paul Hipp (Ghouly), Robert Miano (Enrico), Nicholas Decegli (Victor), Amber Smith (Brigette), David Patrick Kelly (Michael Stein), Patrick McGaw (The Mechanic); produttore: Mary Kane; produttori esecutivi: Michael Chambers, Patrick Panzarella; coproduttore: Randy Sabusawa; distribuzione: Life International; origine: Usa, 1996; durata: 98'.

Trama:New York, 1950. Johnny Tempio, giovane mafioso ucciso all’uscita da un cinema, viene esposto in casa secondo tradizione per la visita di parenti e amici: i suoi fratelli, Ray e Chaz insieme all'amico Sali e alle loro donne si trovano tutti intorno alla bara; comincia così una veglia funebre che si risolve in un pretesto per ripercorrere la tormentata vita di Johnny.

Critica (1):Una notte sola e sei flashback: è in questo spazio angusto di una veglia funebre e della memoria che si consuma la tragedia dei tre fratelli Tempio, criminali italo-americani senza redenzione e, letteralmente, senza storia. Perché la loro storia è già stata scritta, nella memoria di Ray, nella pazzia di Chez, nell’idealismo sul generis di Johnny: una storia che è un intreccio pazzesco di imposizioni culturali (dal cattolicesimo, all’ebraismo, alla "onorabilità" mafiosa, addirittura al comunismo), che non lasciano nessuna libertà di scelta. "Se faccio una cosa sbagliata è perché Dio non mi ha dato la grazia", dice Ray alla moglie in un momento della lunga notte. "Se questo mondo fa schifo è colpa sua". E Chez, alla moglie che tenta di convincerlo a curarsi per trovare pace: "Se Dio mi voleva in pace ci pensava lui". E quello che vale per il Dio del cattolicesimo, vale quasi certamente per tutti gli altri santi e dei del mondo nero e disperato di Abel Ferrara. Vale per la santa Agnese protettrice della purezza decapitata perché aveva rifiutato la corte di un signore, per la santa belga che protegge i malati di mente, per i crocefissi e le immagini sacre che costellano le inquadrature e talvolta si mescolano a simboli di scongiuro pagano (come il corno nella catenina al collo di Isabella Rossellini), per il dio del marxismo e quello dell’ebraismo che, coniugati con l’ideale mafioso, impongono solo di seguire una strada tracciata nel sangue e nella violenza. Johnny esce da una riunione sindacale e va a massacrare i corrieri ("operai" anche loro) che trasportano il carico di una banda rivale. Chez cerca di redimere una giovanissima prostituta ma, visto che lei non accetta la salvezza per cinque dollari, per venti dollari la consegna brutalmente all’inferno e la sodomizza. Ray (il maggiore, depositario della legge di famiglia) paga per sempre la sua "maturazione" a tredici anni (quando, con il "bar mitzvah", un ragazzo diventa grande) e la scelta fatta allora, di uccidere con un colpo secco, uno solo, un nemico legato a una sedia in uno scantinato. "Puoi ucciderlo o lasciarlo libero. Ma se lo lasci libero tornerà a vendicarsi di noi", gli aveva detto il padre, l’altro, ossessivo intermediario tra la legge di famiglia e i tre fratelli, l’altro cadavere che pesa nei ricordi, che si è sparato una fucilata, e perciò, lui sì, è in pace (come dice Chez). Nessuna via di fuga, tranne la morte. Forse Chez, il pazzo con gli occhi tristi da ragazzino, con la sua strage ha rotto la spirale. Fratelli di Abel Ferrara non è solo un film sulla mafia, su un’eredità familiare incancellabile e opprimente (quel bossolo esploso che il padre consegna a Ray – "Portalo sempre con te; niente ti costerà mai di più" –, e che Ray seppellisce, dopo la vendetta, nel cadavere di Johnny), sulle guerre tra bande per il potere (potere limitato e illusorio; quello vero, come sottolinea Ray, sta da un’altra parte, per esempio alla Ford), sulle connivenze storiche tra mafia e sindacalismo, su un ideale maschile di "eroismo" violento e una pietà femminile dolorosa e accorata che può solo aspettare che tutti i lutti del cielo si compiano. Se lo è, lo è in maniera certamente inedita, senza alcuna traccia di romanticismo, senza alcuna giustificazione morale, neppure quella morale atavica e antisociale che spesso forma la stoffa degli eroi di massa. Nell’attacco, folgorante, vediamo il primo piano di Humphery Bogart in La foresta pietrificata e Johnny che guarda il film, sfiorato dal cono di luce del proiettore. Un gangster mitico dello schermo (il film di Mayo è del ’36 e, oltre a essere il primo successo di Bogart, introduce sfumature dialettiche e antieroiche nella fisionomia del gangster) e un giovane gangster convinto che siano la radio e il cinema a tenere ancora in vita l’America. La connessione romantica è inevitabile; solo più tardi scopriremo, dalle chiacchiere dei luogotenenti dei Tempio, che Johnny è stato ucciso proprio all’uscita del cinema. Ferrara non forza la vicenda in senso "mitico"; se mai, si limita a far storia: anche Dillinger fu ucciso dall’Fbi all’uscita di un cinema, dove aveva visto il gangster Clark Gable salire alla sedia elettrica in Manhattan Melodrama (Le due strade, 1934) di Van Dyke.
Una fine quasi naturale per il più idealista dei Tempio, che talvolta gioca a fare il bandito gentiluomo e che, alla sua maniera contraddittoria, è impastato di mito americano. Ma anche le leggende, ormai, nel cinema di Ferrara oppresso dalla colpa, sono esaurite; non è più tempo d’ eroi (o di antieroi, come era ancora negli anni Settanta, per esempio nel Dillinger di John Milius). Come dice Annabella Sciorra, la moglie di Ray, invitando con amarezza la fidanzata di Johnny a festeggiare la sua morte e la propria fortuna: "I Tempio sono affascinanti, e noi ci caschiamo. Ma sono criminali, e non c’è niente di romantico in questo". Questi "bravi ragazzi" la loro partita l’hanno già giocata, probabilmente prima di nascere. Possono solo andare avanti per una strada predestinata. Un destino che si concretizza nella propria forma ineluttabile e mortuaria proprio quella notte: una notte di veglia funebre nella quale tutto sfuma nella ritualità della famiglia, o delle "famiglie", famiglia di sangue da una parte, con i suoi bambini inconsapevoli, le sue donne accasciate e i suoi rosari che, si sa, serviranno a ben poco; e famiglia di mafia dall’altra, che esige la vendetta.
Ferrara non concede vie di fuga ai suoi personaggi fin dalla struttura del film; li chiude infatti implacabilmente in quell’unica notte, dal tramonto sottolineato dalla voce di Billie Holliday, con l’arrivo della salma di Johnny in casa Tempio, al mattino successivo, quando Chez va a seppellire il cadavere dell’assassino di Johnny, poi torna a casa e compie la sua strage davanti alla famiglia riunita per la colazione. Le fughe sono solo quelle dei ricordi, assillati anche questi dal lutto, tutti circoscritti e tesi inevitabilmente a quell’unico punto. Per questo Fratelli (fin dal titolo originale, The Funeral, che sottolinea immediatamente la claustrofobia dell’insieme, mutato in Fratelli probabilmente per ragioni superstiziose) non è solo (e neppure soprattutto) un film sulla mafia, bensì un’inevitabile tragedia familiare, una rincorsa di hybris e nemesis scatenatasi indietro nel passato (un passato certamente anteriore a quel primo delitto di Ray adolescente) che giunge finalmente a compimento. Come ha scritto Roberto Escobar, ai fratelli Tempio "non è concesso di riscattare la loro condizione con altre e diverse azioni. Come capita agli eroi tragici, possono opporre alla necessità niente più che il coraggio impotente della consapevolezza. In ogni caso, per quanto facciano e dicano, sanno che l’unica libertà che loro appartenga consiste nel cercare di mettersi all’altezza del fato (...). Qualunque cosa abbiano fatto, qualunque cosa facciano questa notte, i fratelli Tempio pagano una colpa che non è la loro, e che si può esprimere come trionfo "cosmico" della morte. L’inferno ci attende, dice Ray all’assassino di Johnny pochi istanti prima di sparargli: dunque, conclude, conviene abituarcisi subito, adesso. Oppure, come direbbe Chez, si può anticipare l’inferno, si può eludere la circolarità interminabile della morte scegliendo la morte".
Emanuela Martini, Cineforum n. 358, ottobre 1996

Critica (2):La visione di The Funeral è un'esperienza straziante, dolorosa, sconvolgente. Non solo non è un film che può lasciare indifferenti, ma ha dentro un qualcosa come di misterioso, di intrigante e allo stesso tempo inquietante. È come se fosse pervaso da una forza "infernale", come se fosse stato scritto in preda al panico, come se fosse stato girato con la disperazione dentro al cuore. Perché il dolore, la sofferenza che emanano i protagonisti del film è davvero immanente, un qualcosa che va oltre quello che si vede sullo schermo, oltre i ragionamenti su morale, sacro, famiglia e tradizione che il cinema di Abel Ferrara e Nichelas St. John da diversi anni propone insistentemente (e spesso nel "vuoto critico" più totale). Ed allora non meraviglia lo scoprire che St. John ha scritto la sceneggiatura «quando aveva perso da poco il primo figlio e voleva raccontare soprattutto il suo rovello sulla morte» (parole di Abel Ferrara), e che lo stesso Ferrara ha diretto il film proprio nel periodo in cui stava separandosi dalla moglie. La morte e la separazione sono infatti le due figure "autobiografiche" che "graffiano" il film fino in fondo, immergendolo in un regno oscuro, confuso, nero. Ferrara parte dalla storia "culturale" del nonno, italo-americano arrivato in America poverissimo, impregnato di una cultura tradizionale in cui la famiglia era tutto. E in cui la vendetta era parte integrante di questa cultura. E qui The Funeral mette in scena un lungo, dolorosissimo, vero funerale, che non è solo quello del giovane Johnny Tempio, ma è quello (come ha scritto lucidamente Mariuccia Ciotta su "il manifesto") dell'intero "immaginario mafioso". E i temi del film sono continuamente mescolati l'un l'altro, anche grazie alla struttura narrativa che procede per sovrapposizioni, attraverso ripetuti flashback, che spostano l'azione dalla lunga giornata di veglia al morto da parte della famiglia Tempio, al passato, lontano (quello del maggiore dei tre fratelli, Ray, che giovanissimo viene "iniziato" al delitto e alla pratica della vendetta dal padre, che poi finirà suicida) e recente. Proprio il "passato recente" permette a Ferrara di mostrare il carattere e l'esuberanza di Johnny, mettendo insieme, curiosamente e forse per la prima volta, comunismo e mafia, in un cocktail apparentemente assurdo e improponibile, ma che invece risulta ben funzionale al discorso del film. Perché non tanto di conflitto generazionale si parla qui, né solo del diverso approccio che i tre fratelli (Ray, il più ponderato ed esperto, Chez, il più emotivo e vulnerabile, e Johnny il più imprevedibile e poco conciliabile) hanno con il problema sindacati industriali (dove Johnny in un suo strano comunismo giovanil-anarchico non sopporta di essere pagato dai padroni per dare addosso agli operai in sciopero). Il cuore di The Funeral è nel rapporto che i tre fratelli hanno con il concetto di famiglia. E cioè la tradizione, il legame indissolubile che nulla può scalfire, né le diversità di opinioni e di stili di vita, né quella dei destini individuali. Ferrara in modo esplicito sembra provare una specie di nostalgia, come un rimpianto per quello che era una volta il "calore" della famiglia, quella solidarietà di un tempo che non ti faceva mai sentire solo, ma sempre parte di un qualcosa. Ma quella sorta di protezione naturale si ritorceva contro ogni desiderio/possibilità di libertà, e la tradizione diveniva un macigno insostenibile, una vera oppressione. E The Funeral ben rappresenta i conflitti, soprattutto interiori, che all'interno della famiglia laceravano - nascosti - i rapporti tra i suoi vari componenti. E qui che i personaggi femminili, in particolare quelli di Jean (Annabella Sciorra) e Clara (Isabella Rossellini), benché abbiano quantitativamente poco spazio, assumono invece una rilevanza `morale" fortissima (e Ferrara racconta come i distributori gli abbiano chiesto di sostituire le scene con le donne con qualche sparatoria... ma lui ha rifiutato sostenendo che «è grazie a loro che il film acquista profondità»). Jean attraverso i discorsi che fa prima con il prete (lo supplica, quasi, di pregare per la sua famiglia) poi con il marito Ray (cercando di convincerlo di non farsi coinvolgere nella morsa della vendetta, di non infilarsi in un bagno di sangue inutile e senza fine), la Clara della Rossellini attraverso il "non detto", attraverso una recitazione fatta di piccoli gesti, di sguardi, di parole come rimaste in bocca, con quella sequenza straordinaria in cui, seduta al tavolo in cucina, con una sorta di piccola nostalgia per l'Italia, rimpiange i pinoli che da piccola poteva raccogliere per strada e che in America costano invece tantissimo, come pure in quel quadro finale drammatico in cui non riesce a bloccare la furia omicida/suicida del marito Chez. Sia il personaggio della Sciorra che quello della Rossellini rappresentano una morale diversa, quella che Ferrara predilige come punto di vista, che non basa la propria vita sull'odio, sulla vendetta, sul sangue, ma sull'amore, sul perdono sul vivere "cristianamente"
Federico Chiacchiari, Cineforum, n. 258, ottobre 1996

Critica (3):

Critica (4):
Abel Ferrara
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