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Diamante bianco (Il) - White Diamond (The)


Regia:Herzog Werner

Cast e credits:
Sceneggiatura: Rudolph Herzog; fotografia: Henning Brúmmer, Klaus Scheurich; montaggio: Joe Bini; musica: Ernst Reijsiger, Eric Spitzer; interpreti: Graham Dorrington, Werner Herzog; produzione: Rudolph Herzog, Annette Scheurich per Marco Polo Film AG; distribuzione: Fandango; origine: Gran Bretagna-Germania, 2004; durata: 90'.

Trama:Il dottor Graham Dorrington, docente di ingegneria aerospaziale presso la Queen's University di Londra, ha progettato un pallone aerostatico estremamente maneggevole, con cui intende sorvolare la foresta pluviale della Guyana per studiare le cime degli alberi, dove si annida la massima varietà di flora e di fauna.
Herzog documenta le varie fasi della missione, sia nei momenti di difficoltà e di sconforto, sia in quelli di esaltazione e di euforia. Il viaggio è l'occasione per immergersi in scenari naturali estremi e incorrotti, per conoscere una popolazione ai margini della Grande Storia (anzi, vittima della cupidigia colonialistica occidentale), per familiarizzarsi con le leggende e i miti locali e infine per fare incontri suggestivi e bizzarri, come quello con l'ineffabile Mark Anthony Yhap, personaggio a metà strada tra un saggio e un buffone. Il resoconto dell'impresa si intreccia con le confessioni autobiografiche di Dorrington, al punto che il documentario è la storia di un uomo prima che della sua singolare sfida.

Critica (1):Quando parliamo di «eu-topos» dobbiamo pensare alla cascata di Il diamante bianco, che nasconde qualcosa che va al di là della nostra im-
maginazione ma è tuttavia palpabile, è la casa di un milione e mezzo di rondoni che vivono dietro la cascata. Finisci in un posto dove gli uomini e i sogni sono in un certo senso riconciliati e mi riferisco alla tragedia di Graham Dorrington. È un «buon posto» e ci siamo andati in un buon momento, ed è di questo che il film parla.
Werner Herzog in Grazia Paganelli, Segni di vita. Werner Herzog e il cinema di Grazia Paganelli, Il Castoro, 2008

Critica (2):La stupidità, a sentire Herzog in The White Diamond, si dice in molti modi. In particolare, ve n'è di tre tipi: una stupida, una dignitosa e una eroica.
Cosa sia una stupidità stupida lo si capisce paradossalmente proprio in virtù della formulazione tautologica, che, in teoria, mettendo la parola di fronte a uno specchio e ripetendola semplicemente, non arreca alcun apporto conoscitivo. Al contrario, l'iterazione, il raddoppiamento del nome nell'aggettivo dà qui icasticamente l'idea di una stupidità che si avvita su se stessa, che implode ottusamente in un'atrofia del senso. Questo circolo vizioso della stupidità è ciò che più risponde alle nostre attese. Ben diverso è il caso di una stupidità dignitosa o addirittura eroica. Ma come può la stupidità darsi in queste due ulteriori vesti, e che eventuale connessione hanno con la prima?
Per certi versi lo spazio aperto da questa domanda è l'orizzonte elettivo tanto di The White Diamond quanto dell'intero corpus cinematografico di Herzog.
In un suggestivo risalimento etimologico si può riscontrare come stupidità rimandi al latino stupor, che è a sua volta un derivato del verbo stupire, "stupirsi". Lo stupore implica uno stordimento, un inebetimento. Si "rimane a bocca aperta" - come si dice - sospesi in uno stato quasi catatonico. Stupefacente si dice di «sostanza o farmaco che provoca una condizione analgesica [= di insensibilità al dolore] accompagnata da uno stato stuporoso».
Ma lo stupore è, al contempo, la condizione di un apertura, di una particolare disponibilità contemplativa e visionaria alle cose intorno a noi, tanto quelle eclatanti quanto quelle ordinarie e consuete, che improvvisamente si mostrano inedite, perturbanti, come se ci si facessero incontro per la prima volta. Nella passività ricettiva dello stupore si è fuori di sé, si è pervasi da qualcosa che ci eccede, ma che al contempo si rivolge a noi, chiamandoci dalla sua estraneità. La stupidità è l'esperienza di un cono d'ombra, di una latenza, sia quando essa ci fa ricadere su di noi (stupidità stupida) sia quando ci proietta oltre noi stessi (stupidità eroica).
Che dire invece dell'eroismo? Eroico è colui che si spinge in territori eccezionali senza tema di sacrificare se stesso. C'è un eroismo "istituzionale", "ufficiale", che risponde a parametri riconosciuti e che solitamente si traduce in un pieno e virile dominio di sé, fin sull'orlo dell'inaudito (è l'eroismo omerico, per esempio, o patriottico o umanitario). Eroico è chi per una nobile causa è disposto a mettere in gioco persino la sua vita. C'è poi quell'eroismo stravagante e sregolato di chi persegue senza risparmio, quasi eclissando se stesso, una fantasia all'apparenza impossibile o delirante. Quest'eroismo venato di tratti romantici si estrinseca negli slanci solitari e allucinati di coloro che si muovono ai margini della ragionevolezza e della sensatezza consolidate; appartiene, dunque, ai diversi, ai folli, ai sognatori, irrimediabilmente avvinti da un «pensiero dominante» di cui non conoscono la provenienza, ma che non possono omettere di se ire. Il loro è un eroismo che, come un tino o una vocazione, scaturisce da un punto cieco, impenetrabile e inspiegabile e le cui eventuali ragioni emergono a posteriori, vengono dopo. In questo senso si tratta di un eroismo stupido. Porta la traccia, lo stigma di qualcosa di cui non si è padroni, che non si può dominare, ma da cui invece si è trasportati come in sogno.
sIl cinema di Herzog compone un bestiario umano bizzarro di personaggi attestati sul labile confine tra sanità e follia, tra ragionevolezza ed estasi, eccessivi sia nella grandezza tracotante (è il caso della stupidità eroica del conquistador Don Lope de Aguirre in Aguirre, furore di Dio-Aguirre, der Zorn Gottes, 1972) sia nella piccolezza umile e dimessa (è il caso della tupidità dignitosa ndi Kaspar in L'enigma di Kaspar Hauser-Jeder für sich und Gott gegen alle, 1974). Barcamenandosi su tale insidioso confine, lo sguardo di Herzog proietta tutte le abitudini percettive e conoscitive che noi chiamiamo "normalità" nella «luce oscura» (Friedrich Hólderlin, «Rimembranza», v. 26) della loro origine arcana, e al contempo sospinge il linguaggio fin sull'orlo dell'indicibile, laddove lo scompaginamento e lo sfrangiamento delle strutture espressive acquisite si alterna al baluginio di nuove configurazioni di senso, magari fragili, instabili, precarie, ma nondimeno profondamente rivelative. E questa realtà anomala e inusitata quella che Herzog tenta di testimoniare e di raccontare, a cui si sforza di dare voce e forma, spingendosi letteralmente ai confini dell'orbe terracqueo, laddove ci sono tracce di mondi arcaici sull'orlo dell'estinzione - tracce innanzitutto paesaggistiche e narrative che una globalizzazione sorniona e implacabile rischia di cancellare (e di appiattire linguisticamente), ma che da parte loro, come un vulcano dormiente, sono sempre sul punto di erompere di nuovo, di scardinare i lacci imposti dalla quiete ovattata della sfera familiare e sociale borghese (The Grizzly Man-id., 2005), di uscire dalla loro latenza di rimosso, per riconvocare sulla scena lo spessore tragico dell'esistenza umana, tanto nel suo grido disarticolato quanto nel suo rapimento più sublime.
Non si dà in Herzog distinzione di principio o qualitativa tra opera documentaristica e di fiction. Nei suoi film cinema e vita sono inestricabilmente legati. Da una parte, infatti, c'è l'esigenza di recarsi in terre remote per scoprire il genius loti di scenari straordinari (nel senso letterale di "fuori dall'ordinario") e per documentare, con sguardo quasi antropologico, modi primitivi di abitare e di figurare il mondo. Aguirre e soprattutto Fitzcarraldo (id., 1982) danno prova di come per Herzog il film sia contemporaneamente il making of del film stesso, in un vertiginoso intersecarsi di piani. La "radicalità esistenziale" del suo cinema la si può intendere proprio a partire dall'esperienza delle riprese: esse sono il momento chiave in cui la vita (lo sforzo realizzativo del film) incrocia l'arte (l'opera finita) e viceversa. D'altra parte i cosiddetti documentari di Herzog, nella loro ricerca di sedimentazioni ancestrali e di immagini eteroclite che ne diano conto, nel loro corteggiare l'impossibile, sono visionari, cioè veno oltre e di più rispetto al mero profilmico: i paesaggi e gli uomini reali si trasfondono in film, esistono solo nel racconto, sulla pellicola, e il film non fa altro che entrare in risonanza con le leggende e i miti, che là, ai confini del mondo, sono stati forgiati per dire l'indicibile. I "documentari di Herzog danno luogo a un seducente e consapevole cortocircuito: infatti, tentare di dare immagine all'invisibile, di immaginarlo, è già finzione. Le opere del regista tedesco non possono essere capite al di fuori di questa contaminazione, di questa commistione tra fiction e documentario.
In The White Diamond il prologo iniziale propone un breve resoconto della conquista umana del cielo. Il volo è uno di quei sogni (folli) che l'uomo ha perseguito, o fantasticato, sin dai tempi primitivi. Come testimonia il mito di Dedalo e Icaro, nel volo si congiungono inscindibilmente lo spirito prometeico e la punizione della violazione dei limiti. L'aria è l'elemento degli uccelli; è la terra lo spazio assegnato al «bipede implume».
Herzog, dopo aver raccontato, per mezzo di una raccolta di immagini di repertorio mai banali (anzi spesso così bislacche da sembrare false, posticce), i primissimi tentativi dei pionieri, si sofferma sull'invenzione dei dirigibili, sul loro successo travolgente, e infine sul disastro dell'Hindenburg (erano le 19:25 del 6 maggio 1937) - incidente in cui si appalesò in tutta la sua catastrofica evidenza la pericolosità di quegli aeromobili, presto dismessi e abbandonati. Nella storia delle invenzioni, delle sfide e degli azzardi dell'uomo, l'ascesa vertiginosa si intreccia con la caduta più rovinosa, l'estasi con l'amarezza e con la disperazione.
Al giorno d'oggi, spiega la voce narrante di Herzog, l'uso di gas non infiammabili (e dunque meno pericolosi di elio e idrogeno) ha consentito di riaccarezzare l'idea del pallone aerostatico. E a questo punto che il regista introduce il dottor Graham Dorrington, docente di ingegneria aerospaziale presso la Queen's University di Londra. Dorrington ha avuto sin da piccolo la passione del volo, il desiderio di librarsi nell'elemento gassoso. Come egli confessa, la sua è anche un'utopia di leggerezza: sciogliere i vincoli con il pesantore della terra, con la gravosità del corpo, inchiodato al suolo dalla forza di gravità sviluppata dalla massa terrestre. Il volo, per il dottor Dorrington, non è solo una questione meccanica, tecnica: in esso convergono una dimensione passionale e vocazionale e una dimensione utopica. Anche questo scienziato potrebbe comporre un leopardiano «Elogio degli uccelli».
Rimane peraltro vero che per l'uomo la leggerezza s-pensierata non si dà mai allo stato puro: essa è un anelito che si porta sempre appresso la zavorra della finitezza umana. Per di più, la biografia di Dorrington fa trapelare una dimensione ancora più sinistra della pesantezza: si affaccia il sospetto che sia il sogno stesso a recare in sé la dannazione di chi lo nutre, a proiettare direttamente un cono d'ombra. Assecondare un'ossessione significa mettersi in gioco integralmente, seguire piste insidiose e rischiose, osare. Persino a discapito di se stessi. E degli altri. Dorrington racconta col sorriso di come abbia perso due dita in un tentativo gjovanile di far decollare un razzo. Si rabbuia, invece, quando si tratta di rievocare - frammentariamente, quasi che la ferita fosse ancora troppo viva e dolorosa, e richiedesse un processo di avvicinamento graduale, circospetto - la morte drammatica, al limite dello splatter, di Dieter Plague, un documentarista che aveva collaborato con lui. Il passato continua ad attanagliare e opprimere il presente di Dorrington, il quale ammette di riuscire a stento a guadagnare quella condizione di leggerezza a cui l'intero suo progetto era finalizzato. Come emerinequivocabilmente in The Grizzly Man, il confine del mondo (mondo conosciuto/mondo sconosciuto, mondo umano/mondo animale) è anche il confine tra la vita e la morte.
Che in Dorrington il desiderio del volo sia espressione di una più originaria passione per l'ignoto e pero sconosciuto, appare evidente se si considera l'impresa dello scienziato in tutta la sua ampiezza. Egli non aspira solo ad approntare un nuovo aerostato, ma confida di usarlo per sorvolare un territorio vergine, intatto, ancora pressoché inesplorato dall'uomo: le cime degli alberi della foresta pluviale della Guyana. Gli eventuali benefici per la medicina sono una di quelle motivazioni che scaturiscono da una razionalizzazione a posteriori.
In The White Diamond il simbolo più adamantino dell'insondabile sono le cateratte del Kaieteur. A differenza della foresta esse non possono essere sorvolate con l'aeronave, perché il risucchio che producono consegnerebbe quest'ultima - a mo' di vittima sacrificale - alle fauci d'acqua della cascata, il cui salto principale misura 226 metri. In aggiunta, dietro l'imponente colonna d'acqua si apre una grotta buia, inaccessibile, in cui ha nidificato un numero incalcolabile di rondoni. Herzog rende la cascata il cuore pulsante del film, sia sul piano visivo che su quello visionario. Il regista tedesco filma più volte l'enorme massa d'acqua da angolazioni di volta in volta diverse. Ci sono riprese frontali o laterali oppure dall'alto verso il basso, a seguire il movimento dell'acqua nella sua caduta verso l'abisso. In alcune splendide, ammalianti e ipnotiche inquadrature Herzog mostra gli uccelli che, in piano medio, volteggiano nell'aria con la cascata sullo sfonco. I profili neri e affusolati dei loro corpi saettanti si stagliano contro la otenza eplosiva dell'acqua, ingenerano una tensione tra levità corpuscolare e pesantezza materica, tra moto browniano e flusso compatto e distruttivo (ulteriore variante della diade oppositoria leggerezza/pesantezza). La cascata incarna la forza della natura primigenia: è una specie di imponente saracinesca che difende il mistero della grotta retrostante (vero e proprio cuore mitico della cascata), ma che insieme ado era gli uccelli come messaggeri verso esterno.
Gli uccelli si slanciano nell'aperto dell'etere, danzano intorno alle nuvole; poi si rituffano nelle viscere della terra, nell'oscurità enigmatica e imperscrutabile della caverna. L'immagine conclusiva del film è una plongée che si sofferma sullo spiraglio che si apre tra la cascata e la parete rocciosa e sulla frotta interminabile degli uccelli che vi passano attraverso, ritornando al coperto. Il film, che ha lambito il mistero della cascata, si chiude facendo sì che quel mistero torni a raccogliersi in se stesso, non già nella vuotezza, ma nell'inesauribilità del suo senso. Trova così un'ulteriore riconferma la paradossale discrezione dello sguardo di Herzog - paradossale perché si avventa sull'ignoto e lo sfida, ma al contempo evita di spogliare l'ignoto della sua ricchezza, di troncarne o smorzarne lo sciame di risonanze. Per impedire che ciò accada Herzog racconta la cascata attraverso i miti locali, autoctoni.
Già, chissà cosa si trova realmente laggiù? Persino gli abitanti del posto - i depositari delle tradizioni e dei racconti tramandati - vorrebbero saperlo. E allora Herzog fa scendere uno scalatore e, quando quest'ultimo si trova a penzolare a mezz'aria, gli cala una cinepresa perché la punti verso l'interno dell'antro. Ma, sensibilizzato da un abitante del posto, che gli spiega come la diffusione di quelle riprese defrauderebbe un popolo delle sue leggende, Herzog decide di non mostrare il girato. Il voler sapere, nel suo intreccio di curiosità, di desiderio di conoscenza e di timoroso riguardo, è diverso dal pretendere si svelare: da una parte c'è una narrazione che si rinnova, che viene trasmessa e variata di generazione in generazione, che assume una veste sempre nuova, un velo sempre diverso; dall'altra c'è l'esigenza dispotica, arrogante nella sua unilateralità, di squarciare ogni velo per affacciarsi sul vero aspetto, demitizzato, delle cose. E così che al diamante metaforico (il pallone aerostatico) si sostituisce quello ben più venale estratto nelle miniere, a costo di una devastazione e di un impoverimento del territorio.
Con mossa geniale, Herzog decide di mostrare solo le immagini registrate dalla cinepresa mentre quest'ultima, priva di controllo, viene issata verso l'alto. Il girato è costituito da fotogrammi intrappolati in un vertiginoso movimento circolare. La cinepresa ritorna continuamente sui suoi passi, disegnando una traiettoria a forma di spirale. Ai gorghi della cascata corrisponde il vortice della visione. Il punto cieco della natura e dell'uomo, suggerisce Herzog, è anche il punto cieco del visibile. Ormai la cinepresa registra in autonomia, senza che ci sia neppure un'intenzionalità a guidarla, a organizzarne i movimenti, gli angoli, le posizioni. C'è solo - ultima e tenue traccia di umano - il filo a cui essa è ancorata, quasi come la lenza di una canna da pesca attrezzata per catturare l'invisibile. Non c'è in questo una mera rinuncia alla rappresentazione. Anzi, «in celluloid we trust», esclama Herzog in un eloquente passaggio del film, parafrasando peraltro il motto stampato su tutte le banconote americane, «in God we trust». E solo che, giunti in prossimità delle terre incognite della visione, l'apparato linguistico ed espressivo è portato a un punto di massima tensione: ad ancorare la parola alla cosa, la grammatica al ma gm a primordiale, può essere solo un esile, malsicuro cordone ombelicale.
«Cio che resta», scrive Hölderlin, «è un dono dei poeti» («Rimembranza», v. 59)
Francesco Cattaneo, Cineforum n. 456, 7/2006

Critica (3):

Critica (4):
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