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Robinù


Regia:Santoro Michele

Cast e credits:
Soggetto: Michele Santoro, Maddalena Oliva; sceneggiatura: Michele Santoro, Maddalena Oliva, Micaela Farrocco; fotografia: Raoul Garzia, Marco Ronca; musiche: Lele Marchitelli; montaggio: Alessandro Renna; suono: Peppe Vitale, Valentino Bianchi; produzione: Zerostudio's, Videa Next Station; distribuzione: Videa; origine: Italia, 2016; durata: 97'.

Trama:A Napoli, bande di adolescenti si combattono, a colpi di kalashnikov, in una guerra dimenticata che è arrivata a contare oltre 60 morti. La chiamano "paranza dei bambini": giovani ribelli che sono riusciti a imporre una nuova legge di camorra per il controllo del mercato della droga. Una paranza che da Forcella si insinua nei Decumani, e scende giù fino ai Tribunali e a Porta Capuana: il ventre molle di Napoli, la periferia nel centro, tra turisti che di giorno riempiono le strade e gente che di notte si rintana nei bassi trasformati in nuove piazze di spaccio, il vero carburante capace di far girare a mille il motore della mattanza. Michele Santoro racconta una strage dimenticata, rompendo il muro del silenzio e dell'indifferenza che la circondano: i "baby boss" della camorra. Per la prima volta, questi giovani ribelli che sono riusciti a imporre una nuova legge di camorra parlano senza mediazioni: la sete di potere, l'amore dei soldi, il divertimento sfrenato, le loro pagine facebook da vere star. Ribelli insofferenti ai capi della vecchia camorra (O' Sistema), senza padroni e senza paure. Le armi sono la loro identità. Nati negli anni Novanta, a 15 imparano a sparare, a 20 sono killer consumati e a 30, spesso, non ci arrivano.

Critica (1):Robinù di Michele Santoro è il racconto di Napoli. Riduttivo chiamarlo documentario. È una prova. La prova che tutto quello che abbiamo detto in questi anni in molti non «ano menzogne, apocalittiche esagerazioni. Non d avete creduto? Ecco, prendetevi del tempo e guardate Robinù. (...)Vedrete quella parte di Napoli di cui non si può parlare. Quella parte di Napoli che se la mostri stai diffamando, speculando, stai esagerando, mentendo. Robinù è il racconto di Napoli attraverso voci che in genere non ci arrivano così, nitide, chiare, pulite, senza rumori di fondo. Senza quelle piene di empatia di chi aiuta, senza il cinismo e la precisione della cronaca, senza la severa irremovibilità delle forze dell'ordine, senza l'inadeguatezza e la connivenza della politica. Non sentiamo le domande in Robinù e, quando smettiamo anche di immaginarle, tutto diventa un flusso di coscienza, uno sfogo limpido, comprensibile.
Sembra di entrare nella testa di chi a vent'anni ha già vissuto tutte le vite possibili, quelle accessibili per nascita e status. Sì perché una cosa dobbiamo metterla in chiaro, subito: la Napoli che ci mostra Michele Santoro non potrà mai essere diversa da se stessa, non potrà mai cambiare. I figli di quella Napoli hanno il destino già deciso, segnato. Le varianti sono naturalmente contemplate, ma resta lo specchio di un luogo in cui non esiste mobilità sociale, se vuoi diventare qualcosa di diverso devi andar via, emigrare, lontano più che puoi. Se resti qui sei marchiato a vita, dal tuo nome e dal quartiere in cui sei nato. Tu non sei solo tu, tu sei la tua famiglia. Inutile girarci troppo intorno: se sei figlio del popolo resti popolo. Se vuoi soldi e potere, se vuoi una vita diversa dagli stenti e dai sacrifici dei tuoi genitori o impari a sparare, a farti notare per entrare nella paranza del tuo quartiere, o non hai speranza. Tu sei il tuo quartiere e lo devi difendere, proteggere, a tutti i costi.
Ma cosa significa esattamente difendere il quartiere? Significa difendere l'unica possibilità di lavoro, l'unica possibilità di fare soldi, significa pensare al proprio futuro. E sevi diranno: «Falso: con la buona volontà possono farcela», rispondete che non si tratta di buona o cattiva volontà, che non si tratta di riuscire o meno a superare un esame all'università, ma si tratta di non poter nemmeno contemplare l'università nel proprio orizzonte di vita. Facciamo attenzione alle attitudini pietistiche e borghesi, o peggio inconsapevolmente aristocratiche di chi in fondo continua a campare ai piani alti dei palazzi nobiliari del centro storico non vedendo chi vive nei bassi. Possono farcela, possono migliorare le loro vite, basta che studino, basta che lo vogliano. Tutto molto bello, ma per desiderare e volere una cosa bisogna conoscerla. Sembra cinismo eppure è realismo: a Napoli, nei quartieri più difficili, non ci sono alternative alla strada. Nessuno offre alternative alla strada.
Emanuele Sibillo è diventato un'icona a Forcella: i protagonisti di Robinù parlano di lui come di un padrino amorevole che di tutti si prendeva cura. Portano il suo stesso taglio di capelli per omaggiarlo e la stessa barba lunga. Trattano la sua memoria come quella di un prete passato a miglior vita, in odore di santità. Parlano di lui come 40 anni fa parlavano di Padre Pio nel Beneventano: tutti giuravano di averlo conosciuto, di essere stati anche solo per una volta e anche solo per un momento oggetto della sua attenzione. Con Emanuele Sibillo a Forcella accade esattamente la stessa cosa. Curriculum criminale eccellente: i Sibillo sono alleati dei Giuliano jr, la terra generazione dei capi di Forcella, con i Brunetti e con il gruppo Amirante. Nemici dei Mazzarella cui contendono il predominio sul centro storico: Tribunali, Forcella e la Maddalena.
Emanuele Sibillo è stato ucciso a 19 anni. La morte lo ha reso eterno, non solo, ha ricompattato un quartiere che solo nominalmente è nella seconda municipalità di Napoli e che solo nominalmente riconosce come autorità cittadina quella del sindaco, ma che in realtà aveva un solo padrone, un solo mentore, una sola guida, nella cui memoria continua a vivere e a sognare un destino di emancipazione: Emanuele, appunto. Sì, ma di quale emancipazione si tratta? Uscire dal ghetto non se ne parla proprio, renderlo piuttosto meno angusto, estenderne i confini. Avere la possibilità di spendere soldi, di spenderne di più. Controllare droga, estorsioni, prostituzione. Ed ecco dunque, se siete alla ricerca di una sostanziale differenza tra la vecchia e la nuova camorra, tra i consorzi criminali che conosciamo e le nuove paranze di ragazzini, la leggete proprio nel rapporto con il denaro. Non sono più spietati oggi. Non uccidono con più sangue freddo. Sono più folli, ma questo dipende dalla giovane età e da quella ferinità, dalla mancanza di limiti e di paura tipica dell'adolescenza.
Hanno invece un rapporto con il denaro che è adolescenziale: possederne per spenderlo, per ostentare. Non esistono progetti imprenditoriali, non esiste nulla che non sia il qui e ora. E questo rende le nuove paranze disordinate, evanescenti, fungine. Proprio come i pesci di paranza cadono nelle reti a decine e come i funghi a decine di nuovo sbucano. Invadono le vie della città, quelle centrali e quelle periferiche, imbracciano armi, sparano, spaventano, feriscono, uccidono. Sono per questo temuti e amati. Non hanno paura di niente e chi supera il limite, comanda. Se esagera viene fatto fuori.
E poi c'è lui: Michele Mario. Lui che la prima rapinala fa a 13 anni ( «Più per scherzare»), lui che scrive una lettera nella quale dice di voler comandare solo lui, di volersi fare una paranza tutta sua. Lui che la chiamata dalla paranza l'aveva avuta, era stato accettato, era all'altezza, poteva entrare e invece l'ha rifiutata. Cane sciolto voleva restare. Lui che è bello e carismatico, lui che è folle e violento, lui che spara contro i poliziotti, bacia la pistola e poi va a festeggiare in un bar a cornetti e champagne. Lui che in carcere riceve lettere d'amore, da sconosciute.
E poi c'è Mariano, il primo volto che appare: «Oggigiorno comanda chi fa più reati. Più macelli fai, più la gente tiene paura di te». Mariano che dal carcere minorile di Airola, racconta come se tutto fosse necessario, la sua scelta criminale, la sua passione per il kalash (il kalashnikov). E proprio dal carcere di Airola, lunedì scorso è arrivato un segnale fortissimo dai clan: una rivolta iniziata per futili motivi è diventata l'occasione per mostrare chi comanda, di cosa si è capaci Del limite che si deve e si può superare ogni volta. Si tratta di detenuti maggiorenni che hanno coinvolto i più giovani. Detenuti che potevano finire di scontare la propria pena ad Airola e che invece si sono voluti guadagnare il carcere 'dei grandi'.
Il racconto di Michele Santoro è il racconto dei Robinù di Napoli, di chi pur agendo contro la legge, è protetto dal suo quartiere, dalla comunità in cui vive e su cui comanda; una comunità che solo in quel percorso si riconosce. Le paranze rubano per dare a loro. I miserabili solo loro che diventano piccola borghesia violenta in una terra (Napoli, Italia, Europa...) dove per guadagnare davvero devi sparare e giocarti la vita. Guadagnare al prezzo di crepare.
Il flusso di coscienza che ha letteralmente assorbito i protagonisti racconta un mondo che vede solo se stesso e per il quale solo incidentalmente noi esistiamo. Un mondo che non può non essere raccontato, ma che quando la si racconta piovono le accuse: Napoli diffamata, Napoli maltrattata, Napoli denigrata. Napoli raccontata a tinte fosche quando invece è sempre piena di sole. Napoli dove ci vive gente per bene e anche le loro vite vanno raccontate. Come far capire che le vite di chi si alza, fa colazione, accompagna i figli a scuola e va al lavoro, di chi fa la spesa, pagale bollette, porta i figli a calcetto, va in palestra, fa magari volontariato, non può essere materia di questo racconto? Come è possibile non capire che si raccontano le ferite e le malattie, non la salute e la prosperità?
Le voci delle donne raccontate da Santoro le ho lette nelle ordinanze di custodia cautelare, nelle trascrizioni delle intercettazioni telefoniche e ambientali: sono loro. Per conoscere Napoli non basta poter raccontare di aver sentito chiaramente lo sparo che ha ammazzato l'ultima vittima di Forcella o di essere passato un attimo dopo il raid davanti al bar dove c'è stata la sparatoria. Per raccontare Napoli bisogna trovare ogni volta una ferita, infilarci l'occhio, indagarla, slabbrarla, farla sanguinare. Per raccontare Napoli non servono le voci degli affiliati e poi, subito dopo, quelle delle
forze dell'ordine che ci diano versioni uguali e contrarie che con il bene neutralizzino il male.
Per raccontare Napoli bisogna ascoltare il racconto della ragazza madre agli arresti domiciliari diventata spacciatrice per necessità. Per 35 euro al giorno. «Spacciatrici si nasce», dice e lei non è nata spacciatrice, lei lo fa per mantenere suo figlio. Questo racconto diffama Napoli? Esporta di Napoli e del Italia un'immagine che corrisponde solo in parte a verità? Vero, e allora cosa suggerite? Il silenzio? Il velo pietoso?
II racconto di Santoro è il racconto della fine ed è una testimonianza che aderisce perfettamente alla realtà. È un racconto che aiuta a prendere coscienza. Vediamo Robinù, e poi quando ci diranno che il problema di Napoli è che ha la periferia, con tutte le sue criticità e contraddizioni, nel centro storico — intendendo dire che il centro storico a causa della presenza criminale non può essere il salotto buono della città — risponderemo che non ci interessano i salotti buoni, che non ci interessa il decoro urbano come prova di tufo e piperno del buon funzionamento di una città in cui non fraziona niente. Diremo che a noi interessa la verità, che continueremo a cercarla, a raccontarla, ad ascoltarla.
Roberto Saviano, la Repubblica, 8/9/2017

Critica (2):“Macché Gomorra, il modello è I'Isis. Anzi, loro sono l'Isis: le enclave funzionano come lo Stato Islamico. Non possono vedere Sky in carcere, ma vedono l'Isis, ne mutuano barba e atteggiamenti". E pure la violenza cieca: sul selciato dei vicoli di Napoli la paranza dei bambini ha già steso 60 morti,da Forcella lungo i Decumani, giù fino ai tribunali e Porta Capuana. "Quella non è Napoli, non è l'Italia: non conviene occuparsene, è un fenomeno che incide marginalmente. Questo è quel che dicono, quel che vogliono, ma io non ci sto: la paranza di bambini va raccontata".
Michele Santoro non ha dubbi: la lotta a colpi di "kalash", quel kalashnikov che è ancora il termometro più fedele del potere e del senso di onnipotenza criminale, "deve uscire dall'indifferenza, dai trafiletti sui giornali locali, perché ne va dell'identità dell'Italia tutta". Santoro l'ha messa letteralmente in Mostra: Robinù, un film che ha diretto, ideato con Maddalena Oliva,scritto a sei mani con Micaela Farrocco, è in cartellone a173. Festival di Venezia, nella sezione Cinema nel Giardino. Non è passato inosservato, perché la materia sanguina - "È una lezione nella carne molto pasoliniana" – e impregnale nostre coscienze indifferenti: "Come disse Norberto Bobbio in un memorabile articolo su una mia inchiesta, 'se il tricolore non sventola a Palma di Montechiaro, non sventola sull'intero paese'. Possiamo dargli torto?". Il tempo stringe, oggi l'educazione criminale brucia le tappe: questi baby-boss a 15 anni imparano a sparare, a 20 sono già killer esperti, a 30 rischiano di non arrivarci. Tutta la vita davanti per loro non è un film di Paolo Virzì sulla precarietà, bensì, un'ottusa consolazione tra le sbarre: "Tu queste cose le devi fare ora. Perché così, se vai in galera per 20 anni, esci e hai tutta la vita davanti". Lo dice uno, ma è coro greco da tragedia meccanica, prassi a mano armata. Santoro ha infilato la macchina da presa nella reclusione di questi ragazzi, ha girato per "un mese e mezzo a Poggioreale nel braccio dei più giovani e nel carcere minorile di Airola", cogliendone – sottolinea Maddalena Oliva – "il problema più gravoso, la gestione sbagliata del tempo: non ci sono sport e attività formative, si svegliano a mezzogiorno, non c'è recupero". L'orizzonte temporale no future, lo spazio senza soluzione di continuità: "Il carcere diventa un'estensione del quartiere, con i clan e tutto il resto".
Le mamme con una mano preparano i figli per la scuola e con l'altra smistano ovuli di cocaina, traendone 1.000-1.200 euro al mese per 18 ore di lavoro al giorno; i loro ragazzi sono giovanissimi Robin Hood, Robinù appunto, che non hanno né capi né legge. Ragazzi come Salvatore, 24 anni, l'ergastolo per spada di Damocle, Poggioreale per residenza, la massima sicurezza per regime; ragazzi come Michele, detto Michelino, la presenza più affascinante e debilitante del documentario, un baby-boss condannato a 16 anni per tentato omicidio e rapina a mano armata, con la faccia d'angelo e un sorriso che non si dimentica. Già il loro aspetto fisico è sintomatico, rivelatore: ci sono barbe da Stato Islamico e volti, come quello di Michelino, strappati a un polar francese, un gangster-movie americano, un'antropologia mafiosa che credevamo morta e sepolta per mano, fattezze e acconciature di Ciro l'Immortale e Genny Savastano. Invece no, Gomorra non abita qui: "In carcere non hanno Sky e, soprattutto, non hanno bisogno della finzione per indirizzare e plasmare la loro realtà. Sia chiaro, Gomorra ha realismo, ma l'esigenza di drammaturgia seriale porta a una tipizzazione univoca dei personaggi: son sempre incazzati, anche quando prendono un caffè. Al contrario, questi Robinù si dividono tra la spietatezza e le lacrime per la madre".
Un titolo alternativo, dice Santoro, sarebbe stato "Welfare criminale, non possiamo fare a meno di questa realtà, perché produce Pil criminale: i boss con la villa a Ibiza sono pochi, l'esercito sono migliaia di persone a l.000 euro al mese". Il documentario arriverà in sala a metà ottobre con Videa, poi Santoro confida in un approdo sulla rete pubblica: "Mi piacerebbe che lo trasmettesse la Rai direttamente in prima serata, senza passare dalla pay tv". Vorrebbe farlo vedere a Renzi, al pre­sidente Mattarella, soprattutto, vorrebbe che "la Rai si smarcasse da una logica di rappresentazione del reale ordinata e pedagogica e desse al documentario quel posto di preminenza che in un'ottica di servizio pubblico gli compete. Troppi giovani registi fanno fatica, già solo a trovare un'interlocuzione".
Federico Pontiggia, il Fatto Quotidiano, 8/9/2016

Critica (3):Si cercano i diavoli e gli angeli muoiono per strada. E anche se non sono angeli, e nemmeno gigli, come cantava De Andrè, son pur sempre figli, vittime di questo mondo.
Così accade che in un vicolo di Napoli, in una delle tante periferie più degradate e brulicanti, restano per terra i bossoli esplosi da una 7.65, le chiazze di sangue annerito, i segni di gessetto della polizia Scientifica.
Lì, su quei selci di pietra antica, è morto ammazzato Emanuele. Non importa sapere il suo cognome, è uno dei tanti ragazzi di camorra. Forcella, il rione Sanità o i Quartieri Spagnoli sono un'Italia molto distante da quella delle «gang» di via Padova a Milano, dove qualcuno è uscito per le strade del quartiere a chiedere più sicurezza. E ora è arrivato l'Esercito. A Napoli non ci sono parate, non si cercano parole.
Napoli non ne vuole più da nessuno. I napoletani vorrebbero solo che chi adesso parla abbandoni il suo dorato pulpito e scenda nei «bassi» a inorridire insieme a loro, a guardare in faccia l'esplosione di quel domestico dolore.
Michele Santoro lo ha fatto, questa volta come regista. Il suo Robinù, film-documentario sui baby boss della camorra, racconta le vite di quei ragazzi come Emanuele e accende una lampara sulla «paranza dei bambini», che detta così sembra quasi una delicata formula letteraria, quelle che inventano i professionisti dell'etica quando vogliono mettere un po' di cipria sulle tragedie.
(…) È un racconto crudo, nuovo nel linguaggio a cui le produzioni italiane ci hanno finora abituati.
Sei mesi di lavoro nel ventre molle della città per raccontare quella faida che vede squadre di bambini-soldato combattersi a colpi di fuoco e piombo per il controllo del territorio e del mercato della droga, in una guerra che nell'abaco della mattanza è arrivata già a sessanta morti.
«Ci siamo trovati di fronte una lezione pasoliniana», dice Santoro, «una realtà in cui tra quartiere e carcere c'è una continuità quasi urbanistica». Del resto era proprio Pasolini a scrivere che «nei rifiuti del mondo nasce un nuovo mondo, nascono leggi nuove dove non c'è più legge; nasce un nuovo onore dove onore è il disonore. Dove credi che la città finisca, e dove invece ricomincia, nemica». Perché la condizione urbana del capoluogo campano riflette la sua epopea criminale: nel senso che quella sorta di periferia multipla che è Napoli ha partorito una geografia di clan camorristici territoriali, ciascuno blindato nel proprio dominio, tutti in lotta per conquistare un altro quartiere (e difendere il proprio) e la relativa porzione di mercato illecito. Oggi, a differenza del passato, nelle file di questo esercito criminale ci sono anche loro, i ragazzini armati fino ai denti, ora killer ora corpi spezzati sull'asfalto, oggi assassini domani assassinati in una guerra che nessuno vuole vedere. Ma non è solo una guerra tra clan rivali. Robinù ci consegna anche il trionfo dell'impotenza dello Stato e della cosiddetta società civile che ha scelto di intonare il de profundis della legalità assistendo inerme a questa disfatta.
Ma questa carneficina degli scugnizzi di quartiere ha ragioni molto più profonde che graffiano come carta vetrata sulla coscienza di un'intera nazione. E la domanda resta: noi cosa abbiamo fatto o cosa stiamo facendo per impedire che un destino criminale risucchiasse le vite dei tanti adolescenti educati al kalashnikov e alle skorpion?
Quali alternative stiamo mettendo in campo per impedire che questi ragazzini vivano come prede a disposizione dei mercati criminali senza che la loro vita possa chiudersi nel breve spazio di una sequenza di fuoco? Michele Santoro con Robinù ci ha dato solo uno specchio nel quale, prima o poi, bisognerà guardare.
Giuseppe Rolli, il manifesto, 6/12/2016

Critica (4):
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