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Hiroshima mon amour


Regia:Resnais Alain

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura: dal testo omonimo di Marguerite Duras; fotografia: Takahashi Michio (per le riprese in Giappone), Sacha Vierny (per le riprese in Francia); musiche: Georges Delerue, Giovanni Fusco; montaggio: Anne Sarraute, Jasmine Chasney, Henri Colpi; scenografia: Antoine Mayo, Petri Esaka; costumi: Gerard Collery; interpreti: Emmanuelle Riva (Lei), Eiji Okada (Lui), Stella Dassas (La Madre), Pierre Barbaud (Il Padre), Bernard Fresson (Il Tedesco); produzione: Anatole Dauman e Samy Halfon per Argos Film/Como/Daiei Studios/Pathe' Entertainment; distribuzione: Cineteca di Bologna; origine: Francia-Giappone, 1959; durata: 91’.

Trama:Una francese ed un giapponese s'incontrano a Hiroshima, dove la donna si è recata per recitare una parte in un film di propaganda pacifista, mentre l'uomo vi ha il suo domicilio e vi esercita la professione di architetto. Nessuno dei due ha una conoscenza esatta dei terribili casi successi a Hiroshima al tempo della distruzione della città: non hanno "visto". Ma l'architetto giapponese porta la storia di Hiroshima impressa in maniera indelebile nel suo spirito col ricordo della sua famiglia distrutta, così come la donna porta dentro di sé il ricordo del soldato tedesco, che, diciottenne, ella ha amato a Nevers, l'uomo la cui uccisione la trascinò alle soglie della follia. Ora sono entrambi, lo confessano, felicemente sposati. Lei ha cercato di seppellire il passato quando le sono nati i figli mentre lui tenta di superarlo lavorando alla riedificazione della città. Non hanno che poche ore innanzi a sé, poiché la donna deve ripartire per la Francia. Poche ore per sfuggirsi e ricercarsi per le vie, per le piazze, nei caffè, nelle sale di attesa, ma devono lasciarsi: anche sul loro amore cadrà l'oblio.

Critica (1):Ci siamo detti che potevamo tentare un'esperienza con un film in cui i personaggi non partecipassero direttamente all'azione tragica, ma se ne ricordassero, o la provassero praticamente. Noi volevamo creare in qualche modo degli anti-eroi: la parola non è del tutto esatta, ma esprime bene quello che pensavamo. Cosí il giappo­nese non ha vissuto la catastrofe di Hiroshima, ma ne ha una conoscenza intellettuale, ne ha coscienza, proprio, come tutti gli spettatori del film - noi stessi - possono, dall'interno, sentire questo dramma, provarlo collettivamente, senza aver mai messo piede a Hiroshima. Ho letto con sorpresa che taluni collegavano l'esplosione atomica al dramma di Nevers, come se una avesse voluto essere l'equivalente dell'altro. Non è affatto cosí. Al contrario, si oppone l'esperienza immensa enorme fantastica di Hiroshima alla minuscola storia di Nevers, che ci è proposta attraverso Hiroshima, come la luce di una candela ci è rinviata ingrandita e rove­sciata da una lente. (1959)
Alain Resnais, in Alain Resnais di Paolo Bertetto, Il castoro cinema, 5/1976

Critica (2):Alain Resnais (Vannes, 3 giugno 1922) aveva cominciato come montatore. Autore di film sull'arte (Van Gogh, 1948; Guernica, 1949; Gauguin, 1950), documentarista eccellente (Nuit et brouillard, 1955; Toute la mémoire du monde, 1956), giunge al film a soggetto nel 1959 con Hiroshima mon amour, presentato fuori concorso al festival di Cannes (…). La “politica degli autori” comincia a dare i suoi frutti. Il 1959 è l'anno in cui la Francia produce, oltre a Hiroshima mon amour, Les quatre-cent coups di Frangois Truffaut e A bout de souffle di Jean-Luc Godard, e l'Italia L'avventura di Michelangelo Antonioni. Resnais, tuttavia, si considera un isolato. Agli autori della “nouvelle vague” si sente legato, al massimo, da affinità personali (“non vedo come potremmo influenzarci a vicenda; abbiamo gusti comuni, pensiamo a un cinema assai più libero di quello corrente, ma non si può dire che le opere di ciascuno di noi esercitino un'influenza su quelle degli altri”). Hiroshima mon amour - non meno dei film successivi, da L'année dernière à Marienbad (L'anno scorso a Marienbad, 1961) a Muriel le temps d'un retour (Muriel il tempo di un ritorno, 1963) a La guerre est finie (La guerra è finita, 1966) a Je t'aime, ie t'aime (Je t'aime, je t'aime, 1968) a Stavisky (Stavisky, 1974) - dimostra che la sua posizione non può essere né confusa né accostata a quella dei suoi “compagni di strada”.
È, soprattutto, l'avventura di una nuova forma che scompone il tempo cinematografico (la sua durata nella sequenza) in particelle minime e lo ricompone secondo la “cronologia” fluttuante della memoria. La protagonista vive a Hiroshima una storia d'amore (dopo anni di un matrimonio sessualmente arido) che la riconduce - per effetto del trauma di questa esperienza inattesa al tempo del primo amore, a Nevers. Non solo passato e presente si mescolano, sovrapponendosi negli attimi culminanti (il piacere e la morte), ma lo stesso tempo presente - quello vissuto nell'albergo, per le strade, nei caffè, alla stazione della città giapponese, dove la donna è venuta per interpretare un film pacifista - si confonde nella indeterminatezza di una decisione da prendere (partire, non partire) e si sminuzza nel corso delle ore che passano in attesa della partenza.
Il film inizia con i due abbracciati nella camera d'albergo. Sulle spalle di lui brilla la polvere della (simbolica) cenere atomica: il ricordo fisico della catastrofe che distrusse Hiroshima il 6 agosto 1945. La presenza della guerra e dell'orrore incombe sugli amanti. E li unisce, non solo per affermare, nonostante tutto, la forza della vita, ma anche per riportare alla luce un passato sepolto (ciò che la donna non ha mai raccontato, neppure al marito: l'amore che l'aveva unita a un soldato tedesco, durante l'occupazione, l'uccisione dell'innamorato da parte del maquis, la reclusione nella cantina di casa per non essere esposta al dileggio della gente).
L'amore a Nevers (i prati e i pioppi lungo la Loira, gli incontri con il tedesco, le strade deserte della cittadina, gli scontri con la famiglia, il taglio dei capelli cui i partigiani sottopongono la ragazza, il lento ritorno alla vita, la partenza di notte, in bicicletta, per Parigi) nasce dall'amore a Hiroshima: la mano del giapponese addormentato sul letto diventa la mano del giovane soldato tedesco, e poi il suo volto insanguinato; i dialoghi dei due a letto (“ Era francese l'uomo che hai amato?”, “No, non era francese”; “lo avevo diciotto anni, lui ventitré”, “È là che ho rischiato di perderti”) introducono - svolgendo la storia a ritroso, per brevi momenti - un passaggio di lei in bicicletta sugli argini del fiume, l'amore con il ragazzo sull'erba e così via. A poco a poco, nella mente della donna, il tedesco di allora si identifica con l'uomo di oggi: l'amante giapponese ascolta e vede le stesse cose che si presentano disordinatamente al ricordo di lei. Tutto questo avviene mentre i due si spostano dalla camera d'albergo al set dove si gira il film, in casa di lui, in un caffè sulla riva del fiume. La disperazione che provoca il ricordo è più forte dell'angoscia che la donna prova per il distacco imminente. “Poi un giorno tu esci dall'eternità. Vedo la tua morte, la mia vita che continua.” Si tormenteranno ancora, a lungo, inseguendosi per le strade notturne di Hiroshima, lui che la vuol trattenere, lei che deve staccarsi, insieme, dal passato e dal presente (“Deformami, così che nessun altro capisca il perché di tanto desiderio. Un giorno non sapremo più nominare ciò che ci unisce”). Il film termina sul primo piano dell'uomo. Lei ha urlato: “Ti dimenticherò. Ti ho già dimenticato. Il tuo nome è Hiroshima”. “Sì” risponde lui, “e il tuo nome è Nevers, in Francia.”
La costruzione cinematografica di Resnais (il tempo e lo spazio del presente intrecciati con lo spazio e il tempo del passato, e uniti dalla voce narrante della donna che collega tutto in un flusso unico) riscatta - in questo impasto visivo-sonoro di alta suggestione - la scadente materia letteraria fornita da una scrittrice, mediocre quanto ambiziosa, come Marguerite Duras. Una eco proustiana conferisce una patina di nobiltà supplementare alla sapienza di un regista a tal punto coraggioso da sfidare (e più volte superare) i pericoli di un volgare melodramma.
Fernaldo di Giammatteo, 100 film da salvare, Mondadori, 1978

Critica (3):Potete immaginare Vélasquez che ha appena concluso le sue Meninas mentre già Picasso intesse le sue mirabili variazioni? Certamente no. Ecco, accade qualcosa di simile. Con Hiroshima mon amour, Alain Resnais affranca il cinema dal XVII secolo per immergerlo senza transizioni nel cuore del XX. (...) Infrange il quadro della narrazione tradizionale e introduce la tecnica romanzesca cara a Faulkner: il passato dei personaggi o quello storico risale a sprazzi alla superficie del presente e, allo stesso tempo, lo avvelena. D'altra parte, introducendo il cinema nel cinema, Resnais eguaglia le opere letterarie più recenti di un Klossowski o di un Borges: ci offre la riflessione al secondo grado, ci invita al gioco degli specchi (...). Un musicologo, inoltre, potrebbe ritrovare nel ritmo e nel montaggio dei piani di Hiroshima mon amour l'influenza di Stravinskij.
Infine, dal punto di vista pittorico, questo film evoca il cubismo, Picasso e Braque. Moderno, Hiroshima mon amour lo è anche per il suo soggetto. È la tragedia dell'impossibilità dell'unione e della pienezza di sé. È la vittoria della segmentazione, della dissociazione, del frammentario. È impossibile essere totalmente uno perché viviamo nell'istante e ogni istante ci condanna alla nascita ma anche alla morte di una parte di noi stessi. È forse il simbolo profondo della prima immagine del film. Si vedono solo due corpi abbracciati, entrambi indistinti mentre li ricopre una pioggia di cenere. Questa cenere si può immaginare sia la stessa della bomba atomica, ossia come quella delle vestigia della guerra che ricadono ancora sul presente e lo contaminano. Ma io preferisco vedervi il simbolo di una dialettica dell'istante: nello stesso tempo in cui questi individui "si incendiano l'uno per l'altro" (come viene detto ad un certo punto nel testo) già li ricopre la cenere di questo fuoco, la cenere dell'oblio.
Jean Douchet, Hiroshima mon amour, "Arts", n. 727, 17-23 giugno 1959

Critica (4):
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