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Go fish - Segui il pesce - Go fish


Regia:Troche Rose

Cast e credits:

Sceneggiatura: Rose Troche, Guinevere Turner; fotografia: Ann T. Rossetti; montaggio: Rose Troche; musica: Brendan Dolan, Jennifer Sharpe, Scott Aldrich; interpreti: V. S. Brodie (Ely), Guinevere Turner (Max), T. Wendy McMillan (Kia), Migdalia Melendez (Evy), Anastasia Sharp (Daria), Mary Garvey, Jennifer Allen, Walter Youngblood, Daniela Falcon, Arthur C. Stone, Elsphet Kydd, Tracy Kimme, Brooke Webster; produzione: Rose Troche, Guinevere Turner per Can I Watch Pictures, in coproduzione con Kalin-Vachon Productions; distribuzione: Nemo; durata: 85'; origine: USA 1994.


Trama:Max è una giovane lesbica single in cerca di una storia d’amore. Le amiche con cui divide l'appartamento, Kia ed Evy, si uniranno a Daria nel felice tentativo di fare nascere una relazione tra Max e la timida Ely che lavora da un veterinario e ha una relazione con una ragazza che abita in un'altra città e che non vede mai. Apparentemente le due donne non hanno nulla in comune, ma alla fine...

Critica (1):Bianco e nero sgranato, primissimi piani, macchina da presa appiccicata sui volti e sui corpi delle protagoniste, in un film per certi versi quasi “moralista”, quasi “pudico” nel desiderio e nella paura del mostrare. Una voce narrante (quella di Max) che però non narra la storia, ma forme idee frammenti pezzi di immaginario sentimenti emozioni giochi verbali. Il film scorre per conto suo tra giochi di “ruolo”, scambi mentali, ricognizioni su mondi separati, dove lo sguardo alieno è quello dominante, e dove a volte l’alienità diviene – persino – regime. Questo e altro è Go Fish. Film “caso” del 1994, piccolissima produzione indipendente che trionfa in giro per il mondo, dal Sundance Film Festival (quello di Robert Redford) a Berlino fino a Riminicinema. Due cineaste, Rose Troche (qui regista del film) e Guinevere Turner (protagonista) scrivono a quattro mani questa storia tutta dentro la comunità lesbica di Chicago, la girano con quattro soldi in bianco e nero con attrici non professioniste in quarantacinque giorni, poi si bloccano per problemi di finanziamenti fino a quando non trovano Tom Kalin e Christine Vauchon e in meno di una anno il film è pronto. Distri­buisce Samuel Goldwyn, ed è subito un successo, oltre 2 milioni di dollari negli Stati Uniti. Ma che cos’è Go Fish? Un film di donne con solo donne per sole donne? Mah, forse. E un film che irrita le anime perbeniste e tutti quelli che hanno le certezze facili, come quelli che scrivono su “La Repubblica”... per i quali il film è “maniacalmente femminile” cioè irritante (!), è un film dove “non succede niente” (!!) e dove queste ragazze non fanno altro che pensare al sesso... insomma un film quasi da maniaci sessuali... e meno male che sono donne sennò ci scappava anche il mostro (Benigni docet...). Ecco, tutto questo è cosa non è Go Fish. E allora scopriamo che certi giornali - se letti beni - ci aiutano a scegliere. Basta rovesciare i sensi e le parole. Dunque è un film in cui non succede niente... cioè tutto. Perché quello che si muove qui sono i corpi, sono i desideri, la voglia di rapporti nuovi, di non cadere nei soliti cliché, anche e soprattutto quelli del ghetto (qui lesbico). Ci sono cinque donne non sull’orlo di una crisi di nervi, ma ironiche, colte, autodi­datte, intelligenti e anche autocritiche, che vivono come una colpa il loro lesbismo - e la meraviglia del film sta tutto qui, in questo suo sguardo dolce e amaro sulla comunità, in quel vedere il gioco dei sentimenti tra lesbiche “come se fosse norma­le”. Come se gli eterosessuali non esistessero, come se il mondo fosse libero... E infatti, al momento “nero” del film è quella specie di processo di strada fatto a Daria rea secondo il “grup­po” di essere andata a letto con un uomo. Bella questa idea di un mondo gay non piagnucolone che non sta sempre a lamentarsi del mondo “esterno” che lo reprime, ma che invece addirittura gioca, e anche seriamente sui pregiudizi interni, su come sui sentimenti la libertà può essere negata ovunque (e qui Fassbinder docet...). Allora Go Fish può essere visto come un manifesto della comunità lesbica di Chicago, ma per quel suo disinteressarsi quasi dell’universo maschile eterosessuale, in realtà ci dice cose sui rapporti, sull’amore, sulla violenza dei sentimenti che involon­tariamente (davvero?) sono terribilmente universali. Perché i sentimenti sono tali per tutti. Anche in una società che li comprime in gabbie ghetti e robe del genere. I caratteri delle protagoniste sono ben marcati. Kia è l’intellettuale del gruppo, ma spiritosa e autoironica: Evy, caratteri asiatici, sta con Kia, ma ha avuto un flirt con Daria, e deve lottare continuamente con la chiusura della sua famiglia (e qui c’è l’unica intrusione “extraconiugale”), Daria è il bulletto del gruppo, quella che cambia donna ogni giorno, fino a “sperimentare” persino un uomo e a dover subire una sorta di processo per questo. Poi ci sono Max e Ely. La giovane max è l’elemento “motore della storia, il luogo da cui partire per poi ritornare. Kia, Daria, Evy e le altre giocano con lei, ma affettuosamente nel tentativo - alla fine riuscito – di farla “mettere insieme” con Ely, la più timida e bruttina del gruppo. Ovviamente tra le due le cose non vanno facili facili e qui spesso il film è divertente e pura commedia. Ely è insicura e pensa ancora a una sua vecchia storia ormai perduta, Max è un’anima inquieta, e le sue riflessioni le scrive su un diario, e sono attimi frammenti, dove le difficoltà del vivere appieno i propri sentimenti sono mostrate in un linguaggio estremamente rarefatto, cioè “poetico”, oppure semplicemente, bello. Max ed Ely vanno al cinema, si trovano, ma non va. Si perdono, ma poi – continuamente – si pensano, e infine in una messinscena costruita con abilità dalle altre del gruppo si ritrovano. Quello che colpisce in Go Fish è forse anche il suo limite. E qui c’è da dire che l’imbarazzo vero, per chi scrive di cinema, non è quello di vedere omosessuali e lesbiche e le loro storie amorose, anzi. L’imbarazzo sta nel sentire a volte di “dover” in qualche modo parlare bene di un film nonostante tutto. Go Fish, nel panorama del cinema attuale, e cioè di quello che si vede nel circuiti commerciale, è un film anomalo, diverso, un piccolo dolce fiorellino in un mare di cemento. E solo per questo va difeso, mostrato, per certi versi anche amato. Ma non per questo non si può riconoscerne dei limiti che sono un po’ di un certo cinema indipendente, chi ha visto film indipendenti ameri­cani di Go Fish ne avrà visti a decine (anche se i film lesbici sono comunque una rarità) ma non tanto nel senso della storia, quanto per il linguaggio, appunto quei bianche e neri sgranati, con i flash che sembrano quasi degli squarci di realtà. Ne abbia­mo visti tanti e francamente non si riesce più facilmente a distinguere un film indipendente USA di dieci o quindici anni fa. Vogliamo dire che se ci dicessero che Go Fish è un film del... 1978 non ci stupiremmo più di tanto. Sì il racconto fila, le protagoniste pure, eppure nello stile, in questo cinema così volutamente “povero” così sfacciatamente underground c’è qualcosa che lascia interdetti. Non stiamo parlando qui di una specie di voglia di True Lies, ma di qualcosa di diverso. Piacerebbe vedere film underground, indipendenti americani con sguardo nuovi, percorsi innovativi e, non pedissequamente ripercorrenti la strada dello Spike Lee di Lola Darling. Spike Lee è grande proprio perché da allora ha cambiato e affinato il suo modo di fare cinema, non si è chiuso né nel ghetto nero né in quello under­ground. Ma forse sono sogni impossibili, forse oggi uscire dal ghetto non è così facile e dato il successo commerciale di Go Fish forse è commercialmente produttivo lo stile in questione. Camere a mano, m.d.p. Complice dei personaggi, cinema fatto di soli corpi, dialoghi e frammenti di luoghi. Claustrofobico, si, ma per scelta. Un po’ come certi centri sociali nostrani. Chiusi nel ghetto e felici di esserci. Ma noi preferiamo i mescolamenti. Le interconnessioni. Cose ed esseri diversi che si fondono. Go Fish è uno sguardo bello e vivace dentro un ghetto e chi ci vive gioca e lotta lì dentro, non sogna tutti i giorni di uscirne. Come un film girato nell’isola prigione di Fuga da New York, una docu-commedia dall’interno. E chi la capisce ok altrimenti si veda il film delle major. Rabbia e ironia. Riflessioni su cinema vita sentimenti e società. E guai a uscire fuori dal ghetto...
Federico Chiacchiar, Cineforum n. 338 1994

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