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Terrazza (La)


Regia:Scola Ettore

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura
: Age, Furio Scarpelli, Ettore Scola; fotografia: Pasqualino De Santis; scenografia: Luciano Ricceri; costumi: Ezio Altieri; musica: Armando Trovajoli; montaggio: Raimondo Crociani; interpreti: Marcello Mastroianni (Luigi, giornalista), Ugo Tognazzi (Amedeo, produttore), Vittorio Gassman (Mario, senatore comunista), Jean-Louis Trintignant (Enrico, sceneggiatore), Serge Reggiani (Sergio, funzionario televisivo), Stefano Satta Flores (Tizzo, critico cinematografico), Stefania Sandrelli (Giovanna), Carla Gravina (Carla), Ombretta Colli (Enza), Galeazzo Benti (Galeazzo), Milena Vukotic (Emanuela), Age (lo psichiatra), Leo Benvenuti (un ospite), Ugo Gregoretti (altro ospite), Lucio Lombardo Radice, Mino Monicelli (il presidente della RAI), Lucio Villari (il padrone di casa), Hélène Ronée (la padrona di casa), Marie Trintignant (Isabella), Venantino Venantini (un ospite), Olimpia Carlisi (un'ospite), Simonetta Del Frate (Ada), Graziella Galvani (una scrittrice), Fabio Garriba (Giorgio Campi, regista), Margherita Horowitz (un'ospite), Carlo Cattaneo (Roberto), Ghigo Alberani (professor Pomarangio), Francesco Maselli; produzione: Pio Angeletti e Adriano De Micheli per la Dean Film International (Roma)/Les Films Marceau/Cocinor (Parigi); origine: Italia, 1980; durata: 155'.

Trama:Nel corso di una serata mondana in terrazza, si intrecciano le vite e le esperienze dei personaggi presenti, accomunati dall'età non più giovane e dal tipo di lavoro. Tra loro c'è Enrico, uno sceneggiatore che, nonostante la moglie tenti di risollevarlo, versa in una profonda crisi che lo porterà in una casa di cura. Amedeo fa il produttore e per scelta finanzia solo film popolari di serie B. Seguendo le velleità di sua moglie, prova a dedicarsi a un'opera più ambiziosa, ma l'insuccesso lo farà tornare sui suoi passi. Luigi, giornalista, è stato lasciato dalla moglie e, sconsolato si lascia andare fino a perdere anche il lavoro. Sergio, che sognava di diventare uno scrittore, si è accontentato di un piccolo lavoro in uno studio televisivo, dove non viene stimolato e si lascia andare alla routine. Galeazzo, ormai anziano e deluso dalla sua patria e da quanti un tempo considerava amici, vuole smettere di fare l'attore e tornare in Venezuela, dove ha vissuto per un periodo in cerca di fortuna. Mario, ex partigiano, è diventato un deputato del partito comunista, ma vede naufragare giorno dopo giorno tutti gli ideali per i quali ha combattuto e, in crisi, vive con leggerezza la storia d'amore con Giovanna, lasciando che tra loro ci siano soltanto quei brevi incontri sulla terrazza nelle serate romane...

Critica (1):Leccarsi le ferite, collettive o individuali che siano (molto spesso entrambe), non vale a niente se non si accompagna uno spietato esame delle proprie insipienze congiunto alla rinnovata disponibilità verso una rigenerazione che sappia entrare in rapporto con il tempo interiore e sociale motivante le uggiosità personali. Il che non significa, schematicamente, recupero di un vitalismo giovanile che tutto raddrizza ed ebollizza ma viceversa acquisizione di una coscienza critica che mutui consapevolezza ed azione, insoddisfazione ed esercizio della irrequietezza mediante il sovvertimento di ogni "postazione fissa". La tesi cui perviene l'ultimo lavoro di Ettore Scola non è certo delle più rassicuranti seppure sia disposta ad una angolazione ironica che sembra ammantare, senza assoluzioni di rito, l'intera struttura del film in linea con quel gusto corale ed epigrammatico che resta la tessera distintiva del regista nel gran putiferio della commedia all'italiana. Il film articola le proprie vicende secondo uno schema di drammatizzazione che permette ai singoli intrecci di scaturire dalla medesima sorgente e ad essa riaffluire dopo una serie di atti mancati e decisioni non prese. La terrazza antistante una magnifica abitazione romana è, dunque, l'instabile baricentro (occasionale punto di ritrovo) ove un gruppo di amici, più o meno tali, si raduna per celebrare, fra bruschetta e tablaté, i funerali delle rispettive aspirazioni. L'estrazione è pressoché comune: una certa intellighenzia sfaticata e sfiduciata, che affonda i privilegi di una presunta diversità, bivaccando nel mondo dello spettacolo e dei mass media in genere.
Jean-Louis Trintignant è uno sceneggiatore con moglie premurosa (Milena Vukotic) e crisi da surmenage (si strizza il cervello nella vana ricerca di soggetti comici) che un bel giorno sbarella del tutto e finisce in una delle tante ville Serene che cingono le mura della capitale, oasi tenerissime per chi può fare a meno della mutua; Marcello Mastroianni svolge funzioni di giornalista "à la page" in un quotidiano progressista, ma subisce le vessazioni di una consorte che se ne strampipa di lui e di un comitato redazionale che, volentieri, lo defenestrerebbe; Ugo Tognazzi è una residua figura di produttore "razza Peppino Amato", che tartassa il povero sceneggiatore, ma a sua volta è ossessionato dal calo degli incassi e dalla riluttanza di una moglie (Ombretta Colli, svogliata e appetibile, perfetta nel ruolo) padrona del campo e novella mecenate di talenti post morettiani; Stefano Satta Flores, critico cinematografico come in C'eravamo tanto amati, incattivito e ciarliero per i troppi anni di gavetta che sembra non vogliano mai smettere; e ancora Vittorio Gassman (protagonista con Stefania Sandrelli dell'episodio che ha destato maggior scalpore, senza dubbio il più azzeccato), deputato comunista e responsabile di non so quale commissione che, mollati gli ormeggi e la compostezza dettati dalla carica pubblica, finisce per amoreggiare con la sua bella fra i ruderi del Teatro Marcello, proprio a un tiro di schioppo dalle Botteghe Oscure; infine, Serge Reggiani, funzionario televisivo che preferisce morire di inedia (eroismo o viltà) piuttosto che chinare il capo ai clientelismi di mamma Rai, tanto più che tali sembrano persistere anche dopo l'era della glaciazione o di Bernabei che dir si voglia.
Da tale sinfonia di "casacci" individuali e limitatamente maschili (legittima l'osservazione di alcune femministe: qui sembra che le donne o stiano a fare tappezzeria oppure da complemento alle delusioni dell'uomo, fiere di un riscatto che parrebbe realizzarsi come un viaggio in fuori serie), modulati sui tempi della nostalgia e della fiacca che monta sino alle radici, affiora comunque la tipica costellazione di certa intellettualità capitolina, dominata dal senso dell'impotenza e della pigra assuefazione ai letamai del circondario.
Ambiziosa oltre misura (chi è stato il primo a ventilare il progetto di una Dolce vita anni Ottanta? Il regista dice di non aver colpa), sicuramente incapace di confrontarsi con ambienti e agglomerati sociali che non siano l'entourage raffigurato, inconsciamente votato alla autoconsolazione e alla benevolenza del bilancio esistenziale (verso una generazione di intellettuali che sicuramente detiene meno potere di quello che i profani gli attribuiscono), l'opera di Scola ha tuttavia il merito di aver operato, prioritariamente, una specifica scelta di campo, aggruppando personaggi che certo non saranno né populistici, né comuni alla maggior parte dei mortali, ma visualizzano una larga fauna di operatori culturali cui l'approccio saggistico, letterario o comunque professionale con gli interrogativi di fondo che dominano l'uomo e la società, in epoca di scetticismo epidemico e incertezze ideologiche, ha fatto più male che bene, segnando un varco nelle rispettive coscienze fra visceralità inconsulta e gestione raziocinante di tali infelicità.
Accusare Scola di aver circoscritto il raggio di osservazione ai prototipi della cultura "à la page" sarebbe come - fatte le dovute proporzioni - rammaricarsi che Scott Fitzgerald narrasse degli intellettuali hollywoodiani e non dei minatori che andavano a morire in Alabama. Non è nostra intenzione alimentare la polemica che ha fatto da strascico alla programmazione del film, risolta il più delle volte in disquisizioni pretestuose circa la rappresentatività dei personaggi (scomoda magari fuori le righe, ma vera) o comunque in analisi sociologiche che esulavano totalmente dallo specifico del film. Ciò che, in sede di consuntivo, ci preme invece ribadire è l'esatto dosaggio stilistico che nel film subisce l'andamento degli episodi, riflesso sul rendimento lodevole seppur non straordinario degli interpreti.
Fatta naturalmente salva la buona fede che ha motivato il lavoro di regia, il rifiuto di qualsiasi approssimazione o abborraciamento in sede di sceneggiatura (cura dei particolari, giusta distribuzione del peso fra i singoli tronconi del film) e la sostanziale credibilità di Galeazzo Benti quando manda tutti a quel paese e se ne ritorna in Venezuela, stufo di aver cincischiato e fatto da buffone agli amici di mezza estate. La sequenza conclusiva mostra un brusco acquazzone settembrino che detonifica i fumi dell'irascibilità mentre due ragazzi presenti alla "cerimonia" sussurrano parole che non ascolteremo. Il segno di arresa generazionale è orma esplicito e Scola se ne fa interprete. Né più, né meno.
Angelo Pizzuto, cinemasessanta n. 131, gennaio/febbraio, 1980

Critica (2):In La terrazza, Scola prende il toro per le corna "facendo sul serio", in maniera più approfondita e adoperando un humour più sottile. Colpisce i personaggi al cuore e li smaschera, dalla macchietta all'uomo, fino a renderli persino identificabili, oltre che riconoscibili.
Sono stati in molti, quindi, a sentirsi (Scola, forse, non volente), nell'occhio del mirino di un "J'accuse" generalizzato. C'è stato, perciò, chi ha reagito istericamente, chi si
è scoperto, chi si è barricato, chi si è semplicemente allineato al coro dei dissensi tagliando corto con attacchi indiscriminati. Quasi nessuno ha tenuto conto di quelle che erano le intenzioni dell'autore, ampiamente desumibili da questa dichiarazione, che assumiamo come esemplificativa di tante altre: "La terrazza è il luogo dove, nelle sere d'estate, gli intelligenti romani cenano in piedi. Sono intellettuali, sono borghesi, sono preoccupati: perché sono in età nsionabile, perché il loro prestigio è in lino, per calo d'ispirazione creativa o per mancanza di progetti culturali, per delusione da rivoluzioni mancate o per rimorsi da complicità prestate a misfatti culturali. Ma conoscono la storia e sanno che, quando la borghesia è sembrata sul punto di dover cedere il suopotere ad altre classi, le ha piuttosto assorbite, si è trasformata, ha infine rafforzato il suo ruolo. Ha lasciato le sue scrivanie ai figli e, adesso, alle mogli.
Questo li consola, insieme alla capacità, tutta borghese, di analizzarsi con lucidità e ironia. Incapaci di tragedia, curano la loro nevrosi parodiando se stessi. È un funereo diletto, che però li salva. Il film dovrebbe essere il diario di queste strutture dell'inganno, tenuto dagli eroi del lavoro culturale, nell'ora del "tramonto". [...] Mi occupo di una particolare fascia di questa generazione di cinquantenni che ha a che fare con il mondo delle comunicazione e quindi con le responsabilità connesse a questa comunicazione. Sono personaggi, appunto, che operano attraverso la stampa, il cinema, il teatro, la televisione, e anche la politica - le commissioni culturali dei partiti - e quindi si pongono delle domande, un po' espresse, uno' inespresse, un po' a loro stessi, un po' agli altri: questa informazione che loro hanno portato avanti, è stata anche una formazione giusta? Quello che andava fatto per partecipare alla costruzione della coscienza collettiva è stato fatto? Non si poteva fare qualcosa di più? Credo che questa sia oggi, nei vari settori culturali, la domanda che dobbiamo porci. Cioè, gli intellettuali che hanno questa responsabilità - sia che scrivano un romanzo, che facciano un film, che programmino una trasmissione televisiva, che si occupino della politica culturale di un partito - di fronte al pubblico, di fronte alla cosiddetta massa, che tipo di responsabilità hanno avuto? Come sono riusciti a migliorare, a formare questa coscienza collettiva? La domanda investe anche i critici cinematografici. Sono sicuri i critici cinematografici d'aver fatto quello che dovevano, quello che la loro professione richiede? Non solo di mediazione tra l'opera e il pubblico, ma anche di esatta considerazione di quello che è il pubico e di quello che è l'opera. I critici conoscono il pubblico? Io leggo spessissimo, per esempio, questa frase nelle critiche cinematografiche: "L'autore ha fatto molte concessioni al pubblico". Oppure "molte concessioni alla platea". Personalmente, io credo che vadano fatte tutte le concessioni al, pubblico e alla platea e nessuna al critico cinematografico. Quindi ecco che già non ci intendiamo sul linguaggio, perché evidentemente il critico inconsciamente disprezza il pubblico.
Invece io credo. che un autore non debba assolutamente disprezzarela platea, anche perché nella parola platea non c'è nulla di negativo, anzi, è proprio quella coscienza collettiva che tutti dobbiamo contribuire, semmai, a migliorare"
Sono, questi, interrogativi che La terrazza propone puntualmente, senza però la presunzione di dare e soluzioni. Ponendo tali domande su responsabilità degli intellettuali, Scola non poteva non approdare obiettivamente che ad un affresco di negatività fallimentare.
Anche in La terrazza il discorso è intessuto con il consueto e imprescindibile registro di un umorismo, che. raggiunge esiti di sublimazione della vicenda, elevando i personaggi e le loro storie a valori universali, coniugando il comico con il tragico e facendo scaltrire l'uno dall'altro. Non a caso Mario, parafrasando Pirandello, dice: "Ormai siamo tutti così. Personaggi drammatici che si manifestano solo comicamente".
E la drammaticità dei personaggi ce la rivelano le loro storie fallimentari, sia nel pubblico che nel privato, la loro condizione di vinti, anche quandoo (come alcuni di loro) possono .contare su invidiabili condizioni economiche e di potere. Sono uomini
che si piangono addosso senza accorgersi di essere dei privilegiati. Sono egocentrici, al punto di essere incapaci di parlare con qualcuno, senza proporsi come argomento di conversazione: "La verità - dice Sergio ad Amedeo, - è che siamo tutti così vanitosi che vogliamo per forza o essere ammirati o essere disprezzati, dimenticando che il sentimento più diffuso fra noi è l'indifferenza". Proprio per questi motivi, i protagonisti di La terrazza sono vittime di un inesorabile gioco al massacro, condotto sapientemente in quel nuovo castello della tortura, che è l'accogliente terrazza romana.
La stessa struttura circolare del film, che ogni volta ripropone una situazione sempre uguale a se stessa, sembra renderli claustrofobicamente prigionieri dei loro vizi.
Non basta, come si illude Luigi, trovare la consapevolezza nella parodia di se stessi: "È inutile - gli risponde Enrico - la consapevolezza di essere impresentabili non ha mai assolto nessuno". Così come, mostrarsi in modo diverso da quello che si è, non serve ad acquietare le cattiva coscienza: "I frequentatori delle terrazze romane esitano a mostrare la loro vera faccia; si presentano in modo allegro, gaio, discorsivo, conviviale, ma il loro segreto pensiero, il loro animo sesso non corrisponde a questa maschera',
Questi opulenti borghesi, quindi, altro non sono che dei diversi", i quali si sono autoemarginati dalla realtà, come mostrano le scene finali delle donne che li guardano con sufficienza e dei giovani che voltano loro le spalle.
Per la forte capacità introspettiva e per la garbata ironia, La terrazza può essere considerato un manifesto di dignità artistica dell'umorismo e conforta la tesi del suo autori, secondo la quale tale forma di espressione ha un grande valore artistico, [...] L'umorismo ha una propria forza di contestazione. In questo senso è progressista".
Pier Marco De Santi, Rossano Vittori, I film di Ettore Scola Gremese Editore 1987

Critica (3):

Critica (4):
Ettore Scola
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